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Home NEWS e CRONACA LOCALE

Il “coraggio di guardare” che manca alla Cei: il rapporto indipendente sugli abusi a Bolzano

ludovica.eugenio by ludovica.eugenio
26 Gennaio 2025
in NEWS e CRONACA LOCALE
Reading Time: 8 mins read
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42115 BOLZANO-ADISTA. “Il coraggio di guardare” era già un titolo che faceva sperare: il progetto avviato, unico e assolutamente inedito in Italia, nel 2023 dalla diocesi di Bolzano-Bressanone per affrontare gli abusi sessuali perpetrati dal clero partiva proprio dalla necessità di conoscere la realtà per capirla e superarla, e di affidare questo compito a un organismo indipendente, super partes (v. Adista Notizie n. 41/23). L’approccio adottato, del resto, da mezzo mondo, l’unico in grado di garantire trasparenza e di sottrarre al campo scuro dell’omertà e delle protezioni una realtà i cui protagonisti, i sopravvissuti, o, come vengono qui chiamati, le “persone offese”, o “coinvolte”, sono stati sempre ignorati e non creduti.

Un progetto interamente finanziato dalla diocesi che il 20 gennaio scorso ha visto concludersi la sua prima parte, la consegna di un corposo rapporto di indagine di oltre 600 pagine (scaricabile da tinyurl.com/5eznks89) al vescovo mons. Ivo Muser e al vicario generale mons. Eugen Runggaldier, dopo una conferenza stampa di presentazione. Autori del rapporto, elaborato in un anno di lavoro, gli avvocati dello studio legale Westphal, Spilker e Wastl di Monaco di Baviera, già impegnati in un lavoro analogo nella diocesi di Aachen (Acquisgrana, 2020) e nella stessa Monaco (2022), che hanno lavorato in collaborazione con lo studio di Brunico Kofler Baumgartner & Partner , che ha offerto assistenza sul piano delle specificità linguistiche, culturali e giuridiche locali. A Monaco, lo studio legale aveva coinvolto Joseph Ratzinger per questioni di gestione dei casi all’epoca in cui era arcivescovo della città (v. Adista Notizie n. 3 e 4/22 Adista online 23, 24 e 26 gennaio 2022) e aveva dato conto dell’abisso di clericalismo, protezione istituzionale e fallimento della leadership.

Il progetto altoatesino triennale – portato avanti con con l’Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana (IADC), presieduto da p. Hans Zollner, che ha dato vita all’idea del progetto in occasione di un incontro informativo nel marzo 2022 a Bolzano – si presentava già innovativo: «Il concetto va oltre gli approcci e le forme precedenti di rilevazione della realtà degli abusi in ambito ecclesiale», si leggeva sul sito della diocesi. Oltre ai criteri sociostorici, quelli del diritto canonico e del diritto civile «necessari per l’indagine e l’elaborazione e orientati verso le vittime e gli abusatori», il progetto percorre «una nuova via», con l’intenzione di avviare, «attraverso una visione per il futuro, un completo processo di trasformazione organizzativa». Dunque coinvolgimento in contemporanea di esperti interni (per promuovere «l’accettazione interna e includere le competenze interne») ed esterni (che «devono garantire un’attuazione trasparente e scientificamente responsabile del progetto»).

I numeri e le cause sistemiche

Non sono le cifre e i dati percentuali l’aspetto più interessante del rapporto, che pure occorre dare.

