Dare l’impressione di attuare una pulizia radicale, quando invece si è trattato di interventi mirati a salvare la reputazione e le casse della Chiesa, evitando ogni coinvolgimento del Vaticano e della Santa Sede. Di fronte agli scandali finanziari e alla mala gestione dei crimini pedofili di matrice clericale, è stata questa la strategia che ha viaggiato sotto traccia per tutto il pontificato di Benedetto XVI, sotto la sua “benedizione”. In sintesi, cambiare tutto perché nulla cambi, per preservare il potere del Vaticano e la propria influenza all’interno della Santa Sede. Formulando in latino l’intenzione di abdicare da pontefice, la “storica” mattina dell’11 febbraio scorso, Joseph Ratzinger, ha rinnovato questa prassi riuscendo in pochi secondi a cancellare dalla memoria collettiva otto anni di governo caratterizzati da un’azione radicale di restauro e difesa delle tradizioni e di arroccamento della Chiesa cattolica su posizioni intransigenti nel nome della cosiddetta neo-cristianità.
Già perché in quel momento si è persa traccia, almeno qui in Italia, degli storici attriti dell’illustre teologo con le altre dottrine religiose monoteiste, dei suoi anatemi in difesa del celibato dei preti e contro il sacerdozio femminile, di papa Benedetto XVI che non più tardi di due mesi prima aveva affermato che aborto ed eutanasia, in quanto forme di «omicidio», sono contro la pace nel mondo. Ed è pure scomparso il cardinale Ratzinger che da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha lasciato dissolvere nel nulla diversi crimini di pedofilia clericale pur di preservare l’immagine pubblica della Chiesa universale. In un attimo le sue inattese dimissioni, definite dai media italiani un gesto rivoluzionario, lo hanno tramutato agli occhi dell’opinione pubblica in un eroe dell’epoca moderna. E insieme agli otto anni di pontificato – segnati dalle sconfitte incassate dalla sua linea di governo nel confronto con quasi tutti i nodi della situazione ecclesiale ed evidenziate dal ruolo sempre più sfumato della Chiesa di Roma nella società contemporanea – sono scomparsi gli oltre quattro lustri dello zelante capo della Congregazione, che si erano conclusi nel momento in cui è diventato papa. Trenta anni vissuti da braccio armato della controriforma evaporati con un gesto che potrebbe cambiare il corso della storia della Chiesa, modificando l’immagine di Ratzinger in quella di un riformatore, e restituendo ai cattolici la fiducia nell’istituzione intaccata da una serie impressionante di scandali. Potrebbe.
Con il Conclave alle porte, aumentano infatti le pressioni dei cardinali chiamati a eleggere il nuovo papa e l’attenzione della stampa internazionale riguardo la vicenda dei cosiddetti Vatileaks. La “Relatio” riservata sulla fuga di documenti e i veleni interni alla Curia romana, redatta dalla commissione dei cardinali incaricati da Benedetto XVI e solo a lui presentata nel dicembre scorso, il cui contenuto al momento è secretato, potrebbe, appunto, deflagrare da un momento all’altro con delle conseguenze non del tutto imprevedibili. Tutta l’operazione di pulizia dell’immagine della Chiesa, realizzata da Joseph Ratzinger e i suoi stretti collaboratori, durante la sua permanenza sul trono di Pietro, rischia seriamente di risultare vana. Dando anche tutto un altro significato alla sua abdicazione.
«Già oggi le dimissioni di Benedetto XVI dimostrano il fallimento della sua politica e penso che ad esempio riguardo gli scandali finanziari e gli abusi pedofili la sua azione sia stata finalizzata più a una pulizia d’immagine che una pulizia interna della Chiesa» osserva Tommaso Dell’Era docente di Teorie e tecniche della propaganda politica all’Università della Tuscia di Viterbo.
