di Marco Politi
La questione della pedofilia rischia di diventare una spina nel pontificato di Francesco. Bergoglio nei primi anni del suo papato ha imboccato una linea dura nei confronti degli abusi sessuali. Pochi mesi dopo la sua elezione (nel luglio 2013) ha inserito nel codice penale dello Stato vaticano i delitti contro i minori, sottoponendo alla giurisdizione penale tutti i membri della Curia romana e dell’amministrazione della Santa Sede.
Appena informato delle accuse circostanziate rivolte al nunzio (ambasciatore) vaticano Jozef Wesolowski a Santo Domingo, lo ha richiamato a Roma e lo ha sottoposto ad un processo canonico, al termine del quale Wesolowski è stato spogliato del suo rango di arcivescovo e ridotto allo stato laicale. Di più: il pontefice ha ordinato l’arresto del prelato degradato e ha ordinato che fosse istruito contro di lui anche un processo penale con la partecipazione di una rappresentanza della stampa internazionale.
La morte per infarto dell’ex nunzio polacco (nella notte fra il 27 e il 28 agosto 2015) gli ha evitato questa vergogna. Ma la svolta di Francesco a riguardo è stata radicale. Mai un arcivescovo, membro del corpo diplomatico della Santa Sede, era stato oggetto di una punizione così esemplare e pubblica. Per fare un paragone basti ricordare che in presenza dei crimini sessuali di Marcial Maciel, fondatore e capo dei Legionari di Cristo, Benedetto XVI lo aveva allontanato dalla guida del movimento e gli aveva imposto una vita appartata, ma non aveva avuto il coraggio di sottoporlo a processo.
Francesco ha proseguito la sua opera di contrasto agli abusi, creando una commissione pontificia incaricata di elaborare nuove linee guida per la protezione dei minori. La commissione è presieduta dal cardinale di Boston Sean Patrick O’Malley, che nella sua diocesi funestata per decenni da preti predatori (come racconta con precisione il film Il caso Spotlight) aveva fatto una grande operazione di pulizia. A far parte della commissione – anche questa un’assoluta novità – sono state chiamate due vittime: l’irlandese Marie Collins, abusata a tredici anni da un prete, e l’inglese Peter Saunders che ha fondato nel suo paese la National Association for People Abused in Childhood, un’organizzazione di sopravvissuti all’abuso.
Infine il papa argentino ha creato recentemente un tribunale speciale presso la Congregazione per la Dottrina della fede per giudicare l’“abuso di ufficio” di quei vescovi che non hanno dato seguito alle denunce di pedofilia loro pervenute. Un nuovo organismo, che in linea di principio dovrebbe permettere a ogni fedele in qualsiasi parte del mondo di portare in giudizio i vescovi insabbiatori o che rimangono inerti a fronte di segnalazioni di abusi.
Inutile dire che tutta questa strategia in molta parte dell’apparato ecclesiastico, abituato da secoli all’omertà, non ha incontrato entusiastica approvazione né un concreto appoggio. Le difficoltà sono cominciate proprio con la commissione per la tutela dei minori. Nel marzo 2014 il pontefice aveva creato un organismo snello composto di otto persone: quattro donne e quattro maschi, quattro laici e quattro chierici. Il primo segno di resistenza da parte dell’apparato ecclesiastico a Roma e nel mondo è venuto dalle critiche che la commissione sarebbe stata troppo ristretta e non rispecchierebbe l’universalità della Chiesa. Così è stato perso un anno alla fine del quale la commissione è stata ampliata a 17 membri. Ma la battaglia più forte è divampata sul ruolo della commissione stessa. Tra quanti considerano l’organismo uno strumento per fare pulizia all’interno della Chiesa dei preti predatori ancora esistenti e dell’omertà episcopale e per portare alla luce crimini tuttora rimossi e quanti invece puntano a fare unicamente lavoro di prevenzione per il futuro, lasciando di fatto gli scheletri negli armadi.
Simbolo e vittima di questa battaglia è Peter Saunders, che ha espresso forti critiche per l’inerzia della commissione oltre che su casi specifici come le accuse rivolte in Australia al cardinale George Pell di avere coperto preti pedofili quando era vescovo di Melbourne e Sidney, e per questo a febbraio scorso è stato estromesso dalla commissione con la singolare motivazione che “si prenderò un periodo di aspettativa per riflettere come egli possa contribuire nel modo migliore al lavoro (del gruppo)”. Al fondo c’è una questione cruciale, che costituisce la cartina di tornasole per giudicare la serietà o meno delle gerarchie ecclesiastiche nell’opera di contrasto agli abusi del clero: il problema delle denuncia alla magistratura. Marie Collins, membro della commissione e vittima, ha sempre dichiarato che si tratta di un “passo decisivo” (se la vittima è d’accordo).