Gli avvocati, il 20 gennaio, hanno sottolineato come il quadro che emerge sia soltanto una parte dell’emerso, e dunque la punta della punta dell’iceberg. Hanno scelto di non ricorrere a proiezioni, come avvenuto invece in Francia, «perché – si legge nel testo – si offrirebbe il fianco alle critiche di coloro che notoriamente tendono a smontare le indagini condotte nell’ambito degli abusi sessuali allo scopo di screditare, in generale, gli sforzi compiuti per fare luce e chiarezza in questo settore». Una frecciata alla CEI, che ha sempre screditato il lavoro francese, ma anche a papa Francesco, che non ha mai voluto incontrare la francese Commissione Ciase. E non è l’unica: il quadro che emerge, scrivono gli avvocati tedeschi, evidenzia «la chiara esistenza di lacune sistemiche nettamente riconosciute e ampiamente descritte. Non è quindi possibile affermare di trovarsi di fronte a casi isolati disgiunti dal sistema». Come è noto, la CEI e il suo presidente, il card. Matteo Zuppi, rifiutano che si parli di cause sistemiche e continuano a fare riferimento a “casi isolati”.

Su mille fascicoli esaminati grazie all’accesso al Centro di ascolto diocesano (nato ben 15 anni fa, mentre nel resto d’Italia hanno visto la luce intorno al 2020-21, e nemmeno dappertutto), agli archivi diocesani, dei Seminari, di varie istituzioni legate alla Chiesa, nel periodo dal 1964 – data di creazione dell’attuale diocesi di Bolzano-Bressanone – al 2023, emergono 67 «quadri di possibili aggressioni sessuali» che hanno coinvolto 75 persone. Si parla in 59 casi di «abusi in prevalenza probabili o dimostrati» a cui si aggiungono, sempre per quanto riguarda le persone offese, 16 casi che «risultano ancora non chiariti». E qui, un’anomalia rispetto al resto del mondo: il 68% di queste persone sono di sesso femminile, e l’abuso di sarebbe svolto quando avevano dagli 8 ai 14 anni. È noto infatti come, a livello tendenziale generale, più bassa è l’età degli abusati, maggiore è la percentuale dei maschi. Qui è il contrario, per cause che gli esperti dovranno studiare. Anche sul fronte degli abusatori c’è qualche sorpresa: 41 i preti coinvolti («29 per i quali le accuse mosse sono dimostrabilmente vere o altamente probabili. Rispetto ad altri 12 chierici, le accuse formulate non hanno potuto essere invece giudicate con il necessario grado di certezza», si legge nel rapporto). La loro età, al momento degli abusi, è più bassa di quanto emerga in altri analoghi rapporti, concentrando nel gruppo più folto (29%) la fascia di età compresa tra i 28 e i 35 anni.

Un dato interessante è che, se è vero che la gestione degli abusi è migliorata a partire dal 2010, data dell’esplosione in Germania dello scandalo che in questo territorio ebbe molte ripercussioni e data dell’istituzione del Centro di ascolto diocesano, la metà di questi 67 casi erano già noti alle istituzioni prima di quella data. Un segno della mancata volontà di fare chiarezza e di gravi ed evidenti carenze sistemiche.

Ed è proprio lo studio di queste carenze la parte più interessante di questo studio, nel quale si è scelto di fare nome e cognome dei responsabili istituzionali (vescovi e vicari generali), illustrati nei loro comportamenti nella gestione dei casi, comportamenti del tutto mancanti o non scevri da errori.

Correzioni cosmetiche

Il rapporto esamina diffusamente le cause sistemiche: «Ignorare le cause sistemiche – si legge nel rapporto – porta a una revisione solo apparente dei fatti»; «senza un’analisi delle cause sistemiche risulta a priori impossibile formulare raccomandazioni valide e appropriate che consentano effettivamente di eliminare le precarietà e inadeguatezze segnalate e non limitarsi a mere correzioni cosmetiche e di superficie». Tra di esse vengono citate una sessualità immatura e mancanza di strategie di gestione della propria sessualità; la sopraffazione derivante dagli obblighi di servizio, tendenze all’isolamento e mancanza di un ambiente sociale stabile al di fuori della sfera clericale; la pedofilia in sé, che però non appare qui come causa maggioritaria.

