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Home NEWS e CRONACA LOCALE

Suore abusate, la Chiesa è sorda al #metoo. “Ho denunciato violenze, non è servito a nulla”

Federica Tourn by Federica Tourn
15 Marzo 2021
in NEWS e CRONACA LOCALE
Reading Time: 9 mins read
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Federica Tourn MILLENNIUM Il FattoQ 13-2-21 – «Ero una giovane suora, lui era il responsabile provinciale della mia congregazione. Una sera ha insistito per darmi un passaggio: appena un po’ fuori dal centro abitato ha allungato le mani; mi sono buttata fuori dall’auto e ho visto che si masturbava». Nadia (nome di fantasia) è stata suora per più di trent’anni in Italia, salvo una breve parentesi in una missione africana. Aveva raggiunto un ruolo di rilievo in un importante ente religioso ma, a dispetto di una forte vocazione, ha deciso di lasciare l’abito a causa delle sofferenze patite. Con questa intervista, per la prima volta esce dal silenzio: la sua è una storia di fatica e di sfruttamento, di abusi e di una strenua resistenza a un ambiente corrotto. «Il padre provinciale ha provato moltissime volte a violentarmi – continua – in tante venivamo molestate, bastava rimanere da sola in una stanza e te lo trovavi addosso. Ho detto tutto al suo superiore ma non è servito a niente».

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Non è stato l’unico: «Nella mia vita avrei dovuto denunciarne almeno quattro – specifica Nadia – Una volta, in missione in Africa, un prete di un’altra congregazione si infilò in camera mia durante la notte e mi violentò. Oggi è parroco in Belgio». In Italia, mentre frequenta un’università religiosa grazie a una borsa di studio, Nadia viene molestata dal rettore: «Mi ha chiamata nel suo ufficio con la scusa di un documento da fotocopiare – ricorda –  e, dopo aver chiuso la porta alle mie spalle, mi ha preso la mano destra e l’ha appoggiata sui genitali per farmi sentire l’erezione». Fa una pausa, si sente il disgusto, tenace attraverso gli anni. «Mi viene una rabbia perché questo prete era cappellano e confessore spirituale di un convento: se ha osato provarci con me, che ero una conosciuta e italiana, cosa avrà fatto con le giovani provenienti da altri paesi, sole e vulnerabili?».

«Che cosa potevo fare? – prosegue Nadia – Era amico intimo di Buttiglione, del cardinale Angelini e di Andreotti: chi mi avrebbe dato retta?». Anni dopo, però, quando ormai non è più suora, Nadia incontra un altro prete, confratello del rettore, e gli racconta che ha studiato alla loro università ma che si è trovata male a causa di quel sacerdote. «“Lo sappiamo” mi ha risposto lui, senza esitazioni – ricorda oggi Nadia – Aveva capito immediatamente a che cosa mi riferivo. Sapevano tutto e non lo hanno fermato».

La storia di Nadia è tutt’altro che un caso isolato e parla di una realtà molto diffusa, che tuttavia fatica ad emergere. Se il dramma della pedofilia nella chiesa è ormai davanti agli occhi di tutti, con tanto di mea culpa ecclesiastici e (alcuni) processi eccellenti, gli abusi sulle suore da parte dei preti restano un buco nero da cui è quasi impossibile far emergere verità, dati e testimonianze, figuriamoci intravedere un percorso di giustizia. Soprattutto in Italia, dove su tutto incombe lo Stato Pontificio. Infatti, se in Francia il tema degli abusi sulle suore è stato trattato dal documentario choc di Eric Quintin e Marie-Pierre Raimbault Religieuses abusées, l’autre scandale de l’Église, trasmesso da Arte, nel nostro paese i tentativi di fare breccia nell’omertà del clero vengono ripagati duramente. Lo sa bene Lucetta Scaraffia, ex direttrice del mensile Donne Chiesa Mondo, supplemento dell’Osservatore Romano: proprio un suo articolo, nel febbraio 2019, ha scatenato la reazione delle gerarchie, portandola alle dimissioni. «Mi fu fatto capire che non dovevamo parlare di abusi sul giornale – racconta oggi – Quando il direttore dell’Osservatore cominciò a voler controllare le bozze, realizzai che la mia libertà d’azione era finita». Prima di andarsene, però, decide di sferrare il colpo e pubblica l’articolo sulle religiose abusate: «Abbiamo ricevuto tantissimi messaggi da parte delle suore, ci lasciavano fiori e bigliettini in redazione per ringraziarci di aver parlato delle loro sofferenze, una cosa commovente», ricorda. Il suo articolo, linkato ovunque al momento della pubblicazione, oggi è irreperibile sul web, quasi non fosse mai stato scritto.

