Prete abusa di un minore per tre anni: la qualita rivestita dall’imputato ha facilitato la commissione del reato e, pertanto, la pena va commisurata alla gravita.
la qualita rivestita dall’imputato ha facilitato la commissione del reato.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 6 – 27 marzo 2014, n. 14545
Presidente Brusco – Relatore Iannello
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 27/01/2012 la Corte d’Appello di Milano confermava la decisione in data 21/12/2010, emessa dal G.U.P. del Tribunale di Milano a seguito di giudizio abbreviato, con la quale P.D. era stato riconosciuto colpevole del reato di cui agli artt. 81 cpv., 609-bis, comma 2 n. 1, 609-ter n. 1, 61 nn. 5, 9 e 11 cod. pen., per aver indotto in piu occasioni, nel periodo compreso tra il 2/9/2006 e l’ottobre 2009, un minore (nato nel 1992) a subire e praticare rapporti sessuali, abusando delle condizioni di inferiorita fisica e psichica derivanti dalla differenza di eta (quarantacinque anni) e dal divario culturale, economico e sociale nonche della fragilita personologica della persona offesa, commettendo i fatti anche quando il minore non aveva ancora compiuto i quattordici anni, con le ulteriori aggravanti della minorata difesa, della violazione dei doveri inerenti alla sua qualita di ministro del culto cattolico e dell’abuso di ospitalita.
Su ricorso dell’imputato, la terza sezione di questa Suprema Corte con sentenza del 27/09/2012 annullava tale decisione con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano, limitatamente all’aggravante prevista dall’art. 61 n. 9 cod. pen..
Premesso che, al riguardo, i giudici di merito avevano evidenziato come la qualita rivestita dall’imputato avesse facilitato la commissione del reato, da un lato per il fatto che lo stesso si era presentato alla vittima come missionario e, in quanto tale, conoscitore del paese di provenienza del medesimo e, dall’ altro, per avere utilizzato la sua condizione nel presentarsi ai familiari del minore ed ai responsabili della comunita giustificando cosi la perdurante relazione con il ragazzo, rilevava la Cassazione che tale allegazione, peraltro generica, poteva qualificarsi come «fattore agevolativo indiretto» alla commissione del reato, di per se non sufficiente a giustificare l’applicazione dell’aggravante, in quanto evidenziava al piu il mero abuso dello stato sacerdotale ma non l’abuso di potere o la violazione dei doveri inerenti a tale qualita, pure richiesti dalla giurisprudenza, risultando invece mancante la necessaria indicazione dei poteri dei quali l’imputato avesse abusato o dei doveri, ancorche generici, ai quali egli fosse venuto meno nel commettere il reato, cosi da collocare il suo status al di la della mera correlazione con l’azione delittuosa commessa.
Pronunciando in sede di rinvio, con sentenza del 30/01/2013 la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza di primo grado relativamente all’aggravante in questione e al correlato trattamento sanzionatorio.
Ripercorsi gli aspetti salienti della vicenda, rilevava la corte territoriale che lo scenario descritto basta ad individuare che lo stato sacerdotale di Don P. ha in essa avuto rilievo, rimarcando in particolare in tal senso che:
il P., presentandosi al ragazzo come missionario, faceva riferimento alla sua veste religiosa, ruolo con cui era conosciuto e si era presentato anche ai familiari e agli operatori e tale da agevolare la frequentazione, allontanando i sospetti dalla sua natura di soggetto dedito a pratiche sessuali proibite;
egli inoltre convinceva il minore a seguirlo presso l’abitazione e a soggiacere alle richieste sessuali, approfittando dell’autorita e del prestigio connessi alla qualita di sacerdote, tradendo la fiducia di chi aveva fatto affidamento sul ministero da lui svolto e sull’osservanza, da parte sua, dei doveri correlati alla condizione di sacerdote, tenuto al voto di castita;
i rapporti, anche di natura sessuale, instaurati col minore, si erano a lungo protratti anche in occasione delle visite che il ragazzo faceva al prete di domenica (giorno dedicato nella credenza religiosa alle pratiche del culto);
indipendentemente dalla fede religiosa del minore, «il sacerdote era comunque tenuto ad osservare, per quanto lo riguardava, i doveri spettanti ad un ministro del culto»;
il P. come tale era «rispettato e considerato sia dalla vittima della condotta di abuso, sia dal contesto familiare del minore e dagli operatori della comunita che avevano avuto occasione di incontrarlo e di proporgli l’affido temporaneo»;
dalle stesse dichiarazioni della vittima, emergeva che il prete lo aveva indotto alle pratiche sessuali dicendogli che «era una cosa normale», espressione tanto piu convincente in quanto indirizzata ad un minore, di fragile personalita e minato dalle esperienze vissute; all’interno della sua abitazione erano stati inoltre rinvenuti e sequestrati, fra gli altri materiali, anche un raccoglitore contenente ritagli di giornali sui rapporti tra Chiesa ed omosessualita e due libri sull’argomento.