Ma su questo punto la resistenza di gran parte delle gerarchie ecclesiastiche di tutto il mondo è stata strenua e a tutt’oggi vincente. Tranne nei casi dove lo impone la legge del paese, la maggioranza degli episcopati mondiali non vuole sentire parlare di obbligo di denuncia. Tipico il caso della Conferenza episcopale italiana, che scantona affermando che il “vescovo non è pubblico ufficiale”.
Il cardinale O’ Malley dinanzi a questo atteggiamento di sabotaggio radicato nell’apparato ecclesiastico è stato costretto a dichiarare che la denuncia alle autorità civili è un “obbligo morale”. Ma è troppo poco.
L’atteggiamento di resistenza passiva alla strategia di tolleranza zero, che Francesco vorrebbe perseguire, si manifesta inoltre nella realizzazione pratica delle Linee-guida, che già Benedetto XVI aveva chiesto ad ogni conferenza episcopale di elaborare per contrastare efficacemente il fenomeno degli abusi.
Ci sono paesi dove ogni anno si presentano rapporti che informano sullo stato della questione. Stati Uniti e Svizzera, per citarne alcuni. Ci sono paesi in cui c’è un vescovo incaricato dalla conferenza episcopale di seguire tutto il dossier-abusi a livello nazionale: per esempio in Germania. Ci sono paesi dove è stata creata una commissione di indagine indipendente: vedi l’Austria, dove agisce il cardinale Christoph Schoenborn. E dove sono stati elaborati criteri per i risarcimenti.
C’è una massa di conferenze episcopali, al contrario, dove regna una voluta passività. L’Italia è in testa a questo esercito di inerti. La Cei non ha impegnato i vescovi a istituire in ogni diocesi centri di ascolto per le vittime. Non si pubblica nessun rapporto su quanto avviene (e molti casi di negligenza vengono segnalati costantemente dalle organizzazioni italiane di contrasto alla pedofilia). Non c’è nessun rappresentante ecclesiastico diocesano né nazionale a cui chiedere conto. Non c’è nessuna direttiva sui risarcimenti. Non c’è nessuna indagine sui crimini del passato ancora nascosti.
La lotta su un aspetto essenziale del riformismo di papa Bergoglio si svolge su questo terreno. Ed è, dietro le quinte, una lotta accanita. Non a caso la lettera che un gruppo di vittime australiane ha inviato a Francesco, chiedendogli un incontro, accenna alla necessità di un “impegno in favore dei bambini del passato e dei bambini del futuro per attuare misure affinchè ciò non si ripeta mai più”. In altre parole, non è possibile parlare di prevenzione se non si indaga attivamente e non si scoperchiano i crimini del passato.
E a proposito di passato, resta una ferita aperta il mancato incontro di Francesco in Messico con le vittime di Marcial Maciel, capo dei Legionari di Cristo. Papa Bergoglio ha già incontrato altre vittime in Vaticano e negli Stati Uniti. Tutte le vittime sono eguali, ma non tutte le vicende sono identiche. Il caso messicano è particolare, perché la denuncia degli episodi criminosi era arrivata direttamente in Vaticano ed aveva assunto la forma di un regolare procedimento di fronte alla Congregazione della Dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Joseph Ratzinger. E lì, in spregio alla legge canonica, si era arenata. Per quanto si è potuto ricostruire Raztinger ha incontrato ostacoli a suo tempo nella Segreteria di Stato e nella segreteria personale di Giovanni Paolo II. Non si voleva toccare l’immagine di una organizzazione potente e influente come i Legionari di Cristo.
Benedetto XVI, recandosi in Messico nel 2012, rifuggì dall’incontro che le vittime gli avevano chiesto. La loro richiesta di un colloquio con Francesco a Città del Messico nel febbraio scorso non ha avuto seguito. Ma il loro diritto ad un faccia a faccia con il pontefice resta. Perché si tratta di un insabbiamento avvenuto ai massimi livelli del Vaticano.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/03/pedofilia-una-spina-nel-fianco-per-papa-francesco/2514943/
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