di Federico Tulli – A febbraio del 2016 arrivò nelle sale italiane Il caso Spotlight, il film di Tom McCarthy che in quello stesso mese si aggiudicherà due premi Oscar. Spotlight è il nome della squadra di giornalisti del «Boston Globe» che tra il 2001 e il 2002 indagò su alcuni casi di pedofilia clericale avvenuti nell’arcidiocesi locale e mai finiti nel mirino dell’autorità giudiziaria. Sotto la guida di un direttore per nulla intimorito dalle pressioni dei maggiorenti della città più europea e più cattolica degli Stati Uniti, per mesi questi giornalisti intervistarono le vittime e passarono in rassegna migliaia di pagine di documenti. Ricostruirono così un sistema di potere che, sotto la regia del potente arcivescovo Bernard Francis Law, per anni aveva bloccato sul nascere qualsiasi indagine e aveva messo a tacere vittime e testimoni scomodi per la Chiesa.
Lo scoop, che valse al «Boston Globe» il premio Pulitzer 2003, fu per la Chiesa cattolica americana l’equivalente del Watergate. Non solo costò il posto a monsignor Law, che ammise di aver nascosto per anni gli abusi dei suoi sacerdoti, ma diede la forza a migliaia di vittime rimaste in silenzio, e isolate da quella Chiesa di cui si fidavano ciecamente (questo genere di abusi, infatti, avviene quasi sempre all’interno di ambienti profondamente religiosi), di denunciare alle autorità civili i crimini subiti.
Emerse così che l’insabbiamento delle segnalazioni, il pagamento di somme di denaro alle vittime tramite avvocati senza scrupoli affinché non denunciassero i loro aguzzini e il trasferimento dei sacerdoti sospettati di pedofilia, erano la norma negli Stati Uniti. Ben presto, grazie alla lezione universale di giornalismo realizzata dall’inchiesta degli uomini di Spotlight, e magistralmente ricostruita da McCarthy, si scoprirà che lo stesso accadeva da decenni anche in Europa, Australia, Sudamerica e Africa. Ma questa lezione, in Italia, tranne rarissimi casi: la rivista Left, Adista, il lavoro di Federica Tourn su Domani, non è stata evidentemente recepita.
Tra i tanti meriti del film Spotlight c’è quello di aver spiegato chiaramente quanto siano importanti la trasparenza e la collaborazione tra istituzioni nella gestione dei casi di abusi clericali e, al tempo stesso, quanto sia distruttiva per la salute psicofisica delle vittime qualsiasi strategia che non vada in questa direzione. La pellicola di Tom McCarthy evidenzia inoltre l’importanza decisiva del ruolo dei media e di un’informazione libera, indipendente e – per così dire – empatica.
I giornalisti di Spotlight sono riusciti a sbaragliare il potentissimo avversario grazie al rapporto di fiducia instaurato con i testimoni, ponendosi con un approccio laico, affettivo, nei confronti dei loro interlocutori sopravvissuti alle violenze. E senza innalzare la barriera del giudizio morale che scatta quando c’è la convinzione violentissima che sia il bambino a indurre in tentazione l’uomo di fede e a spingerlo a un atto di lussuria, che il Catechismo della Chiesa cattolica annovera tra le «offese alla castità» (can. 2351).
Un’idea perversa e delirante, tuttora radicata e diffusa (anche riguardo alla violenza sulle donne), come emerge ogni tanto da incaute interviste rilasciate da alcuni ecclesiastici, che vedono nel presunto ammiccamento sessuale del bimbo la personificazione del diavolo e attribuiscono allo stupro un carattere di desiderio, annullando completamente la realtà del bambino (bambino che – è bene precisarlo – non ha e non può avere né sessualità né desiderio, dal momento che questa dimensione psicofisica si realizza nella pubertà, con il pieno sviluppo degli organi genitali). Ed è un pensiero che se da un lato ha sempre alimentato il senso di colpa e di oppressione delle vittime riducendole al silenzio, dall’altro ha fornito per decenni ai preti pedofili, descritti non come criminali ma come peccatori indotti in tentazione, la garanzia di impunità da parte della Chiesa cattolica.
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