Tra le cause sistemiche della copertura e cattiva gestione da parte dei responsabili, la tabuizzazione e connotazione negativa della sessualità nell’etica della Chiesa e conseguente perplessità e inettitudine; il clericalismo e sistemi di alleanze maschili, che sfociano in sfociò in una sorta di “mentalità di barricamento” e in tendenze a serrare le file di fronte ai tentativi di riesame critico dell’operato e al necessario sanzionamento dei responsabili; il disinteresse per gli effetti sulle persone abusate e il timore di uno scandalo; il Diritto penale canonico, dal momento che è emerso come per la maggior parte non fosse sufficiente la consapevolezza della rilevanza e del carattere vincolante delle norme giuridiche e che lo stesso diritto (penale) canonico presenta «in misura considerevole carenze che ostacolano gli interventi volti a far chiarezza sulle vicende». La mancanza di apposito controllo può influenzare le decisioni con considerazioni estranee all’oggetto e alla materia, non di rado anche da simpatie o antipatie personali. Si parla anche di mancanza della cultura dell’errore, che «si manifesta in particolare nell’incapacità o nella non volontà dei responsabili diocesani a riconoscere come tali e correggere i propri errori o le decisioni errate prese dai propri predecessori. Questo atteggiamento ha gravi ripercussioni che minano fortemente non solo la fiducia nell’istituzione, ma anche la protezione delle parti lese». Come nel “caso 5” illustrato, esempio lampante di questa non-cultura dell’errore, si permise a molti dei sacerdoti accusati plausibilmente di abusi di continuare a rimanere indisturbati in servizio. Il “caso 5” venne trasferito di parrocchia in parrocchia per una decina di volte in 50 anni, perpetrando abusi con certezza in 7 delle destinazioni. Tra le cause sistemiche delle coperture, cui è dedicato ampio spazio, viene indicata anche la durata del mandato episcopale, sostanzialmente a tempo indeterminato. Stante un’eccessiva lunghezza del mandato, si consolidano «a livello amministrativo peculiarità operative e conseguenti critici sviluppi tali da lasciare sempre più inascoltate eventuali critiche». È poi citato il fondamentale fraintendimento della presunzione di innocenza che, da garanzia limitata ai procedimenti penali che esige che il soggetto sospettato non venga trattato come colpevole in assenza di prove, non esclude tuttavia la possibilità di procedere penalmente, in presenza di un dato sospetto, e nemmeno di adottare misure volte a scongiurare un pericolo. E invece viene erroneamente intesa dalla Chiesa e invocata per non prendere provvedimenti a carico del prete accusato: «È già di per sé curioso che la Chiesa, altrimenti restia ad integrare i principi del moderno Stato di diritto definiti dalla filosofia giuridica e solitamente pronta a rivendicare la propria autonomia e differenza dallo Stato, non mostri difficoltà di accettazione, quando a beneficiarne possano esserne i propri chierici», nota il rapporto.

Il rapporto cita poi le cause sistemiche a livello locale: il clericalismo laicale (si registra spesso «tra i laici una tendenza alla glorificazione della persona del sacerdote, esaltata fino a livelli di soprannaturalità» con il rischio evidente che «realtà non compatibili con questa visione, come ad esempio il mero sospetto di abusi sessuali di minori, vengano semplicemente rimosse e allontanate»); la prospettiva localmente ristretta dei fedeli (la tendenza, cioè, delle singole comunità parrocchiali a scaricare il problema della presenza di un abusatore su terzi, senza la consapevolezza che un trasferimento non costituisse di fatto una soluzione bensì, nella migliore delle ipotesi, solo uno spostamento del problema».

All’analisi di 24 casi segue, nel rapporto, l’elaborazione di raccomandazioni, che spaziano dall’attenzione alle persone offese, ad aspetti amministrativi, alla gestione degli abusatori. Si parla finalmente (di contro alla Cei, che rifiuta il tema) anche di risarcimenti, pecuniari e non. «Riportare la giustizia implica anche, quale elemento essenziale, avere una memoria collettiva degli atti di abuso e degli errori grossolani commessi dai responsabili ecclesiastici nel trattare questi casi. Essa è necessaria per mantenere una coscienza pubblica del fatto che, nell’ambito di competenza della Diocesi di Bolzano-Bressanone, ci sono state persone costrette a vivere enormi sofferenze e ingiustizie e che queste esperienze di dolore devono essere evitate, in futuro, con tutti i mezzi disponibili».

