Luca Barbareschi conosce l’arte di affabulare. Praticando furbesca ironia, dice di se stesso che, essendo un attore, di mestiere fa il pirla. Un pirla che sa bene quando far scoppiare una bomba, vendendola come ricerca della verità assoluta. Racconta la sua vita in Cercando segnali d’amore nell’universo (Mondadori), definito romanzo autobiografico quando in realtà è un diario, preciso, puntiglioso, su quanto ha fatto nella vita. Grandezze e miserie, enfatizzando conquiste e cadute.
«Sono grato per le ferite che ho ricevuto, mi hanno motivato», scrive nell’esergo. Dove però le ferite si trasformano in una scandalosa sfida trionfante: già molti anni fa aveva raccontato di essere stato vittima di preti pedofili, e di attribuire alle violenze subite da bambino gli scompensi della sua vita. In questo libro rovescia tutto, esalta addirittura la seduzione allora esercitata sugli adulti concupiscenti. Tutto inizia in prima media, al Leone XIII di Milano, il prete-professore definisce lui e i compagnucci i suoi angioletti. Scrive Barbareschi: «Mi guarda, io sono davvero bellissimo. Mi chiama il suo angioletto preferito». Il prof con la seria veste nera lo manda a prendere il registro dimenticato nella sua stanza. «Poco dopo mi raggiunge… Mi fa spogliare e vestire da chierichetto… Mi fa sedere vicino a lui sul letto. Comincia a toccarmi. Si tira su la veste. Sotto, non ha niente. Mi volta. Mi tira su la veste».
Questa storia, con preti diversi, è durata dai nove ai dodici anni. «Perché – confessa Luca – ero un bambino molto seduttivo. E precoce. E morboso… E andiamo su, evitiamo inutili moralismi, chi è che non sa che a otto anni la sessualità, ancora confusa, esiste eccome: si fa la lotta, ci si tocca, ci si fanno le pippe insieme… I preti mi hanno molestato, ma anche le tate. Ho messo le mani nelle tette della governante a nove anni. Loro le tate, mi prendevano in mano il pisello alla stessa età… Imperdonabile che gli adulti si approfittino di un bambino, ma – chi seduce chi – è una vecchia, grande rimossa domanda. Basta leggere il Satyricon di Petronio. Ero un Piccolo Diavolo, di straordinaria bellezza. Di straordinaria sensualità».
Quasi un ossessivo riflesso viscontiano, per Barbareschi, ma il concupito straordinario Tadzio di Morte a Venezia diventa al suo confronto personaggio da asilo. È così che, con l’alibi di andare contro ogni ipocrisia sociale, Barbareschi da vittima diventa principe seduttore, che già da bambino godeva nell’avvertire il suo potere sugli adulti amorali. Voi non avete idea del senso di potere che si avverte in questi casi, dice ai lettori. Roba forte, tanto che il resto del racconto, per contrasto, diventa quasi asettico, banale. L’infanzia con la mamma bella e svagata, il padre ingegnere in giro per il mondo, i figli, le mogli. Si inizia dall’incontro con la sua attuale compagna, Elena, intesa perfetta, gravidanza, casino quando lei scopre i duecento sms inviati in contemporanea ad altre donne. Elena lo accusa di essere malato di sesso, lui ammette e va dallo psicoanalista per guarire dalla dipendenza del sex addict, versione nostrana di Michael Douglas.
Altra voglia di scandalo, sia pure in tono minore rispetto alla condivisione pedofila: dove dice che cosa combinano gli uomini nell’età adulta, specie nelle saune, dove il tipo più dotato viene riconosciuto capobranco. Precisa che non sta parlando di uomini gay, ma etero, tutti grandi porcelloni.
Il resto è una cavalcata, tra amicizie, amori, la vita a New York, l’Actors Studio, il cinema, il teatro con la conquista (meritata) della direzione del Teatro Eliseo di Roma, la politica e i suoi frequenti sfacciati ribaltoni, incluso l’entusiasmo per Gianfranco Fini, poi, purtroppo tardivamente, rinnegato.
di Bruna Magi
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