IACOPO SCARAMUZZI
ROMA. Un’inchiesta sugli abusi sessuali avvenuti nella Chiesa cattolica non può che essere indipendente e dovrebbe focalizzare la propria attenzione sulle sole aggressioni avvenute in ambito ecclesiale. Teologa, suora domenicana, presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia (Corref) dal 2016, rieletta in questa posizione per un secondo mandato di quattro anni nel 2021, Veronique Margron, 64 anni, è uno dei volti più in vista del cattolicesimo d’Oltralpe. Insieme al vescovo di Reims monsignor Eric de Moulins-Beaufort, presidente della conferenza episcopale francese, ha promosso l’inchiesta della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa (Ciase) che, presieduta dal giudice Jean-Marc Sauvé, ha recentemente pubblicato un rapporto-choc sulle aggressioni sessuali avvenute nella Chiesa francese dal 1950 ad oggi. Un tema, quello degli abusi, che suor Margron ha trattato a fondo nel libro «Un moment de verité» (Albin Michel, 2019), ma che aveva affrontato già prima di scegliere la vita religiosa, quando, fresca di studi di psicologia, ha lavorato come educatrice con i giovani delinquenti. In questa intervista spiega la genesi della commissione francese, la presa di consapevolezza del problema nell’opinione pubblica, e il contributo che la Chiesa sta dando alla società in generale nel tutelare le vittime di abusi che avvengono anche al di fuori della Chiesa.
«Sono teologa moralista e ho passato la mia vita a insegnare cose per così dire complicate, questioni relative alla vita, alla morte, alla sofferenza, questioni legate a situazioni umane difficili, e alcuni studenti dei miei corsi, o alcune persone che assistevano a una mia conferenza, alla fine mi avvicinavano e si confidavano con me, per parlarmi di questioni come l’infertilità, l’omosessualità, a volte un incesto subito in famiglia, una aggressione sessuale subita da un prete, da un religioso, ma anche al di fuori della Chiesa, ad esempio da un medico. Sono oltre venti anni che ricevo vittime di abusi, vite sconvolte, se non frantumate. All’inizio non vedevo alcun carattere sistemico negli abusi sessuali nella Chiesa: ascoltare una vittima di incesto in famiglia o una vittima di un prete per me era lo stesso, in entrambi i casi c’era un aggressore, c’era un microcosmo che aveva soffocato la vittima, la famiglia o la parrocchia. Le cose sono cambiate qualche mese dopo che sono stata eletta nel 2016 alla presidenza della Corref. Qualche mese dopo ho ricevuto molte testimonianze di vittime di religiosi e di preti. È difficile dire perché ho ricevuto tutte queste testimonianze: probabilmente perché nell’ambito cattolico quando si trattava di questo ambito ero piuttosto conosciuta come teologa. Inoltre come presidente dei religiosi e delle religiose di Francia quando le vittime scrivevano al loro superiore per denunciare un abuso indirizzavano anche a me il messaggio per conoscenza. Così è cominciato. E piuttosto velocemente, nel giro di sei mesi, nell’estate del 2017 ho cominciato a sentire che si trattava di qualcosa che superava il singolo problema individuale. Che c’era una complicità, una viltà, che circondava l’autore di questi abusi… Nello stesso periodo c’è stato tutto il lavoro svolto dalla associazione La parole liberée a Lione («La parola liberata» è l’associazione di vittime che ha scoperchiato gli abusi seriali compiuti in un arco di diversi decenni da padre Bernard Preynat a danno degli scout e dei minorenni che frequentavano la sua parrocchia, ndr). C’è stata per così dire una convergenza tra il mio ascolto personale delle vittime, i dossier che ricevevo, e gli scandali gravi che emergevano grazie alle vittime che si organizzavano. Questo mi ha portato nel corso dell’anno 2017 ad avere consapevolezza che eravamo dentro un problema di sistema, sebbene non so se allora lo avrei già definito così, dinanzi ad uno scandalo istituzionale. Da lì è nata la riflessione. Come è possibile che un uomo abbia potuto abusare per decenni e decenni, 20, 30, 40 anni, restando in responsabilità come prete? Non è possibile che lo abbia fatto da solo, senza la complicità o la codardia di altri, non è possibile senza che ci sia un problema istituzionale che rende possibile l’impunità».
