Intervento di Federico Tulli
Buonasera, vi ringrazio per l’invito a partecipare a questo importante appuntamento.
Poco più un anno fa, il 17 dicembre 2019, il papa ha finalmente tolto il segreto pontificio sui casi di pedofilia trattati dal Vaticano che riguardano i sacerdoti. Le magistrature civili di tutti i Paesi colpiti da questo fenomeno criminale possono quindi ora accedere agli atti dei processi canonici e agli archivi delle diocesi. Ma non solo. Probabilmente l’eliminazione del segreto pontificio segna anche una svolta a livello di comunicazione su temi “sensibili” che riguardano gli affari interni alla Santa Sede. Penso ad es. la decisione di rendere pubblico il dossier sul cardinale MacCarrick di cui tanto si è parlato nei mesi scorsi. Lo definirei un effetto collaterale dell’eliminazione segreto pontifico. Eliminazione che è senza alcun dubbio un importante segnale in direzione della trasparenza e della collaborazione della Santa sede con le istituzioni straniere e internazionali, e può avere importanti conseguenze in favore delle vittime in attesa di giustizia. Ma dal punto di vista della prevenzione dei crimini è bene dire subito che non sposta nulla. Andiamo per ordine.
Il segreto pontificio venne codificato nel documento “Secreta continere” di Paolo VI il 4 febbraio 1974. Riguardava (cito) “taluni affari di maggiore importanza” e doveva “essere custodito con obbligo grave”. Vale a dire, che in caso di violazione c’era la scomunica. Tra questi “affari di maggiore importanza” secretati c’erano diversi reati, tra cui la violenza su minori. Questo ha comportato per esempio che la vittima di un sacerdote pedofilo sottoposto a processo canonico non venisse mai informata dell’esito del giudizio. Ma anche che i nomi dei pedofili giudicati dai giudici vaticani potessero rimanere “sconosciuti” a quelli laici. Con ovvie conseguenze, purtroppo, sull’incolumità di decine di migliaia di minori in tutto il mondo, poiché i sacerdoti pedofili, terminato il periodo di preghiera e penitenza previsto come sanzione per il loro “peccato”, tornano quasi sempre a esercitare nelle parrocchie, a insegnare nelle scuole religiose, a frequentare oratori, campi scout e così via. Come del resto è stato documentato da decine di inchieste governative e miste Stato-Chiesa nell’ultimo decennio in Irlanda, Germania, Usa, Olanda, Belgio, Auystralia etc… Insomma, la segretezza è stata per decenni – se non per secoli, dall’Inquisizione in poi – una delle matrici della diffusione della pedofilia clericale nel mondo. Ora con colpevolissimo e inaudito ritardo almeno a questo la Santa Sede ha posto rimedio.
Un’altra matrice della diffusione della pedofilia “ecclesiastica” è stata ed è la “ragion di Stato”.
Mi spiego meglio con un esempio veloce:
Il 9 aprile 2010 – anno in cui le notizie su questi crimini iniziarono finalmente ad essere pubblicate con regolarità anche in Italia – il Washington Post scoprì che nel 1985 il cardinale Ratzinger (allora pref. della Cdf) aveva sconsigliato di ridurre allo stato laicale un sacerdote californiano che aveva molestato minori. La replica della Santa Sede fu immediata: l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede «non coprì il caso», ma chiese solo di studiarlo con «maggiore attenzione» per il «bene di tutte le persone coinvolte». Nella lunga inchiesta il WP ricostruisce che, in una lettera scritta in latino al vescovo John Cummins, della diocesi di Oakland, Ratzinger decise di non rimuovere il sacerdote. Una scelta che il futuro Papa motivò scrivendo testualmente «per il bene della Chiesa universale». E cosa vuol dire tradotto in termini più terreni? Per evitare lo scandalo pubblico. Di qui la “ragion di Stato”.
Per decenni in nome della “ragion di Stato” e protetto dal segreto pontificio un crimine violentissimo nei confronti degli esseri umani più indifesi è stato sepolto sotto una gigantesca e diffusa cappa di omertà, complicità e silenzio impossibili – umanamente – da accettare. Va detto però che se il segreto pontificio è stato eliminato, non si può dire altrettanto della ragion di Stato.
Tutto questo riguarda molto da vicino l’Italia e non solo per motivi geografici. Sul settimanale Left, e poi nel libro Giustizia divina con Emanuela Provera, per primi e finora unici giornalisti grazie alla collaborazione di rete L’Abuso abbiamo bucato la cappa di cui sopra che grava sui tribunali ecclesiastici sparsi in Italia e presenti in ciascuna delle oltre 220 diocesi. Riporto qui un brano del racconto di Giada Vitale, vittima a 13 anni di un parroco 55enne.
