La Rete L’Abuso, l’associazione sopravvissuti agli abusi del clero, a ottobre ha presentato un esposto in Procura a Bergamo nei confronti di don Valentino Salvoldi, 78 anni, per le sue «presunte condotte criminali ai danni di circa una decina di persone». Due vittime del prete, all’epoca minorenni, hanno deciso di esporsi e raccontare la loro storia a Domani.
Si definisce «un mendicante d’amore», don Valentino Salvoldi, sacerdote della diocesi di Bergamo. È un predicatore appassionato, che dedica la sua vita a liberare il messaggio evangelico dai lacci in cui una chiesa, a suo dire troppo rigida, lo ha imbrigliato: parla di gioia del corpo, invita a sostituire il segno di pace al termine della messa con lunghi abbracci. Dopo essere stato missionario in Africa, torna in Italia e all’inizio degli anni ’90 comincia ad organizzare campi per giovani adulti in cui si cala nel ruolo del prete progressista, aperto al confronto e critico della società capitalista. Ben presto, però, decide di rivolgersi agli adolescenti perché, sostiene, è quella l’età in cui si forma la persona e dopo «è tardi per cambiare». Li invita a cercare la verità, a viaggiare e a scegliersi un maestro di vita che li guidi. Proprio questo è il rapporto che lui instaura con i suoi “prediletti”, a cui rivolge attenzioni speciali, baciandoli sulla bocca e portandoseli nel letto “per un riposino” o per la confessione. Sono ragazzini, alcuni hanno appena tredici anni, e l’esperienza di un campo-scuola con un sacerdote che osa dire cose trasgressive li affascina. Lui li ricompensa con complimenti e incoraggiamenti e se si ritraggono quando li tocca nelle parti intime, subito li rassicura: «quel che facciamo qui è buono».
«Valentino nei campi aveva creato una realtà alternativa, in cui le regole del mondo esterno non valevano: ti invitava a esplorare il tuo corpo, ti incoraggiava a esprimerti, a ribellarti alle convenzioni e nel farlo ti riempiva di elogi, ti convinceva che eri nel giusto», racconta Stefano Schiavon, che ha frequentato i suoi campi a partire dal 1998, quando aveva diciassette anni. Don Salvoldi ha modi informali, sa come conquistarsi la fiducia dei ragazzi quando evoca culture lontane in cui l’amore non è mai proibito ma sempre «generoso, prolifico, senza barriere». «Aveva 35 anni più di me e quando mi baciava era sgradevole, ma lo accettavo come parte dell’esperienza speciale che lui proponeva» dice Andrea Travani, un’altra vittima, all’epoca minorenne. Soprattutto, quel prete che pare così colto ripete ai suoi preferiti che loro hanno menti superiori e sono destinati a realizzare grandi cose: alla molestia sessuale, si somma quindi la manipolazione psicologica, ancora più pervasiva. «Il rapporto fisico era la conseguenza dell’appartenere alla sua “élite”: mentre mi toccava, continuava a dirmi che ero unico e avevo qualità straordinarie, mi faceva il lavaggio del cervello», spiega Travani.
Così, mentre Salvoldi ripete ai suoi “eletti” che loro sono «l’avanguardia di Dio», le sue carezze e i suoi baci si fanno sempre più invadenti e sfacciati: «arrivava a baciare i ragazzi davanti a tutti. Una volta sono stato chiamato nella sua stanza per il “riposino” e l’ho trovato a letto sorridente e tranquillo con un ragazzino», ricorda Schiavon. La violenza e la manipolazione vengono così normalizzate. Col tempo i partecipanti ai campi sono sempre più piccoli: il prete li chiama “i masturbini”. La dinamica è quella di una setta, in cui Salvoldi è il leader indiscusso che detta i codici interni: chi dissente, è umiliato pubblicamente o allontanato.
«Dovevi essere in tutto e per tutto con lui: ti spingeva a lasciare la ragazza, ti portava a rompere con gli amici», ricorda Travani. Nel 2000 il ragazzo fa un viaggio in Canada con il prete di tre settimane e cade totalmente sotto il suo dominio. «Mi diceva che se l’avessi rifiutato mi sarei allontanato da un giusto cammino di fede: mi pareva di non avere un’alternativa». Al ritorno, Andrea è talmente dilaniato da pensare al suicidio. «I conti non tornavano: da un lato i miei amici mi mettevano in guardia da questo rapporto, dall’altro lui mi diceva che era normale che rimanessi da solo perché ero troppo intelligente per essere capito. Ero così confuso e infelice che volevo uccidermi».
