Le accuse dell’arcivescovo Viganò non stanno in piedi. Ma evidenziano una guerra in cui Bergoglio si trova in condizioni di debolezza. Anche per errori suoi
EMILIANO FITTIPALDI
Il clamoroso dossier pubblicato due settimane fa dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha mostrato ancora una volta qual è il punto debole del pontificato di Bergoglio. Perché, al di là delle reali motivazioni per le quali l’ex nunzio a Washington ha chiesto le dimissioni di Francesco accusandolo di aver coperto gli abusi sessuali dell’ex cardinale americano Theodore McCarrick, e dell’uso strumentale che ne stanno facendo le fazioni ultra tradizionaliste nemiche del papa, la vicenda ha evidenziato come il pontefice stia perdendo a cinque anni dall’elezione al soglio petrino una delle battaglie più delicate del suo magistero. Quella contro la pedofilia degli ecclesiastici, tumore cresciuto nei decenni grazie alla compiacenza e all’omertà della Chiesa.
L’accusa principale di Viganò appare assai debole. Non solo perché non suffragata da alcuna prova (l’arcivescovo ha infatti raccontato che in un incontro privato nel 2013 avrebbe avvertito Francesco che McCarrick aveva approfittato sessualmente di decine di giovani seminaristi maggiorenni aggiungendo che il papa, nonostante le rivelazioni, non avrebbe mosso un dito contro l’anziano presule in pensione), ma anche perché il rapporto è pieno di omissioni: in primis proprio l’ex nunzio, dopo la sua denuncia al papa, ha in più occasioni incontrato McCarrick in assoluta cordialità, tanto da presentare il molestatore a una conferenza pubblica come «un uomo molto amato da tutti noi». Elementi che compromettono l’assunto con cui l’arcivescovo giustifica il suo sfogo: «Io agisco solo perché la verità emerga».
Ma seppure i fatti raccontati fossero veri, seppure Bergoglio avesse avuto nel 2013 la consapevolezza della doppia vita di un anziano vescovo in pensione allora mai sfiorato da accuse di pedofilia, arrivate solo nel 2018, le accuse di Viganò sembrano assai poco significative in un contesto di responsabilità ed evidenze ben più gravi. Riguardanti il papa e altri alti prelati vicini al vescovo di Roma «venuto dalla fine del mondo».
L’operazione di Viganò mira a coinvolgere il pontefice in prima persona nel nuovo grande scandalo dei preti pedofili della Pennsylvania, dove la procura generale lo scorso agosto ha diffuso i risultati di un’indagine su presunti crimini di ecclesiastici avvenuti nell’arco degli ultimi 70 anni. Un report che evidenzia come oltre 300 tonache avrebbero abusato e violentato in modi orrendi oltre mille bambini e bambine. «Abbiamo le prove che il Vaticano sapeva e ha coperto gli abusi. La copertura era sistematica», ha detto Josh Shapiro, procuratore generale dello Stato del Nord Est. «Quello che abbiamo trovato davvero spaventoso è che i leader della Chiesa avrebbero mentito ai fedeli la domenica, mentito in pubblico, protetto questi predatori ma contemporaneamente documentavano ogni cosa, mettendola negli archivi segreti. Le responsabilità del papa? Non posso parlare specificatamente di Francesco», ha concluso il magistrato.
La stragrande maggioranza dei casi di stupri, in effetti, è precedente al 2000. Ma il nuovo terremoto americano e le reazioni internazionali alla lettera di Viganò dimostrano che sul tema della lotta alla pedofilia Francesco sta cominciando a perdere credibilità. Anche perché, se il papa ha usato parole di fuoco per stigmatizzare gli orchi con il collarino, di passi in avanti questo magistero ne ha compiuti – al netto della propaganda bergogliana – davvero pochi. Chi dice che la pedofilia è un fenomeno del passato non conosce i numeri della Congregazione della dottrina della fede, che segnalano come negli ultimi cinque anni siano arrivate in Vaticano circa 2.000 denunce “verosimili” da ogni parte del mondo, una media doppia rispetto al periodo 2005-2009.
Travolto dagli scandali di Boston e della Chiesa irlandese, Benedetto XVI allungò i termini di prescrizione del reati di 10 anni, inserì nei codici vaticani il reato di pedopornografia, ma non intaccò il dispositivo (nefasto) del «segreto pontificio», ancora oggi applicato a ogni processo canonico e su ogni notizia di atti contro il sesto comandamento. Francesco non ha modificato le regole, che vanno tutte contro la trasparenza tanto pubblicizzata dalla “rivoluzione”: chi parla rivelando i nomi dei pedofili compie “peccato mortale”, e va incontro a sanzioni severe decise da una commissione disciplinare ad hoc. Con sanzioni che comprendono il licenziamento e persino la scomunica “latea sententiae”.
