Federica Tourn – La questione degli abusi nella Chiesa è l’elefante nella stanza che da tempo interminabile le autorità ecclesiastiche hanno continuato a evitare, abbassando gli occhi per non vederlo e scartando di lato per non sfiorarlo. Oggi questo elefante si è fatto sempre più grande e la stanza sempre più piccola, tanto che la Chiesa non può più evitare di prenderlo in considerazione ma, quando lo fa, in genere è per ridimensionarne le proporzioni, incapace di confessare che ormai ostruisce ogni possibilità di vedere con chiarezza l’orizzonte.
Se usiamo questa metafora per molti versi logora, è per indicare la gravità e la pesantezza delle violenze spirituali, psicologiche, sessuali, di potere che pervadono la Chiesa e che hanno reso asfittica e irrespirabile l’aria per i credenti che chiedono un rinnovamento; violenze che ledono i diritti umani e che per questo hanno visto anche molti cittadini chiedere trasparenza e giustizia per le vittime.
Proprio da queste due anime è nato il coordinamento ItalyChurchToo: dal desiderio di denunciare una realtà ingombrante e sotto gli occhi di tutti, quella degli abusi nelle parrocchie, nei conventi e nei monasteri, nei grest estivi e negli oratori, nelle comunità ecclesiali e nei seminari, in Vaticano e nelle missioni – insomma in ogni più recondito recesso del mondo cattolico. In modo non molto diverso da quel che è successo nel 2019 in Germania con il movimento Maria 2.0, che ha visto donne credenti ribellarsi in seguito allo scandalo degli abusi nel paese, lo scorso febbraio alcune associazioni femminili (Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, Donne per la Chiesa, Voices of Faith) si sono rivolte ai pochissimi organi di stampa sensibili (fra cui la stessa Adista) e, soprattutto, alle associazioni delle vittime per rompere l’assordante silenzio sul tema in Italia.
Come spesso è accaduto negli ultimi anni, dal Tribunale delle donne di Sarajevo alle tante manifestazioni in difesa della democrazia in Bielorussia, Polonia, Argentina e Stati Uniti (soltanto per fare alcuni esempi), è ancora una volta dai movimenti delle donne che viene la denuncia delle discriminazioni e la spinta alla giustizia sociale. Così come è dei femminismi il richiamo a mettere al centro gli esclusi, che siano donne, persone lgbtq o razzializzate, vittime di guerra o di violenza. La sfida di questa rete nata dal basso si è subito concretizzata in un lavoro capillare di studio e monitoraggio delle possibilità di intervento, nel solco di chi altrove – per esempio in Francia con la Commissione Ciase – sta già affrontando il problema.
Così in poco tempo il coordinamento è diventato un cane da guardia della Chiesa in Italia, piccolo ma determinato a non mollare la presa. Alla vigilia della 76esima assemblea generale della Cei, ItalyChurchToo ha inviato ai vescovi una lettera con una serie di richieste ben precise: prima fra tutte, l’istituzione di un’inchiesta indipendente sui casi di violenza su minori e adulti nella Chiesa, l’apertura di tutti gli archivi, l’applicazione del certificato antipedofilia anche per il clero e il volontariato cattolico e il risarcimento per le vittime.
Sì, perché anche in questo caso, al centro di questo enorme rimosso ci sono loro, le vittime di abusi. O meglio, i sopravvissuti e le sopravvissute, parola che rende meglio lo sforzo enorme che impiegano ogni giorno per non rimanere schiacciati da questo elefante, sopraffatti dalla sofferenza per essere stati manipolati, plagiati, toccati, stuprati quando erano piccoli, indifesi, o in una condizione di dipendenza. Sono religiose costrette al silenzio, ex bambini abusati, non di rado provenienti da situazioni di vulnerabilità fisica o sociale, alcuni persino disabili (ricordate il caso dell’Istituto Provolo? E non è certo l’unico).
