Lei è una ragazza sicula e bella, ha lunghi capelli e un corpo sinuoso, lui è Gaetano Incardona, ex arciprete della basilica di Augusta in ottimi raporti con il vescovo e assai venerato dalle parrocchiane. I loro destini si incrociano, purtroppo, nel febbraio di quattro anni fa, quando la giovane decide di confessarsi e si reca in sacrestia, ma, anziché l’assoluzione, riceve le lusinghe e le perversioni dell’uomo celate sotto un abito talare. La donna si agita, lo respinge, ma don Gaetano la molesta per lunghissimi minuti lasciandole addosso una puzza di sudiciume che per giorni la fa vomitare. Quando finalmente riesce a divincolarsi, corre in caserma a denunciarlo, ma senza prove, le dicono, nessuno può muovere un dito.
Così, ricoperta di microspie, si reca nuovamente in sacrestia, dove don Gaetano cede nuovamente alle pulsioni sessuali. Qualche ora più tardi, le volanti giungono a sirene spiegate proprio innanzi l’abitazione di Incardona, che, in via cautelare, per qualche giorno diventa la sua prigione. Ma se la magistratura si riserva di sentenziare dopo il processo, i cittadini si schierano dalla parte del prete ed emettono nell’immediato la condanna per la giovane: è una poco di buono perché è stata lei a provocare il prete, il quale, dopo un primo imbarazzante silenzio, chiaramente nega ogni cosa.
La pena da scontare per la vittima è esecutiva e inoppugnabile, subisce le umiliazioni più disparate, che vanno dalle offese piovute mentre è a passeggio per strada fino all’ordine perentorio di uscire fuori dai negozi ove la sua presenza non è affatto gradita. E’ la Sicilia del 2013, che però somiglia ancora tanto al Meridione degli anni ’20. Poco male, la denuncia scandalosa dà coraggio ad altre persone, poco alla volta escono fuori altri sconcertanti storie, tra cui quella di un’altra donna che assomiglia particolarmente a quella già raccontata. I giudici del tribunale di Siracusa il 16 novembre 2015 in primo grado condannano l’imputato a 5 e 3 mesi di reclusione per abusi sessuali nei confronti delle due vittime al momento accertate. Sembra fatta, i traumi della vicenda non si possono cancellare, ma la giustizia pare aver trionfato e si può tornare a guardare al futuro con serenità.
Ma la gioia dura poco. Pochi giorni fa il tribunale ha depositato le motivazioni della sentenza e la stampa, giustamente, non si lascia sfuggire l’occasione di renderle note. Peccato, però, che il cronista, in barba ad ogni regola deontologica, riapre ferite mai rimarginate del tutto e fa di nuovo sprofondare le persone e le famiglie coinvolte nel girone infernale della vergogna. Le motivazioni vengono pubblicate integralmente, senza omissis, senza tutelare il diritto alla privacy e alla riservatezza. Forse per sfamare la curiosità bulimica dei lettori, forse per vendere qualche copia in più, forse perché l’erotismo rimane sempre una buona esca per i lettori o forse solo perché il giornalismo ha ormai dimenticato il suo ruolo originale, il giornale titola a caratteri cubitali: “Mi ha leccato anche il collo, un lobo dell’orecchio…”. Sotto i nomi delle vittime. Ma anche la data di nascita, la professione, gli stralci delle testimonianze, nude e crude, così come erano state riferite agli inquirenti, e i particolari inquietanti della vicenda. Ma a che serve una giustizia che fa il suo corso se chi subisce una qualsivoglia forma di violenza corre sempre il rischio di sprofondare negli inferi della gogna mediatica?
Francesca Lagatta
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