«Nella stanza eravamo in tre: io, il giudice e il notaio della Curia di Termoli. Il notaio lo conoscevo già, perché prima dell’udienza mi disse che il giudice ecclesiastico voleva una copia della mia denuncia alla procura italiana. E già questo fa capire in che modo lavora la giustizia ecclesiastica nei confronti delle presunte vittime. Inoltre Giada affrontò da sola l’interrogatorio, cioè senza avvocato, perché in questi processi può essere presente solo quello scelto dalla curia, anche per il testimone. E lei lo ha giustamente rifiutato. «Il giudice cercava di farmi dire che provavo affetto per il mio violentatore ma io ho voluto solo precisare che quando sono iniziati gli abusi avevo tredici anni». Dal giorno dell’audizione sono passati circa 5 anni e Giada non ha mai saputo nulla in via ufficiale. «Non mi hanno mai comunicato l’esito del processo né so in che modo le mie dichiarazioni sono state utilizzate».
Grazie all’abolizione del segreto pontificio altre vittime, diversamente da Giada, potranno d’ora in poi conoscere l’esito del giudizio canonico? Stando alle dichiarazioni della Santa Sede la risposta è sì e sarebbe già qualcosa in favore delle vittime, perché certe informazioni potrebbero tornar loro utili durante il processo penale e civile italiano. Ma quello che forse più ci dovrebbe interessare è la possibilità di collaborazione delle autorità ecclesiastiche con quelle civili italiane. Da questo punto di vista la “svolta” di Bergoglio però non sposta nulla. Potrei dire, non per colpa del papa. Difatti la legge italiana – diversamente da quella francese, per esempio – per reati di questo tipo prevede l’obbligo di denuncia solo per i pubblici ufficiali, e i vescovi che pubblici ufficiali non sono continuano a fare quello che hanno sempre fatto: cioè a non denunciare all’autorità civile i preti sospettati. Questione ribadita anche dalla Conferenza episcopale italiana quando ha spiegato perché non ha inserito l’obbligo di denuncia nelle linee guida antipedofilia.
Se a questo si aggiunge che anche il Nuovo Concordato del 1985 tra Stato italiano e Santa sede all’articolo 4 solleva i vescovi dall’obbligo di collaborare con l’autorità civile, ecco che restano irrisolti tutti i nodi che da sempre limitano fortemente nelle indagini la magistratura italiana quando ci sono di mezzo dei preti con il rischio di interferire con l’esercizio dell’azione penale nei confronti di quelli sospettati di pedofilia e dei “superiori” che trasferendoli di parrocchia in parrocchia consentono loro di rimanere in contatto con minori e di ripetere l’abuso.
L’eliminazione dell’art. 4 dal Concordato non sarebbe cosa da poco. Lo dicono anche i casi censiti da Rete L’Abuso e le statistiche che Francesco Zanardi ha comunicato durante il suo intervento. Personalmente ho dedicato un intero libro all’Italia ricostruendo la storia della pedofilia nella Chiesa italiana dal 1870 al 2014.
Da quando nel 2010 ho scritto il mio primo libro per L’Asino d’oro su questi temi ho avuto modo di parlare con centinaia di vittime. La vita di molte di loro prosegue in funzione dell’ottenimento di una giustizia per quanto subito. C’è chi – come i presenti – ha fondato un’associazione trasformando la propria vicenda personale in una battaglia collettiva di civiltà. Uno dei punti di forza del loro impegno civile – forse il più importante perché inattaccabile – secondo me sta nell’aver compreso che il vero “nemico” da combattere risiede nel pensiero che ancora oggi nega la violenza subita dal bambino. Quel pensiero cioè che confonde un reato (violentissimo contro una persona) con il peccato. Sappiamo infatti dallo psichiatra Fagioli che la pedofilia è l’annullamento della realtà umana del bambino, una sorta di omicidio psichico.
Tuttavia anche nella Chiesa di papa Francesco l’abuso, cioè «l’atto sessuale di un chierico con un minore», è trattato ancora solo come un delitto contro la morale, un’offesa a Dio, una violazione del sesto comandamento. Di conseguenza il peccatore deve risponderne solo a chi rappresenta l’Altissimo in Terra (il papa), e non alle leggi della società civile di cui fa parte. Ebbene di tutto questo non tengono conto i miei colleghi giornalisti italiani quando devono riportare delle notizie che riguardano presunti crimini su minori commessi in ambito ecclesiastico; e nemmeno ne tiene conto lo Stato italiano mantenendo in vita il Concordato, sebbene dal 1996 la legislazione in materia di reati a sfondo “sessuale” sui bambini (e le donne) abbia fatto enormi progressi. Quali conseguenze questa cecità delle nostre istituzioni abbia sull’incolumità dei bambini che frequentano le parrocchie, gli oratori, i seminari minori e le scuole cattoliche non solo è facile immaginarlo ma è stato – purtroppo – documentato.
Dunque, in conclusione, bene l’abolizione del segreto pontificio – perché in qualche modo può agevolare l’azione della magistratura civile – ma non basta. Per lo meno in Italia non basta . Occorrerebbe un salto di paradigma culturale che porti il Vaticano, gli uomini di Chiesa, le istituzioni italiane e i grandi organi di stampa a “vedere” lo stupro per quel che è: un crimine violentissimo che distrugge la vita di chi lo subisce. Ma ciò significherebbe per dei credenti negare il VI Comandamento, uno dei cardini del potere religioso e politico della Chiesa cattolica e apostolica romana. Un potere temporale che lo Stato italiano e i media italiani fanno ancora fatica a disconoscere.
Federico Tulli
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