Le donne consacrate non hanno potere decisionale e la loro parola non conta nulla in un ambiente già segnato da una profonda disuguaglianza di genere: «Le suore vivono una grave mancanza di considerazione nella chiesa: il loro lavoro è gratuito o poco pagato e spesso vengono trattate come serve dei preti», conferma Scaraffia. Inoltre la rigida gerarchia interna alle congregazioni mortifica in molti casi le vocazioni personali e costringe le suore a chiedere il permesso alla madre superiora per ogni minima cosa, dai soldi per la biancheria alla possibilità di studiare. Non sono rare le punizioni, soprattutto per le novizie: «Una ex suora ci ha raccontato di essere stata tenuta in ginocchio per ore sulle pietre per non aver eseguito un’incombenza e, in generale, le vessazioni psicologiche sono molto diffuse – racconta la psicologa Lorita Tinelli, del Centro studi sugli abusi psicologici di Bari – Sappiamo di alcuni casi in cui ancora viene utilizzato il cilicio per i pensieri peccaminosi. Le ragazze che prendono il velo devono rinunciare completamente al mondo esterno e levigare il carattere fino ad aderire completamente alle regole della comunità».

Una vita che per molte, anche senza arrivare alla violenza sessuale, è un’esperienza sfiancante di solitudine e sfruttamento. Forse anche per questo sono sempre di meno a prendere i voti: secondo l’ultimo Annuario Statistico della Chiesa, le religiose professe nel 2018 nel mondo erano 648.910, rispetto alle 722mila del 2010. Da notare che il numero delle religiose supera di molto quello dei religiosi professi (non sacerdoti), che nel 2018 erano meno di 51mila, e restano la maggioranza anche se a questi si aggiungono i preti (414.582). Per l’Italia, difficile avere dati: secondo una ricerca del periodico Testimoni, nel 2014 le suore erano 89mila, di cui il 46% ultrasettantenni, a fronte delle 154mila del 1971.

Le suore e le monache, bisogna ricordarlo, non possono celebrare la messa né amministrare i sacramenti e questo apre le porte di conventi e monasteri ai sacerdoti, che le avvicinano in veste di confessori e padri spirituali: «È proprio nelle relazioni pastorali, a causa della grande differenza di potere fra prete e suora, che si crea quello spazio ambiguo in cui attecchisce l’abuso», spiega suor Mary Lembo. Originaria del Togo, suor Mary nel 2019 ha ottenuto il dottorato in psicologia alla Pontificia Università Gregoriana con una tesi sulle violenze commesse dai preti sulle religiose in Africa, il primo studio scientifico sull’argomento. «Facevo formazione sulla maturità affettiva e sessuale a novizie e seminaristi e in molte venivano a raccontarmi di avere avuto rapporti sessuali indesiderati – racconta – Le suore sono intrappolate in rapporti asimmetrici: molte sono ragazze svantaggiate che dipendono dal sostegno, anche economico, del prete, altre sono soggiogate dal suo carisma spirituale». Il sacerdote abusante sa bene come manipolarle, prima conquistando  la loro fiducia e poi facendo leva sulla devozione e sul voto di obbedienza per ottenere favori sessuali: «I preti spesso spacciano le loro azioni per volontà divina – aggiunge suor Mary – una suora violentata da un missionario mi raccontò che il suo stupratore mentre la toccava le diceva che era “la mano di Dio”». Non è un problema solo africano: «Come consulente, qui in Italia ho ascoltato tante testimonianze di religiose abusate», sottolinea suor Mary.

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Ma quante sono le suore che subiscono violenza? Non c’è modo di avere dati certi. L’unica ricerca realizzata finora riguarda gli Stati Uniti e risale al 1998, quando John Chibnall, Paul Duckro e Ann Wolf dell’Università di Saint Louis in Missouri pubblicano un’inchiesta condotta su 1164 religiose, da cui emerge che il 12,5% delle suore (all’epoca 89mila nel paese) ha subito una qualche forma di violenza sessuale. Una su otto: decisamente un problema che non riguarda soltanto i paesi in via di sviluppo.