In ordine alle conseguenze del reato, evidenziava inoltre il giudice a quo che, nei colloqui con il consulente specialista in neuropsichiatria infantile, il ragazzo era apparso confuso, disorganizzato e angosciato e tendeva a tornare sul tema degli abusi, rappresentandosi come vittima di un raggiro, di un inganno perpetrato da una persona malevola: fatti in conseguenza dei quali aveva sviluppato un disturbo post-traumatico da stress di entita severa ad andamento cronico.
Riteneva pertanto che, «in tale condizione, la violazione dei doveri sacerdotali da parte dell’imputato ha qualificato la condotta in termini di maggiore pericolosita, come tale meritevole di aggravamento di pena».
2.1. Con riferimento inoltre al dubbio di incostituzionalita sollevato dalla parte con riguardo all’art. 47 legge 26/07/1975, n. 354, circa il trattamento penitenziario incombente, rilevava la Corte d’appello che si trattava di questione «sfornita di rilevanza ai fini del decidere non essendo compito dei giudici di merito quello di individuare le modalita del trattamento penitenziario, rimesse alla magistratura di sorveglianza una volta approdata la sentenza allo stato di irrevocabilita».
Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato, per ministero dei propri difensori di fiducia, articolando tre motivi.
3.1. Con il primo deduce violazione di legge e vizio di motivazione rilevando che, nel ravvisare l’aggravante in contestazione nella violazione del voto di castita fatto all’atto dell’assunzione del sacerdozio, la corte territoriale erroneamente identifica tout court la violazione dei doveri inerenti alla qualita di ministro di culto nel compimento di atti sessuali, gia di per se integrante il fatto tipico del reato contestato, laddove invece la circostanza aggravante dovrebbe come tale distinguersi da questo e accedere allo stesso onde fondare il giudizio di maggior gravita.
Soggiunge che, a tal fine, nessun rilievo in particolare puo assegnarsi al dato temporale rimarcato in sentenza secondo cui i rapporti di natura sessuale avevano luogo anche in occasione delle visite domenicali.
3.2. Con il secondo motivo, in via subordinata, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla misura dell’aumento di pena.
Rileva che, dando rilievo all’arco temporale e alla reiterazione dei comportamenti, ai fini della quantificazione dell’aumento di pena, la corte milanese e incorsa in errore di diritto atteso che la reiterazione di comportamenti da luogo a un reato continuato, e non ha invece alcun rilievo nella commisurazione della pena base, da commisurarsi con riferimento all’episodio ritenuto piu grave.
3.3. Con un terzo motivo, in via ulteriormente gradata, il ricorrente infine reitera la questione di legittimita costituzionale, dedotta nel giudizio di appello ma disattesa con la sentenza impugnata, per violazione degli art. 3 e 27 Cost., con riferimento agli art. 47-ter, comma 1, e 4-bis, comma 1-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui tali disposizioni, che prevedono rispettivamente l’esclusione della possibilita di detenzione domiciliare per l’ultrasettantenne condannato per abuso sessuale ai sensi dell’art. 609-bis cod. pen. e la necessita che, nel caso di condanna per tale delitto, la concessione di misure alternative alla detenzione sia subordinata alla osservazione scientifica della personalita condotta in carcere per almeno un anno, si applicano anche nel caso in cui il condannato sia agli arresti domiciliari sulla base di una positiva valutazione giudiziale di sufficienza di tale misura.