Alla fine che risposta si è data a questi interrogativi?
«Ci sono più fattori. C’è il carisma del prete, la sua personalità: a volte si tratta di grandi seduttori e manipolatori che sanno perfettamente avere una facciata molto presentabile. Questo si aggiunge all’immagine generale del prete, anche in un paese (marcato dalla laicità, ndr) come la Francia, una sacralizzazione della posizione del prete visto come qualcuno che in nessun modo può far male ai bambini o alle persone vulnerabili. E c’è una grande debolezza delle istituzioni, perché queste situazioni mostrano che i vescovi e i superiori sono stati o complici attivi, ossia sapendo quel che succedeva hanno lasciato il prete libero di agire, non hanno creduto alle accuse che emergevano, o hanno spostato il prete che ha continuato altrove ad abusare, oppure, in altre circostanze, non hanno voluto vedere, per paura dello scandalo che ciò comportava per la Chiesa, per codardia, per incompetenza, per accecamento… in alcuni casi perché i preti abusatori erano delle “vedette” della loro congregazione, capaci di portare tanti giovani, personalità carismatiche circondate di studenti, e metterli in causa voleva dire rinunciare a questo successo di seguito: oso sperare che questi calcoli non siano stati coscienti, ma sono reali. C’è una protezione dell’istituzione che in tutti questi decenni nella stragrande maggioranza dei casi ha prevalso sulla protezione delle persone, delle vittime, e di altre vittime potenziali. A causa di un fallimento dell’istituzione anziché cinque vittime ce ne sono state 50. Ci sono preti o religiosi per i quali non si arriva neppure a fare una stima esatta del numero delle vittime, oltre 100, 150, non si sa e non si saprà mai, perché hanno commesso le loro malefatte su un amplissimo arco di anni. E questo è stato possibile perché l’istituzione è stata complice, attivamente o passivamente».
Oltre all’aspetto qualitativo, l’aspetto quantitativo l’ha sorpresa? Il numero di vittime che ha scoperto l’ha sorpresa?
«Decisamente. Nei quasi tre anni della Ciase, dai primi lavori fino a oggi, penso di aver ricevuto più di 150 vittime. Ci sono settimane che questa questione occupa l’ottanta per cento del mio tempo lavorativo: non faccio quasi altro che ricevere le vittime, cercare di far avanzare la questione, contattare le autorità, che siano vescovi o superiori religiosi»
Oltre alla responsabilità delle gerarchie ecclesiastiche, non crede che ci sia anche una responsabilità dei fedeli? Non crede che gli abusi prosperano anche quando è diffusa l’idea, magari in buona fede, che «il prete non si può criticare», e se un sacerdote si comporta in modo sospetto ci si limita a dire «è un po’ strano…», senza però fare altro?
«Quello che lei dice è molto ben raccontato dal film Grâce à Dieu di François Ozon (la pellicola del 2019 racconta la vicenda di padre Preynat a Lione scoperchiata dall’associazione La parole liberée, ndr). I genitori dei bambini che sono vittima del sacerdote, salvo una coppia, persone di un ambiente sociale molto borghese del centro di Lione, sono completamente presi nel sistema, ritengono che il prete non possa che voler il bene del bambino, che non si possa criticare il prete. Quando Alexandre decide di denunciare (il protagonista del film: da adulto un giorno scopre per caso che il prete che lo ha abusato quando era un bambino sta ancora lavorando con i giovani, e decide di agire, ndr), la madre, una signora di buona famiglia che solitamente usa un linguaggio di un certo livello, esplode con un linguaggio che non è il suo: “Smettila di romperci le palle con queste vecchie storie!”: la cosa non può rientrare nel suo schema mentale. Non si può criticare il prete perché c’è qualcosa che è dell’ordine del sacro, dell’intoccabile… una concezione che oggi sicuramente è meno diffusa in Francia, ma che lo è stato a lungo, e lo è ancora in certi ambienti».
