di MARCO GRIECO – Dopo i recenti casi di pedofilia emersi nella Chiesa cattolica in Francia, Germania, Portogallo e Spagna, sette associazioni hanno lanciato #ItalyChurchToo, il movimento “anche la Chiesa in Italia”. È una campagna antimolestie che chiede al mondo cattolico del nostro Paese una commissione indipendente perché si possano portare allo scoperto gli abusi con indagini esterne, aprendo gli archivi diocesani e facendo luce su eventuali insabbiamenti di preti pedofili.
In Italia, gli abusi su minori da parte di sacerdoti sono un fenomeno ancora sottostimato. «Ci è bastato andare a una trasmissione televisiva e parlare della nostra storia perché, sulla strada del ritorno, ci chiamassero dieci vittime che si sono fatte coraggio», spiega Cristina Balestrini, che l’abuso di un prete non lo ha vissuto sulla propria pelle, ma su quella del figlio quindicenne. «Era il 2011 e don Mauro Galli ci aveva chiesto se nostro figlio avrebbe potuto dormire in oratorio», dice. «Noi abbiamo acconsentito senza immaginare che sarebbero rimasti da soli». La verità, cruda e violenta, arriverà l’indomani, quando Cristina, corsa a scuola perché il figlio versava in uno stato catatonico, mette in dubbio la fiducia nel prete malgrado gli anni da catechista: «“È successo qualcosa stanotte?”, gli ho domandato. Lui mi ha guardata negli occhi e ha ammesso». Scatta, così, la denuncia penale, ma le condanne in primo grado e in appello non sono sufficienti.
«Mio figlio frequentava ancora l’ambiente parrocchiale, malgrado la ferita che aveva dentro. Per lui è stato devastante vedere in tribunale la diocesi difendere il prete. È come se fossimo noi i nemici», ammette la madre, ricordando di essere stata isolata anche da quelli che un tempo erano amici in parrocchia. In questa battaglia impari in nome della verità, spesso sono le stesse vittime a scavare una trincea di silenzio. «La Chiesa ci aveva offerto un accordo extragiudiziale, con la clausola del silenzio, da 100 mila euro più spese, ma non potevamo accettarlo», dice oggi Cristina. Come si fa a risarcire un adolescente come tanti altri, a cui una notte d’orrore stravolge la vita, gettandolo nella disperazione, curata con lunghe terapie? «C’è stato un tempo in cui noi non potevamo nemmeno sfiorarlo. Oggi mio figlio ha fatto grandi progressi, soprattutto identificandosi non più come vittima, ma come sopravvissuto».
Ha ancora bisogno di cure Arturo Borrelli, 42 anni, per placare le conseguenze di anni di violenze. Il suo “orco”, don Silverio Mura, ha abusato per tre anni a mezzo di lui nel silenzio del quartiere di Napoli Ponticelli. «Era un amico di famiglia, era visto da tutti come una figura divina», racconta ripensando a quel prete che ha anche celebrato le sue nozze e ha battezzato due dei suoi figli. Poi, nel 2009, uno strano svenimento sul luogo di lavoro rivela le ferite che lacerano la sua psiche. «Lo psichiatra mi ha fatto capire i danni che ho. Da allora, ho perso il lavoro come guardia giurata e non riesco a vivere tranquillamente». Un primo, importante traguardo, però, arriva nell’ottobre scorso quando, al termine di un processo civile, con una sentenza storica il prete e la scuola sono condannati in primo grado a risarcire Arturo con 320 mila euro. È la prima conferma, dopo anni di silenzio, anche da parte della diocesi.
«Alla richiesta di un colloquio nel 2012 con l’arcivescovo Lucio Lemmo, mi hanno risposto di non poter avere contatti con me, trattando il mio caso senza comprensione e umanità», dice l’uomo. Intanto, in questi anni di silenzi, il sacerdote è stato spostato in altre diocesi della regione, prima di lasciarla definitivamente. «Dopo un servizio in tv di Le Iene, abbiamo scoperto che il religioso è stato trasferito a Montù Beccaria (vicino a Pavia, ndr) con nome e cognome falsi e che c’è un processo penale in corso per sostituzione di persona. La curia mi ha assicurato che non dice più messa, anche papa Francesco mi ha promesso il suo interessamento. Ma la mia vittoria arriverà quando quell’uomo smetterà di essere prete».
Francesco Zanardi, presidente dell’associazione Rete L’Abuso, oggi ricostruisce i volti degli autori di molestie e abusi che spesso la Chiesa lascia senza nome. Così, con un settimanale è stato creato un archivio per fare luce sui crimini in Italia, sul modello del quotidiano spagnolo El País. Francesco dice che era ancora un ragazzino quando un sacerdote ha abusato di lui nella pineta di Spotorno, in Liguria: «Non sono stato il solo, ho contato almeno 40 ragazzi. Sapevamo tutti che cosa accadeva quando, a turno, ci chiedeva di condividere con lui la tenda nel campeggio», racconta Zanardi. Dice di ritrovare la sua stessa esperienza in tanti sopravvissuti, persone per cui i ricordi di un’infanzia violata possono sopraggiungere improvvisi: soffrono della Sindrome da stress post traumatico, che rimuove il passato per poter continuare a vivere, ma a prezzo di sintomi gravi. «Conosco una persona in cui il trauma si è ripresentato a 36 anni dagli abusi, dopo la nascita del figlio. La vicinanza di un bambino piccolo ha risvegliato il dolore. Adesso è in terapia».
Francesco ha tentato il suicidio quattro volte, l’ultima nel 2008: «Anche se realizzi che non hai colpe, i danni relazionali ti restano. Vivere diventa difficile. Almeno due persone del nostro gruppo di Spotorno si sono tolte la vita».
Con Rete L’Abuso Francesco riceve l’appoggio anonimo di tanti sacerdoti: «Non vogliono esporsi perché temono le conseguenze». Dopo il summit sugli abusi in Vaticano nel 2019, la Chiesa di papa Francesco ha adottato la linea della cosiddetta “tolleranza zero”.
Ma per le vittime non è ancora sufficiente: «Quando la Chiesa dice che si occupa delle vittime e dei familiari, non è credibile», afferma Cristina. Le fa eco Arturo, che ha incontrato lo stesso papa Francesco: «Mi ha invitato a non arrendermi. E io non mi darò pace fino a quando non avrò visto che chi mi ha rovinato la vita non fa più il prete».
di MARCO GRIECO – GRAZIA del 10/03/2022