Le suore, però, non parlano. Alle poche che trovano il coraggio di rompere il silenzio viene rinfacciato di voler “rovinare un prete” o di “distruggere la chiesa”. Le stesse madri superiore raramente le supportano, quando addirittura non diventano complici dei molestatori, accettando di mandare suore “in missione” dai preti che ne fanno richiesta. «Le religiose non possono competere con la buona fama del confessore che abusa di loro», conferma suor Tiziana Merletti, della comunità delle Francescane dei Poveri. «Allora tacciono, soprattutto se straniere, perché temono di essere rispedite al paese di provenienza. Perché questo è quello che succede: non fermano lui, ma al massimo allontanano lei». In ogni caso, la religiosa viene mandata via subito se rimane incinta: «È capitato che il sacerdote sostenesse economicamente l’ex suora e il bambino – dice suor Tiziana – ma il più delle volte le ragazze vengono semplicemente abbandonate al loro destino».

I preti, dal canto loro, sono certi dell’impunità e si sentono intoccabili: «Molti interpretano la promessa di castità come vogliono – chiosa suor Mary – in seminario dichiaravano apertamente che nessuno praticava davvero l’astinenza sessuale: il voto di celibato significa che non ti puoi sposare, mi dicevano, non che non puoi fare sesso».

Dalle gerarchie, poi, è più facile aspettarsi ritorsioni che ascolto: «So di religiose che hanno subìto azioni ingiuste – conferma suor Mary – Le suore denunciano per evitare che altre subiscano la stessa sorte ma poi si rendono conto che a parlare si sono soltanto complicate la vita, mentre chi ha fatto del male non viene toccato». Oggi, la lotta di suor Mary è rendere le suore il più possibile forti e consapevoli di sé stesse, capaci di difendersi da sole. La religiosa togolese è molto chiara: «Non manderò mai una suora dal vescovo a denunciare una violenza, perché il vescovo sempre proteggerà il suo prete».

Eppure, quel che succede in certe sacrestie, nel silenzio dell’ufficio del parroco o nel confessionale della chiesa di quartiere, non è né un mistero né una novità, per il Vaticano. Già nel 1994 una suora irlandese missionaria in Africa, Maura O’Donohue, invia un rapporto confidenziale a Roma in cui denuncia la prassi di molti preti e vescovi di stuprare le suore – invece delle donne locali – per tutelarsi dall’epidemia di Aids in corso nel continente. Nel documento si menzionano 23 paesi (fra cui l’Italia) in cui si rintracciano episodi di violenza da parte del clero ai danni di religiose: nel 1988 in Malawi 29 suore rimangono incinte dopo essere state abusate dai preti della diocesi; in un altro caso, un sacerdote costringe una suora ad abortire: lei muore durante l’intervento e lui ne celebra impassibile il funerale. Quattro anni dopo, un nuovo rapporto di un’altra religiosa, Marie McDonald, conferma l’entità del dramma e sottolinea che sono particolarmente vulnerabili le giovani suore straniere mandate a studiare a Roma, a cui spesso vengono richiesti favori sessuali in cambio di un aiuto con la lingua.

I rapporti diventano pubblici soltanto nel 2001, grazie a uno scoop del National Catholic Reporter: a quel punto la chiesa è costretta ad ammettere che la faccenda è da tempo nota a San Pietro. Persino Strasburgo si allarma e in una Risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile rende noto che sono stati trasmessi al Vaticano almeno cinque rapporti su questo tema, secondo i quali molte religiose stuprate sono state anche costrette a dimettersi, ad abortire e, in certi casi, sono state infettate dall’Hiv. Nel 2002 scoppia lo scandalo degli abusi sui minori grazie alla nota inchiesta del Boston Globe, raccontata poi nel film Spotlight; sembra un motivo in più per andare alle radici di ogni forma di violenza nella chiesa cattolica ma non è così: lo choc per i bambini oscura tutto il resto. Le suore vengono dimenticate.

In Italia, a fine 2018, qualcosa si muove. Il primo sasso nello stagno lo lancia il 23 novembre la Uisg, l’Unione internazionale delle superiori generali, con un appello in cui esorta le donne consacrate a denunciare. Poche settimane dopo, su twitter compare l’hashtag #NunsToo e, dopo la pubblicazione dell’articolo di Scaraffia, finalmente anche il papa prende posizione: il 5 febbraio 2019,di ritorno da Abu Dhabi, ammette per la prima volta la realtà degli abusi mentre parla con i giornalisti e, tre mesi dopo, ripete le stesse cose alle madri superiori della Uisg riunite nell’assemblea plenaria. Appena tre giorni prima aveva diffuso il Motu proprio “Vos Estis Lux Mundi” in cui sottolineava la condanna di ogni atto sessuale perpetrato con «violenza, minaccia o mediante abuso di autorità». Vengono disposti nuovi strumenti per tutelare le vittime: sportelli per le denunce in ogni diocesi, supervisori, commissioni miste (con laici): un sistema capillare, almeno nelle intenzioni, che va ad aggiungersi alla Commissione Pontificia e al Servizio nazionale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili nell’attività di prevenzione e formazione nelle chiese. Nelle “Linee guida” del giugno 2019, infine, si chiarisce la direzione presa con il Motu proprio, incoraggiando la segnalazione alle autorità dello Stato degli abusi commessi in ambito ecclesiale. Denunciare rimane però un obbligo morale, non giuridico: una questione di coscienza, insomma, non un dovere sancito dalla legge. Niente è innovato rispetto al Concordato: quel che accade in ambito ecclesiastico è disciplinato dal diritto canonico e resta blindato all’interno di San Pietro.

