Nella celebre conferenza tenuta a Ratisbona il 12 settembre 2006, Ratzinger scrive:
“Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere”.
In definitiva, secondo Ratzinger, se si spiega la realtà senza accettare “la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura”, si è irrazionali. Vale la pena ricordare che la scienza fa proprio questo: spiega la realtà senza ipotizzare alcuna struttura razionale operante nella natura. Pensiamo, ad esempio, alla teoria dell’evoluzione biologica, la quale si sviluppa in modo casuale, senza alcuna finalità o disegno.
Tali concetti sono stati ribaditi da Ratzinger nella sua enciclica Spe Salvi, pubblicata il 30 novembre 2007 . In essa, coerentemente con tutto il suo pensiero, viene ribadita la limitatezza della sola ragione senza fede e una ferma condanna dell’illuminismo:
“La ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.
Ed è piuttosto curioso che Ratzinger non esiti a citare un autore della scuola di Francoforte per avvalorare la sua critica al progresso, ritenuto ambiguo e non necessariamente positivo:
“Già nel XIX secolo esisteva una critica alla fede nel progresso. Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l’ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo”.
Tornando alla conferenza di Ratisbona, Ratzinger si focalizza poi sulle scienze in particolare e scrive:
“Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o prescientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione”.
Questo approccio riduttivo non è però accettabile per Ratzinger:
“Ma dobbiamo dire di più: è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza” soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente”.
Per Ratzinger è cioè intollerabile (e addirittura patologico) che gli interrogativi “propriamente umani” diventino un problema soggettivo, ai quali ciascuno fornisce la risposta che meglio crede. In pratica ancora una volta, dopo circa quattro secoli dalla condanna di Galileo e dal rogo di Giordano Bruno, la Chiesa Cattolica mostra di non sopportare il libero pensiero e vuole avere il monopolio della verità. L’alternativa che Ratzinger propone è infatti una sottomissione della “ragione ristretta”, tipica del pensiero scientifico, a una “ragione estesa” che coincide con la fede:
“L’ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze”.
Ratzinger ha ulteriormente ribadito la sua posizione nei confronti dei possibili pericoli derivanti dalla scienza il 16 ottobre 2008, durante l’udienza ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense nel X anniversario dell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II. Ribadendo, al solito, la sostanziale superiorità della fede nei confronti della ragione, questa volta Ratzinger non ha trovato di meglio che accusare gli scienziati di arroganza e di desiderio di facili guadagni:
“Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. È questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità”.
Ora, di tutto si possono accusare gli scienziati, ma non certo di avere forti interessi economici. Molto spesso lavorano in condizioni disagiate, con assunzioni precarie e con finanziamenti esigui: sono ben altre le categorie che si muovono allettate da “facili guadagni”. Riguardo alla presunta arroganza, ben rispose a suo tempo il fisico Tullio Regge (1931-2014) in una dura critica al discorso del papa:
“La «arroganza degli scienziati» è accusa ingiusta e indiscriminata e pone sotto accusa tutto il mondo scientifico. Il vero scienziato tiene conto degli errori commessi e delle critiche, molto di più di quanto facciano molti uomini di Chiesa. Lo scienziato è uomo e come tale può commettere errori ma non possiede il monopolio dell’errore. Rendiamoci conto infine che lo scienziato prova pietà umana verso chi soffre di una grave malattia esattamente come accade all’uomo della strada. Il Papa pare aver dimenticato i tempi dell’Inquisizione spagnola e dei roghi su cui Torquemada, uomo di Chiesa, sterminava dei poveracci soltanto perché ebrei, tempi in cui la filosofia e la teologia si rivelarono in quel contesto strumenti devastanti e micidiali”.
Anche nel testamento spirituale pubblicato dopo la sua morte, Ratzinger non ha risparmiato critiche alle scienze, mostrando di non averne compreso a fondo l’evoluzione storica:
“Spesso sembra che la scienza – le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro – siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità”.
Abbiamo accennato alla teoria dell’evoluzione, vero pilastro delle moderne scienze biologiche, che è stata spesso oggetto di aspre critiche da parte del defunto papa emerito. Joseph Ratzinger ha espresso chiaramente il suo pensiero riguardo all’evoluzione in un libro dapprima pubblicato in Germania e successivamente anche in Italia dal titolo Creazione ed evoluzione (3). Il volume raccoglie gli Atti del consesso a porte chiuse tenutosi nella residenza estiva papale di Castel Gandolfo dall’1 al 3 settembre 2006. Si trattava dell’incontro annuale del Ratzinger Schülerkreis, il gruppo di ex dottorandi del professor Ratzinger alle università di Bonn, Münster, Tubinga e Regensburg, che dal 1978 si è riunito regolarmente con il proprio maestro. Anziché limitarsi a considerazioni metafisiche, imprudentemente, Ratzinger questa volta si avventura in affermazioni che riguardano il contenuto della teoria dell’evoluzione:
“A me pare importante, in particolare, come prima cosa, che la teoria dell’evoluzione in gran parte non sia dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10mila generazioni. Ciò significa che ci sono dei vuoti o lacune rilevanti di verificabilità-falsificabilità sperimentale a causa dell’enorme spazio temporale cui la teoria si riferisce. […] La teoria dell’evoluzione non è ancora una teoria completa, scientificamente verificabile”.