Persone la cui vita è marchiata dalla violenza subìta, che lascia segni permanenti, come ha ricordato Francesco Zanardi al neo presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, durante la conferenza stampa finale dell’sasemblea dei vescovi. Zanardi ha detto una cosa semplice e terribile: le vittime stanno male. Sviluppano malattie psicosomatiche, prendono psicofarmaci per tirare avanti, alcune non riescono a uscire di casa e instaurare relazioni sane o fanno uso di sostanze stupefacenti, a volte – anche giovanissime, come nel caso di Eva Sacconago – si suicidano.
Perché è importante entrare nel dettaglio del dolore? Perché, per esempio, esporre dei manifesti di figure umane con la biancheria macchiata di sangue, come Zanardi e ItalyChurchToo hanno fatto durante il flash mob davanti alla Nunziatura a Roma, il 27 maggio scorso? Perché lo stupro è questo: dolore, vergogna, spavento, mani e gambe che tremano, disgusto, sangue. Non c’è niente di pulito nello stupro, così come le vittime – i sopravvissuti – non sono una categoria astratta di cui «occuparsi», come ha detto lo stesso cardinale Zuppi mentre illustrava la “via italiana” alla lotta contro gli abusi sui minori e le persone vulnerabili. Non sono una categoria senza nome, sono persone con una vita e un vissuto personale che dà loro il diritto di essere interpellati per primi. La Chiesa però se ne guarda bene, anche quando dice che il suo primo pensiero va alle vittime.
L’atteggiamento “caritatevole” delle gerarchie nei confronti dei sopravvissuti alla violenza clericale mi ricorda quello dello Stato nei confronti dei migranti: dispone delle loro vite, spesso per anni, senza coinvolgerli in alcun modo nel processo di accoglienza (quando esiste). Lo stesso fa la Chiesa, con un paternalismo disarmante, che unisce parole vuote di comprensione alla gestione “in proprio” di questioni che riguardano innanzitutto la vita e il dolore altrui.
La premurosa attenzione della Chiesa in Italia, infatti, è finora andata innanzitutto ai responsabili degli abusi; a questi preti che, come ha sottolineato il cardinale Zuppi, «restano comunque figli nostri, che madre Chiesa non può abbandonare». Quale madre, però, per amore del figlio che sbaglia, invece di metterlo di fronte alle sue responsabilità, mente per lui? Una madre corregge il figlio proprio perché lo ama, perché il suo compito non è certo quello di occultarne le colpe a detrimento di persone innocenti.
Proprio perché si definisce madre, come ha potuto la Chiesa, davanti alle denunce di pedofilia, spostare semplicemente il sacerdote in un’altra diocesi ed esporre altri bambini a una possibile reiterazione del delitto? Cosa che, inutile dirlo, si è troppo spesso puntualmente verificata, come testimoniano gli atti dei processi. Reagirà ora la Chiesa alle tantissime domande di giustizia che arrivano dal basso? La casella di posta elettronica di ItalyChurchToo continua a riceverne ogni giorno, con messaggi spesso strazianti di credenti che si uniscono all’appello perché sia fatta finalmente chiarezza. «Dobbiamo farci ferire dall’ascolto», ha ripetuto giustamente monsignor Zuppi in chiusura dell’assemblea della Cei.
La Chiesa deve appunto fare questo: coinvolgere chi è stato ferito nel piano per contrastrare la violenza clericale e denunciare i responsabili, tutti, non soltanto quelli degli ultimi vent’anni. Se non farà questo, se non avrà il coraggio di mettersi a nudo e consegnare senza ulteriori indugi ogni archivio e ogni prova nelle mani di una commissione realmente indipendente, se non avrà la chiarezza evangelica di cedere il passo e la parola alle vittime di tanto dolore e ingiustizia, l’elefante che fino ad oggi ha cercato di addomesticare stavolta la travolgerà.
https://www.adista.it/articolo/68167
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