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Home Città del Vaticano

Disattese le prescrizioni del papa contro la pedofilia. Con qualche eccezione

Redazione Web by Redazione Web
15 Maggio 2022
in Città del Vaticano
Reading Time: 5 mins read
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41075 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Il protocollo per la gestione degli abusi sessuali nella Chiesa, sancito dal motu proprio di papa Francesco Vos estis lux mundi a maggio 2019, e stabilito ad experimentum per tre anni, è arrivato al capolinea e il bilancio non sembra positivo. Il protocollo richiede ai metropoliti di tutto il mondo di creare, nelle diocesi o eparchie, singolarmente o insieme, «entro un anno dall’entrata in vigore delle presenti norme, uno o più sistemi stabili e facilmente accessibili al pubblico per presentare segnalazioni, anche attraverso l’istituzione di un apposito ufficio ecclesiastico». Si applica anche alle «azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali, nei confronti di un chierico o di un religioso» accusato di abusi, e prescrive l’obbligo, per il prete o il religioso che abbia notizia o fondati motivi» per sospettare di un abuso, di denunciare al vescovo. Quest’ultimo chiede tempestivamente al Dicastero competente l’incarico per avviare l’indagine e il Dicastero, al massimo entro 30 giorni dal ricevimento della segnalazione, provvede a fornire indicazioni su come procedere.

Mons. Scicluna: “Non abbiamo dati”

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In questi tre anni, però le cose non sono andate proprio così. Lo testimonia, in un’intervista al quotidiano francese La Croix (10/5), il sottosegretario del Dicastero per la Dottrina della Fede, incaricato della lotta alla pedocriminalità, mons. Charles Scicluna. Che mette le mani avanti, cercando di trasmettere una valutazione positiva, ma lasciando trapelare l’inefficacia, almeno relativa, del documento: «Oggi non disponiamo di un’indagine globale o di dati esaurienti. Ma quello che sappiamo è che questa legge di papa Francesco è stata ampiamente applicata, e che molte diocesi e giurisdizioni hanno ora creato uffici dove si possono denunciare casi di abusi sessuali su minori». Se rallentamenti ci sono stati, dice, vanno imputati alla pandemia; «tocca ora ai nunzi, che rappresentano il papa nei Paesi, ricordare ai vescovi gli obblighi derivanti da Vos estis lux mundi, compreso il fatto di creare questo luogo dove le vittime possano essere ascoltate e a cui hanno diritto». Luogo che non è così diffuso: «La creazione di un ufficio per la segnalazione in ogni diocesi è un obbligo non negoziabile che deve essere rispettato. Non dipende dalla volontà personale di ciascun vescovo». E poi, anche i fedeli «si aspettano che la Chiesa si assuma le sue responsabilità a livello locale», e «le stesse comunità si aspettano che le richieste del Papa vengano messe in pratica d’ora in poi». D’ora in poi.

La realtà è che diversi vescovi non hanno ancora «la consapevolezza dell’importanza di questo argomento», ammette Scicluna: «In ogni caso, i vescovi non hanno scuse per non attuare questo motu proprio. Posso capire che in alcuni Paesi di missione, specialmente quelli che attraversano crisi, carestie, guerre o disastri naturali, questo è difficile. Ma penso che a livello nazionale sia sempre possibile costruire competenze, nell’ambito della Conferenza episcopale. È anche un’area in cui possono aver luogo scambi tra i vescovi di diversi Paesi» (già, ma il problema è che il documento non è stato tradotto in tutte le lingue). Per quanto riguarda il futuro del protocollo, e il rinnovo o meno, dopo i tre anni ad experimentum, «la decisione finale spetta al papa. Da parte mia, spero che sarà così. Sono convinto che queste misure siano irreversibili e soprattutto non dovrebbero esserci segni di arretramento. Diverse sono le opzioni aperte al papa, tra cui quella di un rinnovo dell’esperimento per tre anni, o la sua estensione alle comunità religiose».