In punto di rilevanza della questione, osserva che, in caso di rigetto dei precedenti motivi di ricorso, l’applicazione delle disposizioni suindicate dell’ordinamento penitenziario, sebbene non direttamente fatta dalla Corte di cassazione, risulterebbe comunque effetto immediato e non evitabile nella fase esecutiva aperta dal giudizio di ultima istanza, sicche non vi sarebbe alcuna differenza fra la situazione in questione e i casi in cui si discuta della legittimita costituzionale di disposizioni sanzionatorie da applicare direttamente nel giudizio di cognizione.
Quanto al fumus di fondatezza rileva in buona sintesi che, con riferimento alle disposizioni di ordinamento penitenziario segnalate, la questione sollevata e sostanzialmente sovrapponibile a quella che e stata oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 7 luglio 2010 che ha dichiarato l’illegittimita costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. «nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, e applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresi, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelare possono essere soddisfatte con altre misure».
Analogo profilo di incostituzionalita deve secondo il ricorrente rilevarsi con riferimento alle norme segnalate, nella parte in cui – in deroga alla regola generale della detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni – impongono rigidamente il carcere, sulla base di una presunzione di pericolosita in ragione del tipo di delitto (abuso sessuale) per cui sia stata pronunciata condanna, e non fanno salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dei quali risulti che le esigenze di prevenzione speciale possono essere soddisfatte con le misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario.
Considerato in diritto
E infondato il primo motivo di ricorso.
Secondo principio incontrastato nella giurisprudenza di legittimita, in tema di aggravante dell’abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti alla qualita di ministro di un culto, non e necessario che il reato sia commesso nella sfera tipica e ristretta delle funzioni e dei servizi propri dei ministero sacerdotale, ma e sufficiente che a facilitarlo siano serviti l’autorita ed il prestigio che la qualita sacerdotale, di per se, conferisce e che vi sia stata violazione dei doveri anche generici nascenti da tale qualita (cfr., ex aliis, Sez. 3, n. 37068 del 24/06/2009, Abbiati, Rv. 244963; Sez. 2, n. 9334 del 26/02/1988, Raspini, Rv. 179204).
Non e dunque necessaria, per ritenere sussistente l’aggravante in questione, la ricerca di un nesso strettamente funzionale fra fatto delittuoso e ministero di culto esercitato dall’autore del delitto, occorrendo soltanto che fra abuso dei poteri o violazione dei doveri a questo connessi ed evento esista un nesso di mezzo a fine, cioe un nesso strumentale, che, se non e ravvisabile in ipotesi di rapporto di mera occasionalita, puo certamente ritenersi sussistente qualora il ministero religioso esercitato dall’autore abbia facilitato ovvero reso piu agevole la commissione del reato.
La sentenza impugnata si conforma a tale principio, dando ragione, in modo ampio e logicamente coerente, degli elementi che inducono a ritenere sussistente tale rapporto di strumentalita tra il ministero sacerdotale esercitato dall’imputato e la perpetrazione degli abusi sessuali ai danni del minore, laddove in particolare evidenzia, sulla base di indiscussi elementi fattuali emergenti dall’istruttoria e in termini che risultano perfettamente pertinenti alla questione posta al suo esame, che da un lato la veste religiosa nella quale l’imputato si e presentato al ragazzo nonche ai suoi familiari e agli operatori ha avuto un ruolo rilevante nell’agevolarne la frequentazione, fondando un rapporto fiduciario tale da non far apparire in alcun modo sospetta la frequentazione con il minore e l’ospitalita allo stesso riservata anche presso la propria abitazione e, dall’altro, al tempo stesso cio e stato condotto con abuso dei poteri e dei doveri inerenti al proprio ministero sacerdotale, piegato ai propri scopi illeciti e devianti.