Lei ha notato che tutti i genitori, «tranne una coppia», non vedono gli abusi di padre Preynat. La denuncia avviene spesso, in queste vicende, da qualcuno fuori del coro. Un ambiente troppo omogeneo sembra incapace di vedere gli abusi. Anni fa un sacerdote pedofilo di Fiumicino venne denunciato dal suo vice-parroco, che era una personalità sui generis, ma probabilmente se non lo fosse stato non avrebbe rotto il sistema; lo stesso è avvenuto con l’inchiesta «spotlight» a Boston, a lanciarla è un nuovo direttore del Boston Globe che non faceva parte delle buone famiglie bostoniane…
«Per denunciare, per vedere quello che va visto, per rendersi conto di qual è la realtà, bisogna essere sufficientemente al di fuori di un atteggiamento chiuso e autoreferenziale perché sono convinta che quando siamo “tra di noi” le cose più folli finiscono per sembrare normali. Gli psicologi lo spiegano chiaramente. È necessario un po’ di distanza, di sfasamento. Per fare il mio esempio, io sono parte del sistema, ci mancherebbe, faccio assolutamente parte della Chiesa, e al tempo stesso vengo da una cultura che non è quella ecclesiale, ho lavorato con giovani delinquenti, quando sono venuta a contatto con gli abusi nella Chiesa c’è stato qualcosa che mi ha colpito non dico più velocemente, ma che mi ha colpito con forza perché non poteva rientrare nel mio sistema… lavorando con giovani delinquenti in pericolo avevo visto molti bambini con storie di incesto, sono cose che frantumano le vite a lungo. Prima di creare la Commissione indipendente sugli abusi nella Chiesa abbiamo riflettuto a lungo. L’idea è venuta parlando con alcuni amici magistrati, ci siamo domandati cosa bisognava fare per capire quale era la cosa migliore da fare, come affrontare qualcosa che intuivamo ma non sapevamo. E allora abbiamo riunito persone molto diverse, antropologi che hanno lavorato in campi rifugiati dell’Onu sui sistemi mafiosi che si creano in questi contesti, magistrati, c’era anche un generale dell’esercito, e a tutti abbiamo posto la stessa domanda: di fronte ad una crisi istituzionale di fiducia come hanno fatto le vostre istituzioni, o le istituzioni che avete studiato, a reagire? E tutti ci hanno risposto la stessa cosa: “L’unica possibilità è chiamare un’istanza terza, voi non potete fare la verità da soli, quale che siano la vostra buona volontà, la vostra competenza, la vostra onestà, semplicemente perché ci siete dentro!”. Ed è così che è nata l’idea di domandare, e far votare alle assemblee generali dei vescovi e dei religiosi, la creazione di una commissione indipendente (Ciase), nella convinzione che l’unico modo di uscirne, o meglio l’unico modo di fare verità sperando poi di uscirne, è chiamare una istanza terza, competente e neutra, che non ha rapporti particolari con la Chiesa, che non è contro la Chiesa né a favore, per servire la Chiesa, con i mezzi che potrà avere per cercare di fare il massimo della chiarezza possibile».
Crede che un’inchiesta del genere dovrebbe limitarsi all’ambito della Chiesa o allargare la propria attenzione agli abusi avvenuti anche in altri ambienti, ad esempio la scuola la famiglia lo sport?
«Penso che il grande merito dell’inchiesta che riguarda la sola Chiesa cattolica è dovuto al fatto che la situazione del prete o del religioso è molto particolare: si è preti o religiosi tutto il tempo, per tutta la vita, e non solo dalle 8 alle 18. Da questo punto di vista è molto diverso ad esempio da un’inchiesta nelle scuole, o nel mondo dello sport. Certo si può dire che bisognerebbe che tutti gli ambienti indaghino sugli abusi sessuali avvenuti al proprio interno. Ma la forza del rapporto della Ciase è che quello viene detto della Chiesa, delle forme di governo, dei malfunzionamenti, è specifico della Chiesa, e anche le questioni teologiche che si pongono non si sarebbero potute porre in un rapporto generale. Nel migliore dei casi con un rapporto che copra tutti gli ambiti di abuso si avrebbe la valutazione del numero delle vittime, si avrebbe una descrizione del trauma subito dalle vittime ma non si avrebbe null’altro, ad esempio nulla sull’analisi istituzionale che porta a questo disastro, perché non si può analizzare la scuola come si analizza la Chiesa. Ci possono essere delle analogie, una debolezza delle forme di governo ad esempio, ma sono problemi molto lontani l’uno dall’altro. A mio avviso domandare una inchiesta generale può essere un modo di fuggire l’analisi istituzionale. Ci si fermerebbe alla dimensione quantitativa – quante vittime in questa istituzione quante vittime in un’altra istituzione, qui ci sono meno vittime allora è meno grave che altrove – e non si farebbe l’analisi istituzionale. Dopo la pubblicazione del rapporto della Ciase, le nostre due istituzioni, la conferenza dei religiosi e delle religiose e la conferenza episcopale, hanno nominato una quindicina di gruppi di lavoro sui temi specifici sollevati, la formazione nella vita religiosa, i contropoteri necessari, cos’è l’accompagnamento spirituale, la questione del segreto confessionale: questioni per definizione specifiche dell’istituzione religiosa, tutte cose che non avremmo potuto fare se l’inchiesta fosse stata svolta dallo Stato o dai poteri pubblici su un ampio ventaglio di ambienti».
