Il caso cileno, la cultura del segreto: le spine del Papato
C’è qualcosa di allarmante, nel viavai febbrile e anomalo tra la Roma vaticana e il Cile per appurare la verità su abusi sessuali compiuti dai sacerdoti di quella nazione. Lascia indovinare il tormento e la determinazione di Francesco. Il Papa vuole andare fino in fondo e chiudere una vicenda che lo ha sovraesposto in modo imprevisto. Il caso ha mostrato reticenze, sottovalutazioni, bugie, cinismo di pezzi dell’episcopato latinoamericano; e una disinformazione sulla vera portata degli scandali, che non si è fermata nemmeno davanti all’esigenza di proteggere la figura di Jorge Mario Bergoglio.
È vero che il Cile, visto dall’Europa, è quasi più remoto dell’Argentina. Eppure, questa brutta storia latinoamericana rischia di assurgere a simbolo della difficoltà perfino del Papa argentino ad affrontare con efficacia il problema della pedofilia nella Chiesa cattolica. «Questi scandali non finiranno. E quello cileno si sta rivelando la spina più dolorosa del papato…», ammettono persone vicine a Francesco, descrivendone la sofferenza e lo stupore. La «sua» America latina si è dimostrata severa quanto il Nord del mondo nei confronti di sacerdoti che si sono macchiati di crimini così odiosi.
Ma soprattutto, forse per la prima volta Bergoglio ha dovuto fare i conti con le proprie convinzioni; e prendere atto che ecclesiastici ritenuti fidati lo avevano informato pericolosamente male. Lo scandalo ha riflessi vaticani perché ripropone il tema della selezione dei consiglieri papali; e a volte, la tendenza di Francesco a preferire le indicazioni di persone amiche, o presunte tali, rispetto a quelle degli organi istituzionali del Vaticano. Gli inquirenti papali, monsignor Charles Scicluna e don Jordi Bertomeu, in Cile per raccogliere notizie, riferire e decidere che fare, hanno un compito difficile anche per questa ragione.
È come se il Vaticano cercasse di rimediare a un errore di valutazione che a prima vista appare inspiegabile; ma che rischia di incrinare la strategia della «tolleranza zero» contro la pedofilia iniziata da Benedetto XVI e proseguita con vigore proprio da Francesco. Le dimissioni in massa offerte un mese fa al pontefice argentino dai trentaquattro vescovi cileni, sono state un gesto inedito e traumatico: sebbene non si capisca fino in fondo se siano state date per aiutare il pontefice a agire, o quasi come un gesto di sfida di fronte alla delegittimazione dell’episcopato.
Gli avversari di Bergoglio cercano di accreditare maliziosamente la seconda versione. L’unica certezza è che quanto è accaduto è il risultato di una catena di reticenze. Il cardinale Francisco Errázuriz, ritenuto uno dei grandi elettori di Francesco al Conclave del 2013, membro del Consiglio dei 9 chiamato a coordinare le strategie della Chiesa nel mondo, non ha voluto o saputo capire il dramma delle vittime; e quando è scoppiato lo scandalo, è arrivato a sostenere che non rientrava nei suoi compiti informare il Papa su problemi di quel tipo; e questo nonostante risulti che si fosse opposto alla nomina del vescovo di Osorno, Juan Barros, rimosso sotto la pressione dell’opinione pubblica cilena come uno dei principali indiziati di pedofilia.
In più, alcuni siti cattolici hanno sostenuto che dal 2015 molti erano a conoscenza di quanto succedeva in Cile. La stessa Congregazione per la dottrina della fede aveva segnalato ripetutamente con rapporti scritti che qualcosa non andava e dunque erano opportune indagini più approfondite. E negli ultimi giorni è emerso il profilo controverso di un gesuita spagnolo, Germàn Arana, guida spirituale di monsignor Barros. Arana sarebbe un sacerdote ascoltato da Francesco. E ora viene insinuato il dubbio che possa avere fuorviato il Papa su monsignor Barros: almeno fino al 21 gennaio scorso, quando durante il volo di ritorno dal Cile Francesco spiegò che aveva fatto studiare il caso in modo approfondito.
«Realmente non ci sono evidenze di colpevolezza e sembra davvero che non se ne troveranno», disse il pontefice. Aggiungendo con calore che si trattava di «calunnie». Le sue parole provocarono una reazione dura in modo irrituale dell’arcivescovo di Boston, Patrick O’Malley. E poche settimane dopo spinsero Francesco a riaprire l’intera questione. Il resto è cronaca recente. Il Papa ha ricevuto le vittime cilene in Vaticano, chiedendo loro scusa con parole forti e inequivocabili. E nel viaggio in Irlanda che farà in agosto incontrerà quelle degli abusi da parte dell’episcopato irlandese. Eppure, c’è qualcosa di circolare e ripetitivo, in queste dinamiche.
Lo schema sembra immutabile. Accuse delle vittime. Indagini farraginose, difficili, spesso circondate da un alone di imbarazzo e reticenza. Alla fine, scuse della Chiesa. A volte cause milionarie. Il risultato è la messa in mora di fatto delle gerarchie ecclesiastiche, e la sensazione che nemmeno il Papa riesca sempre a sfondare il muro dei silenzi. Succede dal Cile all’Irlanda, all’Australia, agli Usa, dove ieri al cardinale Theodore McCarrick è stata vietata qualunque attività, per una vecchia accusa di pedofilia. Ma colpisce l’assenza di una elaborazione culturale del fenomeno: un’analisi che permetta alla Chiesa cattolica una strategia preventiva in grado di impedire che si ritrovi comunque sul banco degli imputati.
Finora, è riuscita solo a reagire, subendo un’agenda dettata dagli altri. Non è stata in grado di confutare le tesi, in qualche caso strumentali, che proiettano sul Vaticano il sospetto di continuare a proteggere la «cultura del segreto» e i crimini perpetrati nell’ombra. Per questo si teme che quanto sta accadendo in Cile sia solo l’ultima tappa di uno «scandalo infinito». I monsignori che fanno la spola col Cile come virtuosi inquisitori, probabilmente sono i primi a esserne consapevoli.
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