Sentenza choc della Cassazione sulla foto hard di una ragazzina abruzzese Dieci giovani avevano diffuso le immagini ricevute dalla stessa adolescente.
E così, se una minorenne si fa un selfie pornografico e lo invia ad amici e conoscenti, i quali, a loro volta, lo diffondono a destra e manca, questi ultimi non commettono nessun reato perché il nostro codice penale non lo contempla come tale. Lo ha sancito ieri la Terza sezione penale della Cassazione, che ha confermato il verdetto del Tribunale per i Minorenni dell’Abruzzo con cui era stato dichiarato il non doversi procedere, «perché il fatto non sussiste», nei confronti di dieci giovani che erano finiti sotto processo per aver «ceduto ad altri fotografie pornografiche» raffiguranti, appunto, una minorenne.
Trovandosi di fronte al caso di alcuni ragazzi che, ricevendo immagini porno di una ragazzina, avevano pensato di girarle ad altri, il Tribunale abruzzese, infatti, aveva sottolineato che la fattispecie di reato loro contestata, e cioè l’articolo 600-ter, comma 4 del codice penale, «sanziona sì la cessione di materiale pedopornografico», ma «a condizione che lo stesso sia stato realizzato da soggetto diverso dal minore raffigurato». Che è esattamente quanto non è accaduto nel caso esaminato, là dove, riporta la sentenza della Suprema Corte depositata ieri, «le immagini erano state riprese in autoscatto direttamente dalla minore, di propria iniziativa e senza l’intervento di alcuno, e dalla stessa volontariamente cedute ad altri (e, da questi, ad altri ancora), sì che la giovane non poteva ritenersi “utilizzata” da terzi soggetti». Eppure alle conclusioni del Tribunale per i minorenni si era opposto il procuratore capo dell’Aquila, convinto che le norme del nostro codice facciano riferimento in generale al materiale pornografico riproducente minori «senza richiedere che lo stesso sia stato realizzato da terzi soggetti utilizzando i minori medesimi», ma anche evidenziando che una tale interpretazione «impedirebbe un pericoloso e gravissimo vuoto di tutela per ipotesi come quella in esame». Osservazioni che, come detto, il Palazzaccio ha rigettato sottolineando che «la sentenza del Tribunale per i Minorenni deve essere condivisa in punto di diritto», pena il rischio di un’interpretazione della norma «vietata dall’ordinamento, oltre che in contrasto insanabile con la lettera e con la ratio della disposizione». Gli Ermellini hanno messo l’accento proprio sul fatto che l’articolo del codice penale oggetto del contendere fa riferimento «non a materiale pornografico raffigurante un minore tout court, indipendentemente da chi e come l’abbia prodotto», affermando che deve «essere identificato in quello, e soltanto in quello, che sia stato prodotto da terzi utilizzando un minore di 18 anni». Da terzi, dunque, e non dal minore stesso.
Su casi del genere, che hanno a che fare con filmati «rubati» riguardanti situazioni «calde», i giudici di piazza Cavour si sono espressi più volte, e spesso anche in senso più punitivo. Nel marzo del 2011, ad esempio, stabilirono che filmare di nascosto il petting di due fidanzatini, uno dei quali minorenni, e poi guardare le immagini insieme agli amici, non può essere considerata una «ragazzata», a prescindere che il filmato sia stato divulgato o meno su internet. In quel caso, infatti, la Cassazione confermò la condanna per «detenzione di immagini pornografiche» a carico di un ragazzo che, insieme a due amici, aveva ripreso un compagno di scuola in effusioni con la fidanzata minorenne. Fu inutile per l’imputato fare ricorso contro la sentenza d’appello tentando di evidenziare che il video era «casto» e non era stato nemmeno diffuso. La Suprema Corte, infatti, pur evidenziando che «lo scopo perseguito» non era quello di «realizzare materiale pornografico destinato al mercato dei pedofili», sottolineò che si era in presenza di una «invasione della privacy» e «diffamazione della parte lesa», confermate dalle «ripercussioni psicologiche» per la ragazzina, «costretta a cure e terapie per superare il trauma». Qualche anno prima gli Ermellini si pronunciarono sul caso di un marito che, insospettito, seguì la moglie fino a casa dell’amante per poi scattare delle foto ad entrambi mentre si trovavano nel cortile di casa. Di fronte alle proteste formali e legali dell’uomo sulla violazione della sua privacy, la Cassazione sancì che se pure il cortile è da considerarsi «privata dimora», non si può, però, parlare di «interferenza nella vita privata» quando si tratta di un luogo «visibile liberamente dagli estranei».
http://www.iltempo.it/cronache/2016/03/22/divulgare-selfie-porno-di-minori-non-e-reato-1.1521564
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