Secondo lei quali sono i punti istituzionali più importanti da rimettere in causa? Cosa deve cambiare la Chiesa?
«Già il giorno in cui il rapporto ci è stato consegnato è stato chiaro che la Chiesa, peraltro non più di un’altra istituzione, non può essere giudice e parte in causa al tempo stesso: deve ricorrere a competenze esterne. Ci sono molte persone che ci vogliono aiutare in questo lavoro di verità, persone che non sono cattoliche o che lo sono ma non lo dicono ma che sono pronte ad aiutarci perché è una questione di sanità pubblica, una questione di verità. Penso che prima cercavamo solo al nostro interno. Ma per ogni questione – non certo per la risurrezione di Cristo! – ma per tutte le questioni etiche dobbiamo ricorrere sia alle competenze interne che alle competenze esterne. Questo è un primo cantiere. Seconda cosa, il ruolo della Chiesa nella società. Contrariamente a quel che si può pensare, nonostante il Concilio vaticano II la Chiesa ha continuato a vivere, almeno in parte, come una comunità chiusa che si doveva difendere dal mondo: magari senza dirlo, ma nella realtà c’è una sorta di muro tra la Chiesa e la società civile e dunque la seconda cosa da imparare è che abbiamo bisogno degli altri, a partire dalla giustizia civile per trattare quel che deve essere trattato, perché i crimini o i delitti non possono essere “trattati in famiglia”, e parlo degli incesti come delle aggressioni sessuali commessi da preti o religiosi. Bisogna integrare queste competenze e dare loro un vero potere, non si tratta solo di farsi consigliare ogni tanto da uno psichiatra o un magistrato ma integrarli nel nostro sistema di vigilanza e decisione. Un terzo cantiere riguarda l’ecclesiologia: il ruolo dei preti, ma più in generale la questione del rapporto con il potere: il potere nella Chiesa non può che essere detenuto dal clero? Bisogna essere prete, diacono o vescovo per detenere il potere? Davvero da un punto di vista teologico il rapporto col potere deve essere un rapporto clericale, in senso proprio? Io nella teologia non vedo nulla che lo indichi. Dare senso al ministero ordinato non vuol dire che esso debba detenere la totalità del potere di governo di una parrocchia o di una diocesi. Penso che tutto il resto ne discenda: una parte del disastro nel quale siamo viene appunto da quell’autoreferenzialità tra preti e vescovi, e rende necessario un vero lavoro sull’ecclesiologia. Ecclesiologia che riguarda anche il ruolo delle donne nelle istanze di governo, di insegnamento, di autorità, nei seminari e in altri luoghi».
Quando è che l’opinione pubblica francese ha aperto gli occhi su questo problema?
