Città del Vaticano – L’abolizione del segreto confessionale è una ipotesi che avanza implacabilmente, in diversi Paesi, nonostante la forte opposizione degli episcopati. Secondo una sempre più nutrita schiera di giuristi, questa misura aiuterebbe a combattere la piaga della pedofilia nella Chiesa. La prima nazione che ha aperto il dibattito a livello nazionale è stata l’Australia dopo la pubblicazione di uno sconvolgente report dal quale è emerso che il 7% dei preti sono stati accusati di molestie. Per questo la Royal Commission ha chiesto di riformare il sistema penale per tutelare meglio le vittime, specie quelle minorenni. I vescovi australiani si sono opposti all’ipotesi di abolire il sigillo sacramentale per denunciare eventuali casi di abusi appresi in confessionale. La battaglia contro la pedofilia rischia di modificare per sempre l’obbligo di conservazione del segreto assoluto delle verità apprese in confessionale. I vescovi australiani affermano che si tratterebbe di imporre una pratica totalmente «contraria» alla fede cattolica, come pure alla «libertà religiosa». Principio, questo, riconosciuto dalla legge del Paese. L’arcivescovo di Brisbane Mark Coleridge, aveva parlato di una «intrusione dello Stato nel dominio del sacro».
Il secondo Paese nel quale si è aperto lo scontro è il Belgio. Anche in questo caso i i vescovi belgi, in un comunicato, sono intervenuti sul caso di un prete condannato dal Tribunale di Bruges ad un mese di prigione con sospensione della pena per mancata assistenza a una persona in pericolo. La Corte penale lo aveva ritenuto colpevole per non aver chiesto soccorsi subito dopo aver raccolto al telefono la confidenza di un uomo che voleva suicidarsi. Per il Tribunale, la segretezza della confessione può essere paragonata al segreto professionale, in quanto «è dovere di tutti dare assistenza agli altri». La Conferenza episcopale belga ha reagito precisando quali sono le sostanziali differenze che intercorrono tra il segreto professionale e la segretezza della confessione, intesa come sacramento di riconciliazione, a cui sono tenuti soltanto sacerdoti e vescovi. Il segreto professionale è invece più ampio e comprende preti, diaconi, religiosi e laici qualora, nel loro ruolo pastorale, possano incorrere in conversazioni private in cui le persone parlano di questioni esistenziali.
«Secondo il Codice di Diritto canonico -hanno spiegato i vescovi del Belgio – il segreto della confessione è inviolabile. Il Codice di Diritto Canonico non prevede eccezioni all’inviolabilità della segretezza della confessione. Ciò significa che un prete non può in alcun modo rivelare informazioni su un penitente e sulla sua confessione». E ciò si applica anche in rapporto alle autorità civili e a quelle dei magistrati. Ciò non impedisce naturalmente che la segretezza della confessione possa diventare «un pretesto per prendere misure preventive. Un prete può sempre esortare un autore di abusi sessuali a comparire davanti ad un tribunale ma senza rompere il sigillo del sacramento e andare a denunciare direttamente il fatto alla polizia.
Nel 2012 la Cei ha presentato un documento intitolato «Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici» nelle quali i vescovi affermavano di essere esonerati dall’obbligo di deporre in un tribunale italiano o di esibire agli inquirenti italiani documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragioni del proprio ministero, e di non avere l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria le notizie ottenute in confessionale in merito ad abusi sessuali da parte del clero. La questione da un punto strettamente giuridico si basa sul quarto comma dell’articolo 4 del Concordato del 1984, sia degli articoli 200 e 256 del Codice di Procedura Penale italiano: ogni vescovo può rifiutarsi di testimoniare in un processo penale così come ogni sacerdote può farlo appellandosi al segreto derivante dal proprio ministero.
In Italia il deputato grillino Mantero, nel novembre dell’anno scorso, ha presentato in Parlamento una interrogazione per sapere quali sono gli elementi statistici di cui dispone il Governo «sui procedimenti, definiti e ancora pendenti, nelle procure della Repubblica per reati sessuali contro minori, che vedono indagati o imputati ministri di culto». Inoltre chiedeva quali iniziative intendesse assumere il Governo «nell’ambito dei rapporti bilaterali con la Santa Sede, per promuovere il rafforzamento dello scambio di informazioni ovvero per introdurre strumenti di cooperazione finalizzati alla prevenzione e repressione dei reati di molestie e abusi sessuali perpetrati da ministri di culto in Italia».
A febbraio, in Vaticano, si terrà il primo summit internazionale dedicato alla piaga della pedofilia. Papa Francesco ha radunato tutti i presidenti delle conferenze episcopali del mondo per fare il punto della situazione e trovare dei codici gestionali uniformi, applicabili a ogni Paese visto che la lotta agli abusi finora ha mostrato impegni diversi. Se in nazioni come gli Stati Uniti, il Belgio, la Germania o la Francia, per esempio, ormai vi è una forte propensione alla trasparenza verso la comunità cattolica, altrove vi è ancora una certa opacità. In Italia, per esempio, non sono ancora presenti statistiche, né numeri sui casi di abusi finora trattati o su quanti sacerdoti sono stati ridotti allo stato laicale nel corso degli ultimi decenni. Non ci conoscono nemmeno provvedimenti nei confronti di vescovi insabbiatori. Anzi. Vi sono persino casi inspiegabili, come a Napoli, per esempio, dove il cardinale Sepe è stato confermato dal Papa nel suo ruolo per un altro biennio, nonostante abbia spostato da una parrocchia napoletana ad una diocesi del Nord Italia l’ex parroco di Ponticelli, pedofilo conclamato.
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