In tal senso particolarmente significativo si rivela il riferimento:
a) al rispetto, alla considerazione e alla incondizionata fiducia che proprio la veste sacerdotale ha consentito all’imputato di acquisire, nei rapporti con il minore, i suoi familiari e i responsabili della comunita ove lo stesso era inserito, indipendentemente dall’adesione o meno al suo credo religioso: piena fiducia che altrimenti non gli sarebbe stata riconosciuta con altrettanta facilita e immediatezza ed evidentemente ottenuta attraverso una sorta di facile ed efficace “mimetizzazione” della diversa natura del rapporto instaurato dietro la verosimile apparenza di un interesse legato al proprio ministero pastorale;
b) alla presentazione al minore delle pratiche sessuali come «una cosa normale», tanto piu efficace e convincente in quanto inserita nel contesto di un rapporto personale ammantato da propositi di istruzione ed educazione, a loro volta rafforzati dalla propria qualita sacerdotale;
c) all’azione di persuasione in particolare mirata a far si che il minore lo seguisse presso la propria abitazione, anch’essa condotta in forza dell’autorita e del prestigio connesso alla condizione di sacerdote.
La sentenza impugnata dunque, ben mettendo in evidenza i detti aspetti della vicenda, resiste alle iterate censure dell’imputato, anche indipendentemente dal riferimento, oggetto di specifica critica, alla violazione del dovere di castita e al dato temporale costituito dalla perpetrazione degli illeciti rapporti sessuali anche in occasione delle visite domenicali effettuate dal ragazzo all’imputato.
Quanto alla prima, per vero, se da un lato, essa e certamente implicita nella stessa condotta integrante la fattispecie di reato, dall’altro, di per se non assume una distinguibile valenza aggravante nei sensi predetti, se non nella misura in cui il dovere violato possa ritenersi contribuire all’immagine di totale e disinteressata dedizione al prossimo a priori comunemente riconosciuta in capo a chi ha consacrato la propria vita al ministero di sacerdote dei culto cattolico e dalla quale nella specie e accertato che l’imputato ha tratto vantaggio nei sensi predetti; in tal senso, pero, e evidente che il rilievo di tale dovere violato in se non si distingue ai fini in parola da quello attribuibile piu in generale alla veste sacerdotale ed al piu ampio complesso dei doveri e dei valori da essa rappresentati e nella specie certamente violati.
Quanto al secondo, analogamente, non sembra che la circostanza temporale della perpetrazione dei reati anche nella giornata di domenica, peraltro solo incidentalmente rimarcata dal giudice d’appello, possa assumere – avuto anche riguardo alla diversa fede religiosa del ragazzo e al luogo in cui erano commessi – autonomo rilievo nel senso predetto e distinguersi dal piu generale contesto di duraturo tradimento della condizione sacerdotale, comunque ampiamente desumibile dagli altri elementi sopra considerati, valendo semmai solo a confermarne ulteriormente il profondo radicamento nella coscienza e nella determinazione volitiva dell’imputato.
E infondato anche il secondo motivo di ricorso.
E evidente infatti che, al di la del riferimento alla reiterazione delle condotte, la giustificazione del peso attribuito nella determinazione del trattamento sanzionatorio all’aggravante in questione poggia comunque del tutto adeguatamente sul riferimento alle modalita della condotta e al ruolo fortemente agevolativo della stessa nella consumazione del reato, oltre che sull’effetto moltiplicativo che l’essere il reato commesso da sacerdote nel contesto del descritto rapporto ha avuto in termini di pregiudizio sulla psiche del ragazzo.