Una serie infinita di colli di bottiglia

Se Scicluna afferma che un bilancio ancora non è disponibile, un’idea chiara è possibile farsela grazie all’inchiesta condotta da La Croix (9/5) su tutte le Conferenze episcopali del mondo, con una decina di domande rispetto all’applicazione di quanto prescritto dal motu proprio. Che, nella povertà delle risposte – già di per sé un segnale – evidenzia un’interminabile serie di ostacoli e di carenze.

Infatti, solo 26 Conferenze episcopali hanno accettato di rispondere alle domande, un quinto degli episcopati, tra cui Francia, Polonia, Madagascar, Taiwan, Giappone e Russia. La Germania ha replicato che avrebbero risposto solo alla Santa Sede.

Cosa emerge dalle risposte? In primo luogo che il documento è stato ampiamente diffuso: oltre che in francese, inglese, italiano e spagnolo, è stato tradotto dalle Conferenze episcopali in russo, ungherese, giapponese, indonesiano, tamil e mandarino. Detto questo, solo la metà degli episcopati che hanno risposto indica che il documento è disponibile sul loro sito web; l’edizione cartacea esiste solo in un Paese su quattro.

Riguardo all’ufficio dedicato alle segnalazioni di abusi da attivare presso le diocesi entro un anno, dunque entro il 1 giugno 2020, un quarto delle Conferenze episcopali che hanno risposto non l’ha ancora creato. Alcuni Paesi, come la Repubblica Centrafricana o il Guatemala, hanno tuttavia assicurato che questi uffici saranno creati entro la fine dell’anno.

I fedeli che vogliano contattare questi uffici, devono informarsi su internet, dal momento che raramente si trovano informazioni nelle parrocchie. In due Paesi africani che hanno risposto, «la modalità è a dir poco sorprendente», commenta La Croix: «Chiunque voglia accedere a questo ufficio deve chiedere al proprio parroco i mezzi per contattare l’ente segnalante. Tale provvedimento non sembra poter consentire la libera segnalazione, il che mette in discussione la rilevanza di questi uffici».

La segnalazione il più delle volte può avvenire telefonicamente o via Internet. In alcuni Paesi, come Austria e Polonia, è prevista anche la possibilità di un incontro di persona, mentre in altri, come Papua Nuova Guinea o Burundi, gli incontri “faccia a faccia” sono l’unica possibilità: anche in questo caso, una modalità che non favorisce la denuncia.

Riguardo ai dati effettivamente raccolti finora, molte Conferenze episcopali non hanno risposto. «Non abbiamo informazioni su questo argomento perché il sistema opera a livello diocesano», ha spiegato la Conferenza episcopale ungherese. Stessa risposta da parte della CEI: «La Conferenza episcopale non è a conoscenza di questi elementi perché rientrano nella competenza dell’Ordinario diocesano».

«L’indagine mette così in luce un altro punto cieco nella prevenzione degli abusi: il predominio del vescovo», commenta il quotidiano francese. «Pertanto, gli uffici di segnalazione, le risorse stanziate e il trattamento riservato ai fatti denunciati dipendono in gran parte dal vescovo locale. Egli è così padrone nella sua diocesi del luogo concesso alla prevenzione e alla lotta agli abusi».

Alcune Conferenze episcopali, tra cui la Francia, dichiarano di non disporre di un dato complessivo per il numero delle vittime identificate. Altri sì, come la Bulgaria, dove non è stato individuato nessun caso. Nella Repubblica Centrafricana e in Guatemala, meno di cinque file sono stati trasmessi al Dicastero per la Dottrina della Fede, mentre in Polonia, tra il 1 luglio 2018 e il 31 dicembre 2020 sono state fatte ben 368 denunce.

Un altro collo di bottiglia è la risposta da Roma ai casi segnalati. Molti dei Paesi che hanno inviato rapporti dichiarano di non aver ancora ricevuto feedback dalla Santa Sede, o almeno non su tutti i casi; i vescovi polacchi hanno ricevuto una risposta solo per 186 casi su 368. Scarsità di risorse nella seconda sezione del Dicastero della Dottrina della Fede? Se ogni anno arrivassero 500 fascicoli, secondo l’agenzia specializzata I.Media, «i tempi di elaborazione potrebbero durare mesi, in certi casi anche anni».

https://www.adista.it/articolo/68046

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