Tale affermazione è palesemente falsa: esistono infatti numerosissime prove a favore della teoria dell’evoluzione biologica, prove che includono anche l’osservazione diretta di mutazioni in tempi brevi (basti pensare ai grossi problemi causati dalle rapide mutazioni del virus SARS-CoV-2). Nello stesso testo Ratzinger non perde l’occasione per rivolgere, ancora una volta, una critica alla scienza in generale:
“La scienza ha aperto tante nuove strade alla ragione, portandoci verso nuovi approfondimenti. Ma nell’entusiasmo per la portata delle sue scoperte, la scienza tende ad allontanarci da quelle dimensioni della stessa ragione di cui abbiamo ancora bisogno. I suoi risultati portano a domande che vanno oltre il canone metodologico e che non possono avere risposta al suo interno”.
Se con questo si intende che la scienza non può rispondere a tutte le domande che l’uomo si pone, si può essere senz’altro d’accordo: chi conosce la scienza per quello che è e non ha di essa un’immagine ideologizzata è perfettamente consapevole di questo limite. Tuttavia Ratzinger sembra voler dire qualcos’altro, come ampiamente chiarito negli altri suoi scritti già citati.
Il giorno 17 gennaio 2008 Ratzinger, invitato dall’allora Rettore Prof. Renato Guarini, avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione del 705esimo anno accademico della Sapienza di Roma. La sua partecipazione venne poi annullata in seguito alla reazione di numerosi docenti dell’ateneo. Nella allocuzione che avrebbe dovuto tenere in quell’occasione, Ratzinger ribadisce sostanzialmente la sua posizione riguardo ai rapporti tra scienza, ragione e fede. In un passo del discorso, citando S. Agostino, sostiene addirittura che la semplice conoscenza renderebbe tristi:
“È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa”.
In un altro passo, Ratzinger sottolinea ancora una volta la necessità che la ragione sia sottomessa alla fede:
“Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma”.
Un altro ambito il cui il pensiero di Ratzinger mostra la sua totale lontananza da qualsiasi impostazione razionale riguarda la concezione del dolore e della sofferenza.
Tale concezione traspare in modo piuttosto chiaro anche all’interno dell’enciclica Spe salvi. Pur sottolineando la necessità di diminuire la sofferenza, Ratzinger ne esalta comunque il valore e ne ribadisce ancora una volta l’origine legata alle colpe dell’umanità:
“Come l’agire, anche la sofferenza fa parte dell’esistenza umana. Essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si è riusciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo – è continuamente fonte di sofferenza”.
Più avanti poi si comprende che, tutto sommato, secondo Ratzinger la limitazione della sofferenza comporta il rischio di togliere senso alla vita e solamente la sua accettazione può consentire all’uomo di ritrovarne uno e di maturare:
“[…] Ritorniamo al nostro tema. Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore”.
Via via che procede nelle sue riflessioni sulla sofferenza, Ratzinger ne sottolinea sempre di più il valore fino a definire “crudele e disumana” una società che non sia in gado di accettarla, proponendo la compassione come rimedio al dolore necessario:
“La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza”.
E arriva al punto di farne una vera e propria esaltazione:
“Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso”.
Sicuramente queste concezioni della sofferenza hanno pesantemente rallentato in Italia la diffusione delle terapie del dolore. Pensiamo, ad esempio, alla scarsa diffusione dell’uso dell’anestesia epidurale durante il parto, sicuramente influenzata dal monito biblico rivolto alla donna, destinata a partorire nel dolore.
Non possiamo infine non ricordare le posizioni sostanzialmente reazionarie assunte da Ratzinger nei confronti della comunità LGBTQ+.
Da un lato si condanna ogni discriminazione dei soggetti omosessuali. La Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’articolo 10 della Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica per la cura pastorale delle persone omosessuali del 1986, aveva infatti affermato:
“Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevoli e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei Pastori della Chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi elementari su cui si basa una sana convivenza civile. La dignità propria di ogni persona dev’essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni”.
Dall’altro lato però si considera l’omosessualità moralmente deprecabile. Nella citata lettera, infatti, ci si affretta a precisare che:
“Tuttavia, la doverosa reazione alle ingiustizie commesse contro le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’affermazione che la condizione omosessuale non sia disordinata. Quando tale affermazione viene accolta e di conseguenza l’attività omosessuale è accettata come buona, oppure quando viene introdotta una legislazione civile per proteggere un comportamento al quale nessuno può rivendicare un qualsiasi diritto, né la Chiesa né la società nel suo complesso dovrebbero poi sorprendersi se anche altre opinioni e pratiche distorte guadagnano terreno e se i comportamenti irrazionali e violenti aumentano”.
Come dire, è giusto deprecare gli eccessi dell’omofobia, ma la si può perfettamente comprendere. Ogni commento è superfluo.
Si potrebbero ricordare tante altre affermazioni di Ratzinger (tra cui anche un’esplicita La scienza senza Dio è una minaccia per l’umanità) in cui l’armoniosa convivenza tra fede e ragione esaltata da molti appare francamente molto dubbia.
Come è stato efficacemente sottolineato sulle pagine di questa testata, Ratzinger è stato sostanzialmente un “raffinato interprete del conservatorismo insito nella Chiesa”. Ha svolto il suo ruolo, di cardinale prima e di pontefice poi, portando avanti posizioni tipiche della Chiesa Cattolica e in questo non vi è nulla di sorprendente. Quello che invece desta un certo stupore e un certo fastidio è che lo si voglia ritrarre per quello che non è stato e soprattutto il fatto che certe riletture vengano da parte di coloro che per ruolo e tradizione culturale dovrebbero mostrare un po’ più di senso critico nel fornire valutazioni su esponenti del clero.
Joseph Ratzinger, la ragione e la scienza