La diocesi si mette al lavoro

Quattro giorni dopo la presentazione del rapporto, il 24 gennaio, in conferenza stampa, il vescovo Muser si è assunto «personalmente le responsabilità per le omissioni durante il suo periodo di esiscopato, tra cui l’insufficiente controllo dei sacerdoti sospetti, la riluttanza nell’adottare chiare misure preventive nei confronti dei preti accusati e la documentazione carente nel delineare i passi nella gestione dei casi di abuso». Chiede «perdono alle persone coinvolte, alle comunità parrocchiali e ai fedeli, e sottolinea che la perizia commissionata non è un punto di arrivo, ma un mandato per continuare a lavorare con tutta la determinazione possibile». Tra le misure che dichiara di mettere in atto: linee guida con procedure chiare entro la fine di quest’anno, la creazione di un gruppo interdisciplinare per il perseguimento dei casi, l’istituzione di un team di intervento per preparare le decisioni in modo professionale, il rafforzamento della posizione delle donne nelle posizioni apicali della diocesi (aspetto molto sottolineato dal Rapporto; quattro dei nove uffici della Curia sono peraltro già guidati da donne), assunzione della cultura dell’errore come «parte integrante» del modus operandi della Chiesa. Il vescovo ha invitato le persone colpite a prendere parte attiva nel processo di cambiamento, fornendo una serie di contatti.

Runggaldier ha preso atto che «i casi di abuso nella Chiesa non possono essere considerati come episodi isolati, ma si basano sui deficit sistemici rilevati dal rapporto. Per fare fronte a questo contesto, saranno poste in essere misure concrete: strutture chiare e ben separate (Centro di ascolto, centro di intervento, Centro di prevenzione, che saranno rafforzati e riorganizzati), procedure chiare di norme diocesane, da verificare e ottimizzare periodicamente; una gestione dei fascicoli trasparente e tracciabile; un catalogo vincolante di misure, con un sistema di monitoraggio per il rispetto delle sanzioni e l’efficacia delle misure preventive; formazione e accompagnamento del personale, il tutto con un processo di continuo riesame e adeguamento alle necessità».

Il ruolo delle vittime

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Alla conferenza stampa è intervenuto anche don Gottfried Ugolini, responsabile del servizio tutela minori della diocesi. Si apre la fase due, ha detto, quella di elaborazione; ha annunciato che è in fase di istituzione un Consiglio delle persone colpite, che avranno un ruolo attivo in ogni fase e a ogni livello del lavoro; un team di supporto è a disposizione delle parrocchie. Inoltre, i gruppi di progetto nelle aree della pastorale, dell’amministrazione, Caritas e formazione implementeranno i concetti di formazione, sviluppando programmi di formazione e definendo linee guida. In generale, l’obiettivo è quello di un cambio netto di mentalità, «guardando, ascoltando e agendo». Sensibilizzazione, regole chiare nel rapporto con i minori e offerta di materiale informativo saranno prossimi passi di questo percorso.

Il progetto va avanti. E la CEI, impantanata nel suo “progetto pilota” privo di una commissione indipendente d’inchiesta cosa fa? Fa finta di niente: nel comunicato finale del Consiglio permanente del 22 gennaio, nemmeno una parola sul Rapporto di Bolzano. Uno scomodo precedente.

https://www.adista.it/articolo/73221

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ludovica.eugenio

Ludovica Eugenio, laureata in Storia delle origini cristiane, giornalista e traduttrice, nata nel 1966 a Torino, dal 1990 è direttore del settimanale di informazione religiosa Adista, presso la quale si occupa soprattutto della Chiesa di area anglofona e germanofona.

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