SAVONA-ADISTA. Il sito dell’associazione “Rete l’abuso”, che si presenta come “associazione sopravvissuti agli abusi sessuali del clero”, è uno strumento fondamentale per chi, dentro e fuori la Chiesa cattolica, intenda approfondire il fenomeno degli abusi del clero sui minori attraverso un database di nomi, fatti, circostanze costruito sin dal 2010 da una realtà che resta tuttora l’unica in Italia ad occuparsi della tutela dei diritti delle vittime di preti pedofili.
Strumento tanto più prezioso in un Paese, quale l’Italia, tra i pochi al mondo in cui le istituzioni laiche (cioè governo e parlamento) ed ecclesiastiche non hanno mai voluto realizzare un’inchiesta pubblica e indipendente su scala nazionale per far luce su un fenomeno ormai chiaramente endemico. All’interno del sito, anche una mappa che ricostruisce i casi recenti di pedofilia nelle oltre 220 diocesi italiane, attualmente più di 360.
A corredo di questo database, una ricchissima rassegna stampa, con gli articoli su tutti casi di pedofilia clericale, le testimonianze di vittime e sopravvissuti, un contatore con il numero delle denunce, dei casi passati in giudicato, numero e ubicazione delle strutture riservate dove la Conferenza episcopale italiana invia i sacerdoti che hanno commesso reati nonché la mappa delle diocesi considerate non sicure (cioè le diocesi in cui si è verificato almeno un caso di violenza su bambini).
Ebbene, la mappa che localizzava (attraverso “google maps”), preti condannati e indagati, in Italia e all’estero, e le comunità di recupero dove alcuni di essi sono riparati è stato oscurato nella notte tra il 17 e 18 ottobre scorso: la mappa non è più consultabile perché, come ha denunciato il presidente di Rete l’abuso, Francesco Zanardi, a parere di Google «violerebbe le Norme relative a “molestie bullismo e minacce”».
Una decisione che ha sorpreso gli animatori del sito perché quello di “Rete l’abuso” – l’unico database italiano degli abusi sessuali del clero – è online da ben 12 anni. Probabilmente, spiegano, qualcuno dei preti segnalati sul database ha chiesto e ottenuto la cancellazione del proprio caso segnalando a Google un presunto stato di pericolo e/o discriminazione. Forse qualcuno che non essendosi potuto appellare al diritto all’oblio per ottenere la cancellazione dal sito degli articoli che lo riguardano, ha trovato il modo di renderne più difficoltoso l’accesso e la consultazione oscurando la mappa che li linkava.
Da parte sua, “Rete l’abuso” ricorda che in altri Paesi, «per esempio, negli Stati Uniti, sono gli organi di Stato, come l’FBI, a pubblicare online nome, foto e residenza di chi è stato condannato o ritenuto socialmente pericoloso per questi crimini.
Un manifesto a tutela della comunità che si basa sul dato scientifico che il predatore sessuale non è un malato, ma una persona con una grave devianza della personalità a cui non si può chiedere un autocontrollo. L’unico modo per poterlo integrare evitando che stupri altre persone è quello di dire alle potenziali vittime di stare attente».
Per questo, scrive Zanardi, «Reputiamo grave quanto accaduto arbitrariamente per mano di Google, verosimilmente a seguito di una segnalazione, almeno si presume, per la quale però non vi è stata possibilità di legittima replica, tanto meno di conoscere la natura effettiva del contenzioso, data l’infamante accusa ai sopravvissuti italiani, che nei fatti vedono etichettato il loro diritto costituzionale al reclamo di giustizia (non concesso in Italia) come fosse “Bullismo; molestie; minacce” a chi lo ha stuprato, ed è stato graziato dai vuoti legislativi italiani e dalle continuate omissioni dei Governi». (valerio gigante)
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