Se si prova a capire quante sono le inchieste (e gli esiti) dei processi nei tribunali ecclesiastici, infatti, ci si ritrova ancora di fronte a una porta chiusa. Il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che si occupa della supervisione delle comunità religiose, ha rifiutato di farsi intervistare da FQ MillenniuM e la stessa Uisg non è in grado di valutare l’impatto dell’appello lanciato ormai più di due anni fa. «Sulle congregazioni non abbiamo competenza –  spiega suor Patricia Murray, segretaria esecutiva dell’Unione delle Superiore generali – A noi direttamente sono arrivati pochi casi, che abbiamo girato alle autorità competenti: non conosciamo però l’esito delle segnalazioni».

Le denunce finite davanti a un tribunale penale si contano finora sulle dita di una mano: la prima risale al 2006, quando un frate francescano, padre Fedele Bisceglia, viene accusato di stupro da una suora. È condannato in primo e secondo grado a nove anni e tre mesi ma la Cassazione rinvia il giudizio a un nuovo processo d’appello, che lo scagiona completamente: dalle intercettazioni emerge sì “una personalità del frate, anche dal punto di vista sessuale, molto sopra le righe, ma mai una una condotta violenta”, si legge nelle motivazioni dell’appello bis, poi confermate dalla Cassazione, nelle quali la suora non è ritenuta credibile sui fatti denunciati. Le francescane guidate da suor Tiziana Merletti, all’epoca superiora generale, ne escono deluse: «Esprimiamo rammarico per questa pagina di storia che oggi si è scritta per la nostra suora e per tutte le donne», scrivono in un comunicato uscito dopo la sentenza definitiva di assoluzione. Nel 2018, nuovo caso, nuovo buco nell’acqua: padre Giovanni Salonia, sacerdote e terapeuta, viene querelato da una suora sua ex paziente, ma la giudice stabilisce il non luogo a procedere perché la denuncia è arrivata oltre il tempo massimo.

Tutto, alla fine, sembra rientrare nei ranghi: i sacerdoti di nuovo sul pulpito, le suore nel silenzio del convento o estromesse dalla vita consacrata, le commissioni ecclesiastiche e i tribunali pontifici al lavoro ma senza l’obbligo di rendere conto allo Stato, nonostante l’invito alla trasparenza arrivato a più riprese anche dall’interno della chiesa. Suor Patricia Murray insiste sul lavoro di formazione nelle congregazioni ma, ammette, occoreranno anni prima di vedere i risultati.

Nel frattempo, come avere la certezza che gli abusi vengano puniti? Ancora una volta, a quanto pare, è tutta una questione di fede.

Federica Tourn MILLENNIUM Il FattoQ 13-2-21

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Federica Tourn è giornalista professionista; come freelance si è occupata soprattutto di migranti, religioni, diritti umani, mafie, femminismo. Ha scritto reportage da diversi paesi, dalla Siria al Libano, dalla Bosnia all’Ucraina; ha collaborato fra gli altri con Diario, D Repubblica, Il Manifesto, Left, Rolling Stone, Vanity Fair, Marie Claire, Famiglia Cristiana, Pagina99, Eastwest, FQ Millennium, Huffington Post UK, Geographical. Insieme ad altre donne, nel 2007 ha pubblicato per l’editrice Claudiana La Parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi e nel 2020 per le edizioni Aut Aut ha scritto Rovesciare il mondo. I movimenti delle donne e la politica. Su Jesus cura le rubriche “Ecumene” e “Le Straniere”. Per Domani dal 2022 si occupa dell’inchiesta sulla violenza nella Chiesa cattolica. Nel 2020 ha vinto la prima edizione del  “Piazza Grande Religion Journalism Award”, organizzato dall’Iarj, l’Associazione internazionale di giornalisti religiosi, e nel 2023 la seconda edizione del Premio Mimmo Cándito-Per un giornalismo a testa alta.

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