Il papa dice che «la pedofilia nella Chiesa è opera del diavolo», è una ‘malattia’ diabolica… E vabbè, mi rassegno sconsolato a queste argomentazioni clericali da un tanto al chilo: quando nella Chiesa qualcuno fa delle porcherie è sempre colpa di un immaginario diavolo di passaggio che sostituisce in quel frangente l’angelo custode… Così come quando preti, frati, suore e vescovi non sanno che dire di cose della fede e della vita ci sparano addosso il classico: «È un mistero!». Per cui, tra diavoli e misteri, la razionalità e l’intelligenza vanno a farsi friggere, mentre i reati si rifugiano nei peccati o in una presunta malattia di “possessione”, o vengono rottamati dall’ipocrisia.
Fatto sta che le vittime di pedofilia negli occhi e nella coscienza hanno volti, violenze e ferite di carne d’uomo, e non diavoli con code e corna che vanno a zonzo senza fissa dimora. Ma facciamo finta che quello che dice il papa, per caso o per culo, sia vero; o abbia divinamente ragione: tutti quei vescovi e quegli altri papi che l’hanno fatta passare liscia a quei morbosi carnefici, lasciando senza un minimo di giustizia le loro vittime, dobbiamo o dovremmo conseguenteme-nte considerarli, essi stessi o chi per loro, degli ‘indiavolati’? Oppure possiamo permetterci di considerarli penalmente dei ‘mandanti’ o almeno dei complici, visto che direttamente o indirettamente sono loro che li hanno formati e ordinati “sacerdoti”, quegli stramaledetti pedofili in tonaca?
Diavoli a parte, papa Francesco ci sta mettendo tanto impegno per suturare e rimediare ai danni presenti e tamponare quelli futuri nei confronti di questa “malat-tia”/peccato/reato che ha sfregiato e svilito la credibilità della Chiesa. Il problema però, per lui e per tutti, è che nelle singole realtà diocesane ed ecclesiali questa sua tensione etica non ha la stessa intensità e la stessa voglia di verità e di riparazione, anzi, ancora si insiste secondo il modello tradizionale a ‘riparare’ con la rimozione, cioè spostando il soggetto e il problema in un’altra ‘location’ o in luoghi di cura, parrocchie e conventi “fuori mano”, snobbando le vittime, le leggi dello Stato, gli effetti civili e penali e i danni morali e psicologici subiti dalle vittime. E questa modalità, in particolare, è ancora quasi unanimemente la scelta privilegiata da Curie, ordini religiosi, congregazioni… E così mentre da un lato si predica bene, dall’altro si insiste a voler considerare la pedofilia solo un ‘peccato o una malattia’ e il prete pedofilo un ‘peccatore’ qualunque, malato fin che si vuole, ma peccatore coi fiocchi, saltando a piedi pari il fatto che è un reato gravissimo da denunciare. D’altronde, nella formazione dei preti si insegna ancora che il prete è ontologicamente diverso dai comuni mortali, quasi un cittadino speciale che gode di extraterritorialità giudiziaria, un marziano del diritto e dei tribunali umani, appartenente ad una Chiesa/Stato che presume di avere l’esclusiva di infilarsi negli orrori ed errori commessi dai propri rappresentanti, dimenticandosi a monte di incentivare un’educazione alla crescita umana, affettiva e relazionale dei propri “ministri”, e a valle rifiutando di fare i conti non solo col popolo di Dio, ma anche con le leggi, i principi e l’etica.
E il perdono? Il perdono cronologicamente viene sempre dopo. Sì, vogliamo che la Chiesa sia capace di chinarsi ai piedi anche del peccato più orrendo e di rialzarsi poi davanti a occhi dilatati di nuova luce perché perdonati e feriti dalla vergogna e il pentimento, il Vangelo di Gesù ci insegna questo, ma dobbiamo rispettare anche quel perdono del popolo che si chiama giustizia, l’unico perdono che consente anche alle vittime l’infinita pazienza di ricominciare e di trovare forse anche nelle ferite subite quei fili d’oro che li riallacciano alla fede.
Benito Fusco è frate dell’ordine dei Servi di Maria, parroco di S. Lorenzo a Budrio (Bologna)
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