A conforto di tale valutazione – in se incontestata e fondata su consulenza specialistica condotta sulla persona della vittima – puo peraltro rammentarsi che, come la letteratura criminologica in argomento ha evidenziato, le conseguenze sui minori dell’abuso sessuale esercitato da un prete sono particolarmente gravi e di lunga durata perche il rapporto esistente tra un prete e un minore e condizionato da una posizione di superiorita rinforzata da una visione falsata del suo prestigio pastorale, da un influsso morale, dal fatto di essere considerato dalla vittima una vera e propria “guida spirituale”. «Questo tipo di abuso – e stato osservato – non distrugge solo l’integrita fisica e psicologica del bambino, ma annienta anche la sua dimensione spirituale e il rapporto con la religione: il peso da sopportare e troppo grande, il dolore troppo profondo per riconoscere la causa … ».
E infine palesemente inammissibile il terzo motivo di ricorso con il quale la difesa dell’imputato sostanzialmente ripropone la questione di legittimita costituzionale gia motivatamente disattesa dalla corte territoriale.
E al riguardo sufficiente rilevare che tale riproposizione non si confronta con le ragioni esplicitate nella sentenza impugnata che hanno condotto la corte territoriale a giudicare irrilevante la questione in quanto proposta nel presente giudizio di cognizione.
Tale valutazione peraltro appare corretta e insuperabile, essendo del tutto evidente che le norme additate a sospetto di incostituzionalita non vengono in rilievo nel presente giudizio di cognizione e che le statuizioni adottate dal giudice di merito in punto di natura ed entita della pena detentiva applicata non potrebbero comunque mutare in dipendenza dell’eventuale accoglimento della questione di legittimita costituzionale sollecitata.
Difetta, pertanto, con ogni evidenza, il requisito di rilevanza della questione prospettata, quale richiesto dall’art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, a mente del quale – giova rammentare – perche l’autorita giurisdizionale possa investire la Corte costituzionale di questione incidentale di legittimita costituzionale e necessario, anzitutto, che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita costituzionale …»: l’iniziativa incidentale puo dunque riguardare solo le norme di legge che influiscono sulla decisione del giudizio, le norme di legge che sono dunque, in qualche modo, applicabili in tale decisione.
Ne e immaginabile che in sede di cognizione possa farsi governo alcuno delle norme censurate ai fini dell’applicazione, nel caso concreto, all’imputato di misure alternative alla detenzione, trattandosi di funzione per legge riservata alla magistratura di sorveglianza (art. 70 legge 26 luglio 1975, n. 354).
A diversa conclusione non puo condurre la considerazione che la conferma della pronuncia impugnata avrebbe effetti immediati non altrimenti rimediabili attuativi della norma sospetta di incostituzionalita.
Tale considerazione non muta ma anzi conferma il dato suddetto e che e l’unico cui occorre aver riguardo ai fini del giudizio di rilevanza della questione proposta: si tratta infatti di effetti successivi alla sentenza di condanna alla pena della reclusione per il reato de quo, che come tali presuppongono la sentenza e non sono da essa governati, ossia dipendono da leggi che non hanno alcuna rilevanza applicativa ai fini del giudizio a quo.
E appena il caso di rammentare in proposito che il tentativo di interpretare in senso ampio il riferimento al «giudizio in corso» contenuto nell’art. 1 della legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, come indicazione puramente spaziale e temporale, avente il significato non di subordinare la proposizione della questione a un’esigenza processuale, ma semplicemente di individuare una sede nella quale un soggetto particolarmente qualificato (il giudice) possa svolgere quella valutazione preliminare sulla non pretestuosita dell’iniziativa che si esprime nella deliberazione del secondo carattere della questione, la non manifesta infondatezza – interpretazione invero sottoposta al vaglio della corte delle leggi attraverso q.l.c. dell’art. 23 l. n. 87, cit. in quanto, in tale prospettiva, limitativo del meccanismo previsto nella legge costituzionale – e stato respinto dalla Corte costituzionale (con ordinanza n. 130 del 1971), la quale ha ribadito cosi l’opinione corrente della perfetta corrispondenza tra la norma della legge costituzionale e quella della legge ordinaria, successivamente ribadita nella giurisprudenza costituzionale che si e andata orientando verso una concezione sempre piu stretta ed esigente del requisito della rilevanza.
Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 52, comma 5, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) va disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, dovranno essere omessi le generalita e gli altri dati identificativi delle parti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
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