Vale la pena ricordare il caso della legge 127 antiriciclaggio emanata dal papa il 30 dicembre 2010 per attuare la Convenzione Monetaria tra il Vaticano e l’Unione europea. Dopo la pubblicazione nel 2012 di Sua Santità, il libro-inchiesta firmato da Gianluigi Nuzzi per Chierelettere basato in gran parte sugli stessi documenti vagliati dalla commissione cardinalizia, questa norma “concernente la prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo”, che fu presentata e accolta come una vera e propria “rivoluzione” nella legislazione vaticana, si è rivelata solo un apparente impegno a rompere col passato. Quel passato che, nei 70 anni di vita dell’Istituto opere religiose, ha consegnato alla cronaca (nera) le scorribande “finanziarie” del cardinal Marcinkus, di Sindona, di Calvi, i “rapporti” delle gerarchie ecclesiastiche con la banda della Magliana e la mafia, nonché i trattamenti di favore a uomini di governo, politici, imprenditori e affaristi italiani.
C’è poi un altro elemento che occorre considerare: i costi finanziari a carico della Chiesa per il danno d’immagine provocato dagli abusi clericali sui minori nel biennio 2010-2011. Sono stati calcolati nel 2012 dal National Catholic Risk Retention Group e presentati a un simposio mondiale sul tema organizzato dalla Santa Sede all’Università Gregoriana di Roma. Lo studio li ha quantificati in circa due miliardi di dollari mettendo in luce come ad incidere di più siano stati i costi non strettamente finanziari, vale a dire: investimenti mancati in opere di bene e danno alla missione evangelizzatrice. In poche parole: perdita di potere politico, fuga di fedeli e soprattutto di offerte. «Ratzinger – prosegue Dell’Era – da prefetto della Congregazione è personalmente coinvolto nella copertura di alcuni casi di abusi, su tutti quello del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel Degollado. Pertanto se anche da pontefice ha avuto intenzione di fare pulizia per bloccare questa emorragia non è potuto andare oltre un certo limite. Nel corso del suo pontificato invece di “tolleranza zero” contro la pedofilia, si è tenuta una condotta adattata ai singoli casi via via emergenti, per evitare il massimo delle perdite economiche e di immagine, con il minimo possibile impegno soprattutto pubblico. Basti ricordare le polemiche per la scarsa attenzione alle “vittime” nei suoi viaggi pastorali in Usa o Australia». Per non dire dei numerosi insabbiamenti, oscurità e resistenze specie in Italia. «Le resistenze ci sono, non però tra chi vuole tolleranza zero e chi invece vuole continuare a nascondere. Ma tra complici dello stesso livello che difendono interessi diversi (diocesi locali, episcopati nazionali versus curia romana, cordate cardinalizie varie).
La gestione della pedofilia e degli abusi in questo momento è centrale e vitale per l’immagine della Chiesa ma è la cartina tornasole delle contraddizioni del neo papa emerito. Secondo Dell’Era questo è dimostrato dal fatto che il cardinal Roger Mahony, accusato negli Stati Uniti di aver “mal gestito” i casi di 122 sacerdoti pedofili evitando di segnalarli alla magistratura, «è stato chiamato dal Vaticano a partecipare al Conclave, mentre l’ex primate di Scozia, Keith O’Brien, accusato (e poi reo confesso) di abusi su quattro seminaristi, è stato escluso. In pratica, quando le violenze diventano pubbliche e non si può più impedire la fuga di notizie, la Santa Sede interviene facendo passare questa azione come se fosse una sua iniziativa. Contro chi invece ha coperto gli abusi non si agisce perché Ratzinger è il primo ad averli insabbiati. Ecco, lui dimettendosi si è lasciata una porta aperta. Una mossa abile. Da papa emerito rimane dentro il Vaticano, anche per motivi giuridici, mantiene un’influenza e può continuare a esercitare una forma di controllo. Però si è dovuto dimettere».
Federico Tulli, Left n° 9 del 9 marzo 2013
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