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Home Il punto della Rete L'ABUSO TV e programmi radio

Dove si curano i preti pedofili

21 Gennaio 2020
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    Redazione Media Web Redazione Media Web
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    “Noi siamo un’officina, non siamo uno sfasciacarrozze. Chi vuole rottamare la macchina non ha bisogno di venire da noi”. Così Marco Ermes Luparia, 69 anni, diacono e psicoterapeuta, descrive la sua équipe di 5 persone che da più di 20 anni accoglie e segue a Roma in un percorso di sostegno religiosi colpiti da vari problemi psicologici e comportamentali. Tra questi, quello della pedofilia.

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    Dal 2000 ad oggi, circa 150 preti sono stati condannati per abusi su minori in Italia.

    In Italia 24 centri ospitano i preti in attesa di giudizio

    Come strumento per arginare gli abusi dei pedofili lo Stato italiano prevede sostanzialmente solo le misure detentive. Ma alcuni centri religiosi in Italia ospitano i preti accusati di pedofilia e in attesa di giudizio, e sperimentano con loro percorsi di psicoterapia con due obiettivi dichiarati: fare uscire il pedofilo da quello che Luparia definisce “prima di tutto un dramma personale, che a cascata ha portato a un dramma a 360 gradi, colpendo la persona abusata” e poi tutelare la società “per garantire un minimo di certezza della non reiterazione del reato”.

    Non esiste una lista ufficiale di questi centri: il più anziano è quello dei padri Venturini a Trento, poi c’è quello del Divino Amore, a Roma, con 25 anni di attività. Francesco Zanardi, fondatore della rete L’abuso, che si occupa di offrire sostegno alle vittime di abusi sessuali da parte della Chiesa in Italia, ha svolto una ricerca su queste realtà: “Abbiamo contato 24 centri ricavando i nomi dagli atti giudiziari. Quando la magistratura manda ai domiciliari i preti che hanno commesso abusi nel 99% dei casi vanno in questi posti”.

    Ma dalla pedofilia si può guarire?

    Maurizio Marasco è psichiatra, già professore di Psicopatologia forense e Criminologia. Ha svolto lavoro di consulenza come perito chiamato dal giudice in casi di reati di abusi sessuali commessi da preti nei confronti di minori, per stabilirne eventuali patologie e indagare la compatibilità con la loro detenzione in carcere per motivi di salute. “Da un punto di vista accademico, la pedofilia non è classificata come una patologia. Non è quindi una malattia, ma una anomalia, un’alterazione, stabile nel tempo, del comportamento sessuale. Per questo non è prevista una terapia farmacologica e gli unici strumenti che ha lo Stato per intervenire sono le misure detentive, e l’avvio di un lungo processo finalizzato non alla guarigione ma alla prevenzione” chiarisce lo psichiatra.

    “Alcune volte i preti si rendono conto di avere commesso un fatto molto grave, accettano anche la pena, ma questo non è garanzia che non si troveranno di nuovo a compiere abusi. Ho conosciuto persone che sono state giudicate, condannate, ristrette in carcere, avviate a un programma di recupero ma a distanza di anni hanno commesso di nuovo quel reato” sostiene Marasco. “Il mondo scientifico non ha ben chiaro cosa si faccia in questi centri ecclesiastici. Una volta usciti da lì, che garanzia abbiamo che non ricommettano il reato? Questo è il problema” spiega lo psichiatra.

    Il mondo scientifico non ha ben chiaro cosa si faccia in questi centri ecclesiastici. Una volta usciti da lì, che garanzia abbiamo che non ricommettano il reato?

    Maurizio Marasco
    Psichiatra

    Marco Ermes Luparia parla del suo lavoro come di un lavoro “di pronto soccorso, in trincea”: opera al Divino Amore, un centro che ospita religiosi che arrivano da varie parti d’Italia e dall’estero. “In venticinque anni abbiamo visto passare centinaia di religiosi. Problemi di burn out, di immaturità, crisi vocazionale: la lista è lunga e ci occupiamo anche di casi di pedofilia” spiega.

    Come funziona la terapia

    La squadra del Divino Amore è composta da 5 psicoterapeuti tutti uniti dalla “fedeltà al Vangelo, che per noi è un valore non negoziabile” spiega Luparia. Gli ospiti del centro non sono solo sacerdoti, ma possono essere anche chierici, religiosi, religiose e seminaristi.

    “Arrivano da noi sia in autonomia sia dopo un decreto del vescovo, se poi la legge fa il suo corso c’è la possibilità degli arresti domiciliari. Si inizia con un primo colloquio dove capisco quale psicoterapeuta tra noi sia più appropriato a seguire la terapia del nuovo ospite: da lì parte un percorso che non si sa quando finisce. La nostra è una terapia a tutti gli effetti, che dura anni e non certo dieci mesi” spiega Luparia.

    “Partiamo da cosa ha spinto la persona ad agire in quel modo. Cerchiamo di riavvolgere il nastro di una vita per individuare il punto da cui si origina lo sviluppo psicosessuale dell’adulto. L’unico modo per affrontarlo è un intervento a cuore aperto” continua il diacono. “Puntiamo con la collaborazione dei vescovi a offrire ai pazienti un contenuto spirituale e una vita, fondamentale dirlo, riservata, di preghiera e comunità. Come per l’alcolismo, parliamo di un disturbo che ha bisogno di un monitoraggio costante” chiarisce lo psicoterapeuta.

