Il sacerdote processato da un tribunale canonico per reati sessuali su minore, può essere giudicato per lo stesso fatto anche da un Tribunale italiano, senza che ci sia violazione del ne bis in idem. La Corte di cassazione, con la sentenza 34576, respinge il ricorso di un parroco, condannato dal vescovo in via extragiudiziale con un processo penale amministrativo. Un procedimento canonico, con un iter più rapido, che si era concluso con il divieto perpetuo di esercitare il ministero con minorenni, unito all’ obbligo di dimora per cinque anni nella residenza “Oasi di Elim”, una struttura dedicata alla cura dei preti pedofili. Pene afflittive dunque – anche se, ad avviso delle parti civili, non paragonabili a quelle previste dall’ordinamento italiano – in base alle quali il ricorrente aveva eccepito la violazione del ne bis in idem, dopo la condanna della Corte d’Appello dell’Aquila che aveva confermato i tre anni e otto mesi di carcere, stabiliti dal Tribunale per atti sessuali compiuti con un minore di 16 anni. Secondo la tesi della difesa il principio del ne bis in idem sarebbe valido anche nei rapporti tra Italia e Santa sede, per la reciproca fiducia che contraddistingue i rapporti, in virtù di principi costituzionali di parità e anche per l’obbligo imposto allo Stato dall’articolo 10 della Carta, di conformarsi alle norme di diritto riconosciute a livello internazionale.
Il carattere territoriale del ne bis in idem
Ma la lettura è frutto di un errore giuridico, che la Cassazione sottolinea. Il ne bis in idem, non rientra nella sfera dei diritti umani inviolabili e non ha natura di principio di diritto internazionale in grado di prevalere su quello di territorialità. Può semmai essere applicato in presenza di convenzioni ratificate e rese esecutive tra Stati, vincolanti solo per i contraenti e nei limiti dell’accordo raggiunto. In generale lo Stato italiano, come la maggior parte degli Stati moderni, si ispira al principio della territorialità e della obbligatorietà generale della legge penale. Questo con la chiara giustificazione di assicurare una giustizia che tenga conto delle diverse valutazioni sociali e politiche delle condotte umane. E soprattutto in campo penale dove il peso attribuito ad alcuni reati è diverso anche nella coscienza popolare.
L’assenza di accordi o convenzioni con la Santa Sede
Né il principio del ne bis in idem si può ritenere applicabile per effetto di accordi tra Santa sede e Italia o di Convenzioni alle quali entrambe abbiano aderito. La Santa Sede è rimasta fuori dalla “Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen” avendo siglato solo la “Convenzione moneraria europea”. Nessun effetto, nel senso auspicato dalla difesa, può derivare neppure dal Trattato del ’29, che si è limitato a consentire la libera circolazione di merci verso lo Stato Vaticano o istituzioni o uffici della Santa Sede. Va escluso anche che la Santa Sede abbia aderito all’Unione europea, avendo solo una stabile rappresentanza a Bruxelles, ed essendo ininfluente, in assenza di una formale adesione, il fatto che il Vaticano sia una “enclave” dell’Italia. Per finire la Santa sede non è membro dell’Organizzazione delle Nazioni unite, dove ha il solo status di “Osservatore permanente”.
Il Trattato e il Concordato del ’29
Sbagliata la conclusione del ricorrente anche per quanto riguarda l’applicabilità dell’articolo 23 del Trattato tra Santa Sede e Italia del ’29, secondo il quale per l’esecuzione delle sentenze emanate dai tribunali della città del Vaticano si applicano le norme di diritto internazionale. La previsione riguarda, infatti, le sentenze dei Tribunali dello Stato del Vaticano e non delle autorità ecclesiastiche della Santa Sede, come nel caso esaminato. Neppure il tema del riconoscimento, affrontato sempre dall’articolo 23 secondo comma, può essere considerato equivalente al divieto di ne bis in idem. È utile piuttosto ad affermare che la sentenza, agli effetti civili, per quanto riguarda lo status non di chierico ma di cittadino, possa avere piena efficacia anche in Italia. Un riconoscimento non incompatibile con il nuovo giudizio e che non incide sull’autonomia delle due giurisdizioni.
Le Linee guida della Conferenza episcopale e il Motu proprio
A conferma della legittima concorrenza tra la due giurisdizioni ci sono le Linee guida della Conferenza episcopale italiana, aggiornate a giugno 2019, con le quali si ribadisce l’autonomia delle due vie e l’importanza della cooperazione tra vescovo e autorità civili.
La Cassazione cita anche il Motu proprio “Ai nostri Tempi” di Papa Francesco del 2013 che, in materia penale, ha affiancato alla giurisdizione canonica la concorrente giurisdizione del Tribunale del Vaticano per i delitti più gravi, come quello esaminato, se commessi da pubblici ufficiali della Santa Sede. Condotte punibili sia come reati sia come “delicta graviora”, senza rischio di incorrere in una duplicazione dei giudizi. Una cosa sono, infatti, le sanzioni previste dalle leggi penali vaticane, derivanti nel caso specifico da trattati internazionali, e altro le sanzioni «attribuite iure nativo alla competenza della Congregazione per la dottrina della fede nei confronti dei chierici». Per le prime c’è «la giurisdizione dello Stato; per le seconde opera la giurisdizione sullo status».
Nell’elenco delle fonti dalle quali trarre la conclusione raggiunta, ci sono anche il Protocollo addizionale al Concordato dell’84, nel quale si prevede che l’autorità giudiziaria italiana avvisi l’Ordinario della diocesi dell’imputato, dell’inizio di un procedimento penale nei confronti di un ecclesiastico o di un religioso di culto cattolico.
Mentre nello stesso Concordato del ’29 si prevedeva che, nel caso di condanna di un ecclesiastico o di un religioso, la pena fosse scontata in locali separati rispetto ad un laico.
https://www.ilsole24ore.com/art/reati-sessuali-minori-il-sacerdote-doppio-processo-canonico-e-statale-AEUK5bj?refresh_ce=1
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