Scrittore e conferenziere affermato, don Salvoldi è un prete difficile da mettere a fuoco. Sul suo sito, i dati biografici sono generici: scrive che ha studiato per venticinque anni e per altrettanti ha insegnato filosofia e teologia morale, soprattutto come visiting professor nei paesi del terzo mondo. «Ora sono al servizio della Santa Sede per la formazione del clero delle giovani Chiese», aggiunge, senza specificare in cosa consista questo “servizio”. È un “fidei donum”, cioè un sacerdote mandato a esercitare il ministero in terra di missione, ma è soprattutto un autore molto prolifico: pubblica con diverse case editrici (Paoline, Elledici, Gabrielli editori, Città Nuova e altre) saggi divulgativi di morale, raccolte di preghiere, biografie, alcuni tradotti anche all’estero. Lo stile è enfatico, zeppo di frasi ad effetto, e il tema ricorrente è l’amore in tutte le sue espressioni. Dal sito della Gabrielli editori apprendiamo che è stato docente di filosofia e teologia morale all’Accademia Alfonsiana di Roma e che «per il suo impegno è stato espulso da sette stati africani, due volte è stato davanti al plotone di esecuzione in Nigeria ed è sfuggito alla lapidazione in Bangladesh». In realtà, la sua docenza all’Alfonsiana si limita a un solo semestre, nel 1988-1989, «come invitato, con un corso su “Il sacro nelle culture africane”», come attesta padre Maurizio Faggioni, docente di bioetica nello stesso istituto.
È così attento a costruire la sua immagine di studioso e missionario devoto da investire qualche centinaio di dollari per l’inserimento del suo nome nell’annuario “Distinguished leadership” («per i suoi eminenti contributi come scrittore e come promotore di giustizia e di pace») pubblicato a pagamento dall’American Biographical Institute di Raleigh, North Carolina, ente più volte segnalato per truffa. Un dettaglio che conferma l’egocentrismo del sacerdote, che durante una lezione in Etiopia nel 2002 non temeva di definire sé stesso troppo «bello e intelligente» per piacere alla chiesa; una chiesa che «ha paura di lui» e preferisce invece ordinare persone «più normali».
Non pago dell’attività dei campi scuola, Salvoldi all’inizio del Duemila decide di pensare più in grande e fonda la onlus Shalom, «un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale, avente come finalità la formazioe morale e la crescita culturale dei giovani». Il suo motto è «i giovani salvano i giovani» e promette «la gioia di sentir rullare i tamburi, mentre i piedi si muovono lieti nella danza al sogno di “cieli nuovi e terra nuova”», come si legge in un volantino di presentazione. Presidente è il fratello, Giancarlo Salvoldi, politico, eletto alla Camera dei Deputati per i Verdi dal 1987 al 1992. Dopo qualche anno la onlus viene messa in liquidazione e in rete non si trovano tracce di progetti effettivamente realizzati.
Se per alcuni l’esperienza dei campi è stata liberatoria e stimolante, per gli “eletti” è diventata presto un incubo. «Una decina di anni fa una vittima ha scritto sul sito web di Valentino che ricordava quando lo baciava sulla bocca, lo portava sul suo letto e si strusciava su di lui con la scusa di parlargli di Dio – testimonia Schiavon – Questa persona diceva esplicitamente che quel fatto gli aveva rovinato la vita, ma il messaggio è stato cancellato». Schiavon, che soltanto di recente ha cominciato a rielaborare il trauma, ha contattato più di cinquanta partecipanti ai campi degli anni Novanta e Duemila e raccolto molte testimonianze di molestie. «Pensavo di essere l’unico e invece ho scoperto che molti ne parlavano già allora – afferma – Gli abusi fisici e psicologici che ho sentito ripetere da molte persone sono sconvolgenti».
Domani ha cercato di raggiungere Valentino Salvoldi ma non ha avuto risposta. La Rete l’Abuso ha segnalato il caso alla diocesi di Bergamo, dove il prete risulta ancora incardinato, e al presidente della Cei Matteo Zuppi. «In maniera informale cercherò di capire se ci sono procedimenti a suo carico», ha risposto Zuppi al presidente della Rete Francesco Zanardi, sottolineando che la segnalazione è «l’equivalente di una lettera anonima, che come è ovvio può rappresentare un segnale di problemi ma anche, purtroppo, volontà di crearli o peggio di diffamazione. La giustizia richiede fatti e persone».
Ora le vittime hanno cominciato a parlare.
https://www.editorialedomani.it/fatti/cosi-ci-baciava-e-toccava-le-parti-intime-laccusa-shock-contro-don-salvoldi-ukoayadz
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