«Il film-documentario sulle religiose abusate trasmesso da Arte nel 2019, ”Abusi sessuali sulle suore: l’altro scandalo nella Chiesa”, è stato un vero detonatore tra i cattolici, che erano orripilati, ma ben al di là dei cattolici. Il numero di persone che hanno visto il documentario in diretta o a posteriori è stato molto alto, il film è stato visionato a lungo. Quel film è stato un vero innesco. Anche il film Grâce à Dieu di François Ozon è stato visto da molte persone ed ha partecipato alla presa di coscienza. E poi il lavoro della Ciase, ha fatto una grande opera di comunicazione nel corso dei due anni e mezzo di lavoro. Regolarmente il presidente Jean-Marc Sauvé è intervenuto sui giornali, alla radio, anche per fare appello alle testimonianze. Penso che ciò ha mostrato chiaramente sia che la Chiesa cattolica in Francia era in crisi grave, sia che c’erano persone impegnate a cercare di capire cosa era successo. Il rapporto finale ha avuto ampia eco giornalistica, io stessa nei venti giorni successivi sarò stata ospite di una ventina di trasmissioni. Dal mio punto di vista una parte almeno della società francese non solo ha ricevuto il rapporto per quel che è, senza metterne in dubbio il rigore, ma ha maturato la consapevolezza della crisi della Chiesa, della sua perdita fenomenale di credibilità, ma anche – cosa che colpisce – il rapporto non ha innescato alcun anticlericalismo: non abbiamo visto nessuna caricatura dei cattolici, al contrario, un certo numero di osservatori ha riconosciuto alla Chiesa cattolica il coraggio di aver creato una commissione, di lasciarla lavorare, di rendere pubblico tutto il rapporto, annessi compresi, e questo ha contribuito alla credibilità della Chiesa. Non c’è stato, lo ripeto, nessun sentimento anticlericale, e dire che in Francia a volte siamo campioni del mondo in questo atteggiamento!».
Nel corso del suo impegno in questo ambito, all’inizio, o ancora adesso, le fanno l’obiezione che lei è troppo focalizzata sul tema degli abusi sessuali?
«Sì, mi hanno fatto sempre questa obiezione. Un po’ meno al momento della pubblicazione perché i numeri sono stati così impressionanti che, per così dire, il rapporto della Ciase ha calmato molte persone. Ma obiezioni ce ne sono sempre state. Ma oggi per me nella Chiesa di Francia questo è il mio posto: non l’ho scelto, non ho scelto di diventare presidente della Corref e non ho deciso di esserlo in questo momento. Per me è responsabilità della mia generazione di dover andare fino in fondo, anche se non so dov’è il fondo, di fare il massimo possibile: per le persone vittime innanzitutto, per i loro cari, e per tentare di proporre o almeno suggerire le riforme, le riflessioni necessarie. Il mio posto è questo, e cerco di far comprendere che la questione delle aggressioni sessuali nella Chiesa cattolica non è un dossier, un faldone che uno apre, lo tratta, e lo chiude: sono vite umane, un popolo di centinaia di migliaia di vite rotte, per alcuni distrutte, e sono state distrutte per colpa di membri della Chiesa! Quando uno cerca di fare qualcosa per i rifugiati, non è la causa del problema, in questo caso sì: del dolore di tutte queste vite la Chiesa e alcuni suoi membri sono interamente la causa. Sento che questo mi rende responsabile in modo infinito. E poi – non lo facciamo per questo ma vorrei sottolinearlo – penso che poiché la Chiesa è un’istituzione pubblica, visibile, può aiutare alcune vittime di incesto in famiglia, che non possono parlare perché l’ambiente famigliare è ancor più chiuso, parlare vuol dire far esplodere la propria famiglia, c’è un legame affettivo all’interno della famiglia che rende la cosa ancor più violenta. Il fatto che noi siamo impegnati voglio sperare che aiuti a dire parole che queste vittime non possono rendere pubblicamente. In Francia c’è una commissione nazionale sull’incesto e altre aggressioni sessuali ed è nata in parte – non solo – grazie alla Ciase. Il fatto che Jean-Marc Sauvé è intervento pubblicamente, che per realizzare il nostro studio è stata fatta un’indagine statistica sull’insieme della popolazione, tutto questo ha contribuito a spingere lo Stato a lanciare una commissione. Mi rendo conto che anche per queste persone che non sono vittime della Chiesa quel che cerchiamo di fare è importante. Per me queste sono risposte sufficienti alle obiezioni», conclude Veronique Margron: «Pensare che delle vittime oggi possano almeno sentire di essere finalmente prese sul serio, sapere di essere credute, che si fa almeno un po’ per riparare per quello che hanno subito, penso che sia una cosa enorme».
https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2022/02/26/news/suor_margron_un_indagine_sugli_abusi_nella_chiesa_non_puo_che_essere_indipendente-2863376/
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