Qualcuno ricorda la Pontificia commissione per la tutela dei minori? Probabilmente non molti, visto che in effetti non si tratta certo di un organismo dall’attività frenetica. Non uno di quelli, per intenderci, di cui ci si ritrova a leggere spesso sugli organi d’informazione. A suo tempo, nel 2014, venne istituita e lanciata in pompa magna dall’attuale papa con l’obbiettivo di risolvere il problema della pedofilia ecclesiastica, concependo proposte di azione da sottoporre agli altri organi ecclesiastici e allo stesso pontefice. Quindi un organismo con funzione consultiva. Fu subito un tripudio di consensi: “Giro di vite contro la pedofilia”! “Tolleranza zero”! “Protezione dei minori fra le priorità più alte”!
Dopo allora, la prima volta che questa commissione fece parlare di sé fu a seguito della defezione di Peter Saunders, attivista contro gli abusi ed egli stesso già vittima di abusi da parte di un sacerdote. Saunders si era espresso molto duramente contro il cardinale Pell, in quel momento al vertice del dicastero economico vaticano (mica pizza e fichi) e sotto indagine nel suo paese d’origine, l’Australia, con l’accusa di aver coperto dei casi di pedofilia nel periodo in cui era stato vescovo. Ciò di cui Saunders accusava Pell era l’aver risposto alle richieste della giustizia australiana inviando certificati medici, in modo da giustificare formalmente la sua assenza. Saunders lasciò la commissione dopo che all’interno della stessa si dibatté della questione, non è quindi chiaro se sia andato via di sua sponte o se sia stato cacciato. In seguito le accuse contro Pell si sarebbero fatte perfino più gravi: adesso il cardinale, che nel frattempo è stato convinto ad andare a difendersi in Australia, è indagato per abusi sessuali che lui stesso avrebbe commesso. A breve dovrà affrontare un’inchiesta preliminare da cui potrebbe uscire fuori il suo rinvio a giudizio.
Dimissioni esplicite sono state invece, a distanza di un anno, quelle di Marie Collins, altra sopravvissuta a un pedofilo in abito talare voluta all’interno di questa fantastica commissione. Che tanto fantastica però non si è dimostrata, semmai proprio l’opposto visto che alla base delle dimissioni di Collins c’è proprio la sua (della commissione) sostanziale inutilità. In particolare Collins prendeva atto che gli altri organi della Chiesa, invece di collaborare con la commissione per aiutarla a raggiungere i suoi scopi, le mettevano i bastoni tra le ruote. Prima fra tutte la Congregazione per la dottrina della fede, precedentemente nota come Sant’Uffizio (ancora prima come Santa inquisizione). Le parole di Collins non lasciano dubbi su come viene presentata la commissione all’esterno: «avevo detto che se avessi trovato un conflitto tra quello che stava accadendo dietro le quinte e ciò che veniva detto pubblicamente, non sarei rimasta. Ecco, questo è accaduto».
Adesso, dopo un anno dalle dimissioni di Collins (ci si potrebbe regolare l’orologio con questa cadenza), arriva la notizia delle dimissioni di Catherine Bonnet, psichiatra infantile specializzata in violenze sessuali. Le ragioni di Bonnet non sono molto diverse da quelle di Collins. In più Bonnet rileva che l’organismo di cui faceva parte non è neanche in grado di deliberare una cosa semplicissima: chi viene a conoscenza di abusi deve segnalarlo alle autorità civili. Sembrerebbe una cosa perfino banale in qualunque altro contesto, tutti concordano nel ritenere almeno eticamente corretto riportare alle autorità notizie di abusi, quando non legalmente obbligatorio per esplicita richiesta delle autorità. Il problema, almeno in Italia, è che la Chiesa è qualcosa di diverso da “tutti”. È un ordine indipendente e sovrano per dettato costituzionale e in forza del Concordato abbiamo da un lato una deroga specifica per gli ecclesiastici, che “non possono essere richiesti da magistrati o da altra autorità e dare informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del sacro ministero”, dall’altro il principio che la giustizia civile deve invece, lei sì, “informare immediatamente l’ordinario della diocesi, nel cui territorio egli esercita giurisdizione”.
Purtroppo le dichiarazioni di Bonnet, così come quelle di tutti gli altri pezzi della commissione che si sono persi per strada, non sono affatto necessarie per capire che non c’è realmente alcuna volontà della Chiesa di affrontare il dramma della pedofilia ecclesiastica, alla quale andrebbe aggiunto l’aggettivo “aggravata” visto che può contare su forme di insabbiamento che non sono possibili in altri contesti. Basta aprire i giornali e leggere. A volte tra le righe, come quando si parla appunto di questa inutile commissione, altre volte senza neanche spendersi troppo in interpretazioni. Come nel recente caso di don Massaferro, pedofilo condannato in via definitiva a sette anni e otto mesi dalla giustizia italiana, ma assolto e dunque da riabilitare completamente per la giustizia (?) ecclesiastica. O come in quello meno recente del vescovo di Palestrina, secondo il quale i casi di pedofilia non potrebbero essere denunciati per via della normativa sulla privacy. E meno male che fu lo stesso garante a smentirlo pubblicamente.
Alla fine, quella che nelle intenzioni, millantate o meno che siano, doveva essere una commissione a tutela dei minori, si è rivelata essere una farsa a tutela di chi quei minori li abusa. A tutela degli insabbiamenti, a tutela dell’immagine della Chiesa in generale e di Bergoglio in particolare. A tutela del marciume che c’è sempre stato, e che ci sarà verosimilmente per parecchio tempo ancora. E a dispetto di chi chiede giustizia. Ora e nei secoli dei secoli mai abbastanza secolarizzati.
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