    Luparia si mostra cautamente ottimista: “La risposta alla nostra terapia, senza enfatizzazioni, è buona. Ma solo con i dovuti accorgimenti molto restrittivi della vita di queste persone”.

    Se il prete finisce in cella, finisce la terapia

    Un percorso che, a prescindere dalla sua efficacia, durante il suo sviluppo incontra un ostacolo. Quando il prete viene condannato e condotto in carcere, la terapia si inceppa. “In prigione non possiamo entrare” spiega Don Luparia. Ad oggi né lo Stato italiano né la Chiesa prevedono una prassi ufficiale per controllare e offrire un percorso psicologico a chi esce dal carcere dopo avere scontato una pena per abusi sessuali sui bambini. Certo le eccezioni virtuose non mancano, ma il problema è sempre uno: la mancanza di fondi.

    Paolo Giulini, criminologo clinico e presidente del Cpim, Centro italiano per la promozione della mediazione, dal 2015 è a capo di un progetto nel carcere di Bollate a Milano che segue, attraverso una squadra di psicologi e criminologi, i detenuti che hanno commesso reati sessuali su donne e minori. “Siamo un’unità di trattamento intensificato, non facciamo terapia” spiega Giulini. “Una condotta deviante va trattata in senso criminologico. Il nostro è un percorso in gruppi: affrontiamo tematiche come la gestione dello stress, le tappe che hanno portato a commettere il reato, lo sviluppo dell’empatia verso le vittime e l’educazione sessuale”.

    Dal 2015, spiega Giulini, più di 300 detenuti, su base volontaria, hanno partecipato al progetto: di questi 11, una volta usciti dal carcere, hanno commesso di nuovo lo stesso reato.

    Il solito problema: la mancanza di fondi

    “Abbiamo lavorato anche con detenuti sacerdoti: alcuni di questi avevano fatto terapia con il loro diacono prima di arrivare da noi, sappiamo che alcuni ordini religiosi offrono sostegno psicologico ma non lavoriamo in sinergia” racconta Giulini. Oltre al carcere di Bollate, il Cpim ha avviato lo stesso progetto anche in quello di Prato, di Cagliari e di Sanremo, ma lì gli appuntamenti, in mancanza di fondi, sono ridotti. “Noi siamo a galla per miracolo. Prima avevamo un fondo della regione Lombardia, poi quello di un progetto europeo, ora siamo sostenuti da una fondazione privata. Ogni anno rischiamo di chiudere” chiarisce il criminologo.

    Dopo il carcere, i preti diventano senzatetto

    “Nella maggior parte dei casi questi preti dopo il carcere diventano senzatetto – spiega Luparia – noi anche dopo cerchiamo di portare avanti la terapia. Certo deve volerlo il prete, e deve essere aiutato dal vescovo. C’è un numero consistente di sacerdoti che hanno fatto terapia con noi e che ora non sono più preti: per loro sogniamo un convento per permettergli di vivere una vita dignitosa e che sarebbe un valore aggiunto per tutta la società; non parleremmo più infatti di possibili schegge impazzite. Vale per i terroristi, vale per gli assassini la possibilità di vivere una vita dignitosa, perché non dovrebbe valere anche per i preti pedofili?” chiede Luparia.

    Per Padre Franco Imoda, già rettore della Pontificia Università Gregoriana, nella psicoterapia per i preti pedofili “dovremmo evitare gli opposti: da un lato un eccessivo ottimismo, certe misure di protezione devono essere per forza introdotte, e dall’altra il pessimismo che condanna il pedofilo a non migliorare mai. Certo se ho l’appendicite non basta dire il rosario – argomenta Imoda – occorre fare un intervento chirurgico”. Cinquanta anni fa Padre Imoda fu il primo a fondare un Istituto di Psicologia in una università pontificia, quella Gregoriana, quando Freud e la psicoanalisi erano banditi dal Santo Uffizio. “Fu una grande sfida: cercavamo di integrare l’aspetto psicologico con la visione della Chiesa cattolica. Prendendo a modello l’analisi critica di Ricoeur, rimproveravamo a Freud di ridurre la natura umana a un istinto sessuale, e accoglievamo l’invito del Concilio vaticano secondo: utilizzare le scienze profane, e non soltanto la teologia, per condurre i fedeli a una più matura vita di fede” spiega l’ex rettore.

    Ed è nel cuore della Pontificia Università Gregoriana che più tardi nasce un altro centro di studi, finalizzato a combattere il problema della pedofilia: è il Centro di Protezione dei minori (CCP), con lo scopo di prevenire, attraverso lo studio e lo scambio accademico, casi di abusi sessuali sui più piccoli. “Il centro prevede un corso che va dai due ai tre anni – spiega Imoda – per istruire dei formatori che vigilino su questa realtà. Molte ricerche sembrano dimostrare che chi è responsabile di questi comportamenti spesso è vittima dello stesso abuso: bisogna risalire al passato e riconoscere che le radici di queste difficoltà sono antiche. Quando ce ne rendiamo conto lavoriamo per intervenire e rendere i preti consapevoli del problema”.

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