Bergoglio non ha nemmeno emesso norme né motu proprio pontifici che obblighino senza se e senza ma i vescovi e i presuli a denunciare preti pedofili direttamente alla magistratura ordinaria: «La responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti» non basta più all’opinione pubblica e ai fedeli traditi. Soprattutto quando “la negligenza” coinvolge i vertici vaticani. Gli esempi recenti sono molti, e quello che riguarda Luis Francisco Ladaria, promosso un anno fa prefetto della Congregazione della fede da Francesco, è emblematico: nel 2012 Ladaria ha infatti coperto, senza denunciarlo, un prete pedofilo che la Congregazione aveva ridotto in stato laicale per abusi sessuali su alcuni bambini, don Gianni Trotta. Ladaria e il cardinale ex prefetto William Levada ordinano però alla chiesa pugliese che la condanna canonica passi sotto silenzio, «per non dare scandalo ai fedeli». Trotta, le cui gesta erano sconosciute a tutti tranne che alle gerarchie vaticane, ha potuto così violentare altri minorenni del tutto indisturbato: dopo essere stato spretato, ha infatti trovato lavoro come allenatore in una squadra di calcio giovanile, e in due anni ha molestato una decina di bambini in un paesino vicino a Foggia. Ladaria è ancora potente prefetto della Congregazione che deve giudicare i preti pedofili.
I fallimenti non si contano: il tribunale contro i vescovi maniaci, annunciato urbi et orbi nel 2015, non vedrà mai la luce. La Commissione per la Tutela dei minori voluta dal papa nel 2014 non ha alcun potere reale, né in Vaticano né sulle Conferenze episcopali dei vari paesi, tanto che due membri laici, ex vittime dei pedofili, sono andati via sbattendo la porta, spiegando che l’organismo era solo «un’operazione propagandistica di Francesco».
Sono decine gli altri casi eclatanti che spiegano bene perché il papa stia perdendo credibilità sulla questione che contribuì a chiudere l’esperienza di Benedetto XVI, e perché rischi seriamente che i suoi tanti nemici – in una guerra civile ormai permanente – possano presto approfittare dei suoi passi falsi. George Pell, il cardinale chiamato a Roma dal pontefice per mettere a posto le finanze vaticane e “moralizzare” la corrotta curia romana, un anno fa è stato infatti incriminato dai magistrati australiani per alcuni casi di pedofilia considerati più che verosimili da inquirenti e polizia. Francesco, anche se lo ha sospeso dall’incarico, lo ha sempre sostenuto, decidendo di non sostituirlo prima della fine del processo.
Le imputazioni dei magistrati e dei ragazzi sono ovviamente tutte da dimostrare. Ma evidenze del comportamento oscuro del cardinale di fronte alla tema della pedofilia erano note da anni. In passato, quando era vescovo di Melbourne, il “ranger” era già stato denunciato da un chierichetto di 12 anni per gravi molestie (il processo si era chiuso nel 2002 senza alcuna condanna per mancanza di prove) e Ratzinger – anche per questo – aveva sempre frenato le sue ambizioni di trasferirsi presso la Santa Sede. Non solo. Il porporato nel corso degli anni era finito nel mirino di decine di vittime e di sopravvissuti agli orchi. Ragazzi e ragazze che nel corso delle audizioni della Royal Commission, una commissione nazionale voluta dal governo di Canberra per investigare sugli abusi sessuali nella Chiesa australiana, hanno additato “Big George” come un insabbiatore, come un prelato che ha sistematicamente difeso i pedofili australiani (secondo il rapporto finale della Commissione il 7 per cento dei preti cattolici dell’isola sono implicati in vicende di pedofilia), come un vescovo che ha inventato un sistema di risarcimenti usato in realtà «per distruggere e controllare le vittime e difendere l’immagine e la cassaforte della Chiesa». Qualcuno, come un padre a cui un preside cattolico ha violentato due bimbe di 4 e 5 anni, ha definito Pell «un sociopatico».
Quattro anni fa L’Espresso aveva documentato come il braccio destro appena scelto da Francesco aveva chiesto a famiglie distrutte dai pedofili in tonaca di accettare, per chiudere definitivamente il casi di abusi in alcuni processi civili contro la sua diocesi, la miseria di 30 mila euro. «In caso contrario» scrivevano gli avvocati di Pell, «noi ci difenderemo strenuamente in tribunale». Non solo: è un fatto che il cardinale abbia accompagnato sottobraccio mostri seriali come l’amico ed ex compagno di stanza Gerald Ridsdale (alla fine condannato in via definitiva per aver violentato decine di bambini), e che lo stesso “ranger” ha coperto accuse a suo dire false contro i Fratelli Cristiani e invece poi rivelatesi verissime. Altre vittime hanno raccontato – in testimonianze giurate – come Pell abbia cercato di comprare il loro silenzio.
I giudici della Royal Commission hanno definito in una relazione del 2015 il suo comportamento «poco cristiano». Al netto degli esiti del processo per presunti abusi sessuali, tutte le altre informazioni sul lato oscuro di Pell erano pubbliche già prima che Francesco – tra il 2013 e il 2014 – nominasse “Big George” capo della Segreteria dell’Economia, poi membro del C9, il gruppo dei cardinali che deve consigliare il pontefice nella gestione della Chiesa universale.
Com’è possibile che Bergoglio abbia protetto Pell? Questo resta un mistero glorioso. Così come incredibili appaiono – assai più che le accuse di Viganò – altre inaudite ascensioni di insabbiatori nelle alte sfere della gerarchia, tutte scelte che da anni stanno minando il credito del magistero bergogliano.
Nel C9 Francesco ha infatti chiamato anche il cardinale cileno Francesco Errazuriz, che per anni ha tenuto nascoste in un cassetto le denunce dei ragazzi contro il pedofilo seriale Fernando Karadima. Mentre un allievo dell’orco, Juan Barros, nel 2015 nonostante le accuse circostanziate delle vittime e le vibranti proteste di parte del clero locale fu promosso ugualmente da Bergoglio vescovo di Osorno: solo quest’anno – dopo l’ira del presidente della Commissione per la tutela dei minori cardinale Seán O’Malley per l’ennesima difesa di Barros da parte di Francesco davanti alle vittime allibite – il papa ha cambiato linea, chiedendo scusa per parole inopportune, mandando in fretta e furia un nuovo visitatore apostolico in Cile per appurare una verità già evidente a tutti da lustri, e accettando infine le dimissioni di Barros. Un pesce piccolo, comunque, nella scala gerarchica del clero cileno: Errazuriz e l’arcivescovo di Santiago Ricardo Ezzati, che hanno sempre difeso Karadima e Barros e recentemente insultato uno dei sopravvissuti («un serpente», dissero in uno scambio email) non solo hanno mantenuto i loro incarichi, ma sono stati premiati. Errazuriz promosso nel C9, Ezzati con la berretta cardinalizia.
Anche la recente vicenda che ha travolto il coordinatore del C9 Oscar Maradiaga, primo consigliere di Bergoglio, e il suo braccio destro Juan Josè Pineda è indicativa di come Francesco, se a parole propugna la “tolleranza zero”, poi copre troppo spesso le malefatte dei suoi fedelissimi. Il cardinale honduregno è stato posto alla destra del trono di Pietro nonostante tra il 2003 e il 2004 abbia ospitato in una delle diocesi del suo arcivescovado a Tegucigalpa un prete incriminato dalla polizia del Costarica per abusi sessuali, don Enrique Vasquez (rimase sei mesi in Honduras, poi – quando l’Interpol lo individuò – scappò via dal paese). E lo ha voluto al suo fianco nonostante Maradiaga – estimatore dell’insabbiatore seriale Bernard Law, da cui scaturì lo scandalo Spotlight – abbia detto nel 2002 durante una conferenza pubblica a Roma che anche lui sarebbe stato «pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare uno dei miei preti» accusati di abusi minorili.
Qualche mese fa L’Espresso ha svelato i contenuti dell’inchiesta di un visitatore apostolico argentino mandato dal Vaticano proprio nella diocesi honduregna: alcuni testimoni a maggio 2017 hanno infatti accusato Maradiaga di aver percepito dall’università cattolica locale 35 mila euro al mese per anni, e indicato il vescovo ausiliare Pineda responsabile di «gravi comportamenti inappropriati» (traducendo: abusi e relazioni sessuali) nei confronti di alcuni sacerdoti maggiorenni.
Il coordinatore del C9 ha negato con forza ogni addebito, spiegando di aver girato i denari ricevuti alla diocesi affinché fossero investite in opere di beneficenza, e ha aggiunto che Pineda era innocente, calunniato da forze oscure e giornalisti «che scrivono libri infami. È stato Pineda stesso, per dimostrare la sua innocenza al mondo, a chiedere al Vaticano l’invio di un visitatore apostolico», disse furibondo il consigliere del papa.
Dopo pochi mesi, però, documenti interni della diocesi hanno evidenziato che dei soldi di Maradiaga non c’è alcuna traccia nei bilanci di Tegucigalpa, mentre Bergoglio, lo scorso luglio ha accettato le dimissioni da ausiliare di Pineda. «Il fatto è che il papa ha tenuto per mesi i risultati dell’inchiesta del vescovo Casaretto sulla sua scrivania. Solo quando le accuse sono finite sulla stampa s’è finalmente mosso», spiegano oggi prelati honduregni. «Pineda comunque ha mantenuto il titolo di vescovo e Maradiaga è rimasto saldo al suo posto. Come dite voi in Italia? Parlare bene e razzolare male. Ecco, da Francesco proprio non ce lo aspettavamo».
http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2018/09/10/news/pedofilia-le-colpe-di-francesco-1.326767
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