“E’ successo in un istituto di gesuiti”, racconta. Poi i rapporti con la famiglia: “Da giovane volevo assomigliare a mio nonno Gianni. Poi ho capito che il nonno era il nonno e io sono solo io”. La politica: “Berlusconi finito? Lui non è solo un individuo, è un sistema. Un modo di pensare”
Poi il momento arriva: “Per dire la verità, per smetterla di nascondere le cose, per affrontare quel che mi è successo ed essere onesto, con me stesso e gli altri”. Da 36 anni, con relativa fantasia,Lapo Elkann è declinato sempre con la stessa nota. Alternativamente raccontato come l’erede inconcludente , l’eterna promessa, il ragazzo selvaggio perso nell’apparenza, l’esteta annegato negli amori di frontiera, negli errori e nei vizi. “Oggi sono schiavo solo delle sigarette” dice. E mentre aggredisce un pacchetto di Marlboro, libera i silenzi rimasti chiusi a chiave. Li tira fuori senza filtro, una boccata dopo l’altra, e in una nuvola di fumo, vestito di velluto arancione, scherza: “Quando Torino è così grigia bisogna fregarla con il colore”.
Lapo affronta le curve della memoria senza freni. Va veloce. Si schianta spesso. Riparte sempre. Guarda nello specchietto retrovisore del passato e vede l’infanzia, la dislessia, i traumi mai svelati prima, le incomprensioni e i sensi di colpa. Li osserva con la malinconica consapevolezza del sopravvissuto. Sotto le luci del neon, parla per quattro ore. Soffre, ride, si cerca dentro.
Tortura il volto tra le mani e non smette di rievocare neanche quando in una vaschetta di alluminio, arriva una milanese da divorare al ritmo di un’intensa seduta di autoanalisi. Sull’epopea mediatica che ne segue ogni passo riverberandone un’immagine alterata, ha le idee chiare: “In Italia l’eccentricità non è ben accetta perché non sei incasellabile in una scatola. E io di essere messo in una scatola non ho voglia. Credo di averne il diritto. Io non sono solo una persona leggera, un imprenditore, il nipote diGianni Agnelli o il figlio di Margherita. Sono tantissime altre cose. Ho le mie sfaccettature e i miei difetti, ma forse la mia fortuna è che i miei difetti sono stati resi pubblici costringendomi ad affrontarli. Uno sforzo che mi ha reso più umano. Più libero. Sono a un punto della mia vita in cui ho deciso di essere coerente al cento per cento”. Nell’ufficio torinese, circondato dai coetanei che lavorano alla creazione dei suoi occhiali dal nome sciovinista: “Italia independent”, diffusione planetaria e quotazione borsistica da decine di milioni di euro, brillano lenti di tutti i tipi. Occhiali che galleggiano. Occhiali che puoi torcere. Occhiali di legno, di velluto. Leggeri, pesanti, per la fauna e l’amazzonia, a tinte arcobaleno per il Gay Pride e neri in stile Batman per il volto di Lady Gaga: “Provateli, sono in Carbonio”. Lapo si muove tra le stanze e ci vede benissimo. In fondo ai ricordi c’è una camerata e una divisa verde.
Brigata Taurinense, fine anni Novanta. Soldato semplice Lapo Elkann: “Non sono mai stato un chierichetto e qualche cazzata, anzi più di qualche cazzata, l’ho fatta anch’io. Non sono stato perfetto neanche durante la leva. Sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo, come diceva Totò”.
La leva finì in commedia?
Mio nonno voleva che facessi l’allievo ufficiale. Ma io non ne avevo alcuna intenzione. Grazie a Dio ero già ipertatuato. Mi declassarono. Che soddisfazione.
Perché?
Così non ero tra i raccomandati. Però i commilitoni mi vedevano lo stesso come un marziano. Un volontario di carriera mi provocava. Quando mi vedeva lavare i piatti mi prendeva per il culo: “Agnellino di merda, pulisci anche questo”. Allora mi sono incazzato .
E che è successo?
Sarò anche buono e non sono cinico, ma so come difendermi. Sono uscito dalla mensa ed è finita a botte. Non dico che ho fatto bene, i pugni non sono mai una soluzione, ma da quel giorno mi hanno rispettato tutti. Non ero più solo il cognome o la mezza calza senza coraggio, ma Lapo. Il Capitano Valle però non era d’accordo e mi diede qualche giorno di camera di consegna. Ho avuto sfiga, tifava per il Toro.
Che disse?
“Elkann, dove credi di essere?”. Gli spiegai che poteva punirmi. Ma se provocato ancora, pur essendo un non violento, l’avrei rifatto. Accetto tutto, non gli insulti alla mia famiglia.
LA FAMIGLIA
Eredità pesante sin da bambino?
Da piccolo non capivo che cosa avevamo di così speciale. Anche perché io volevo fare il negoziante. Vedevo i miei amici francesi, ebrei sefarditi, con le loro botteghe, sempre pieni di contanti. Si potevano comprare i vestiti e mille altre cose. Io mi vendevo gli stivali da cow boy in lucertola e il giubbotto dell’Avirex per comprarmi il motorino. Volevo essere come loro, che invece mi guardavano stupiti e mi dicevano: “Ma che vuoi? Tu hai le fabbriche”.
Non doveva essere male crescere tra cavallini rampanti e autografi di Platini.
Il mio film preferito era Big. Vedi Tom Hanks da bambino circondato da macchinine. Io avevo proprio la fissa. Andavo da mio nonno e gli chiedevo: “Scusa, se tu fai le macchine perché non posso avere le mini-macchine anch’io?”. Quando ci hanno regalato il go kart, a Villar Perosa, è stato un sogno. Giravamo da mattina a sera. Le estati più belle, disinvolte e libere della mia vita. C’erano mio fratello e i cugini a cui di notte mettevo il dentifricio nelle orecchie. Invece mia sorella Ginevra era diversissima: lei bruna, io biondo. Ci scambiavano per fidanzati. Ce la ridevamo.
LE FERITE
Eravate tutti a scuola insieme?
No, perché in classe avevo grandi difficoltà. Ero dislessico, amavo solo le lingue e la storia. Ero molto più bravo a parlare che a scrivere. Dunque i miei fratelli sono rimasti al liceo pubblico, e io, che ero il secondo di otto, sono stato spedito in collegio, dai gesuiti. L’ho vissuta come una vera e propria punizione.
Come mai?
Da quando ho compiuto 13 anni ho vissuto cose dolorose che poi mi hanno creato grosse difficoltà nella vita. Cose capitate a me e ad altri ragazzi. Parlo di abusi fisici. Sessuali. Mi è accaduto, li ho subiti. Altre persone che hanno vissuto cose simili non sono riuscite ad affrontarle. Il mio migliore amico, che era in collegio con me per quasi 10 anni e ha vissuto quello che ho vissuto io, si è ammazzato un anno e mezzo fa. Non ne ho mai parlato prima anche perché voglio che questa storia serva a qualcuno. Sto pensando a una fondazione. Voglio aiutare chi ha passato quello che ho passato io. Parlare è giusto, ma facendo qualcosa di utile, di positivo.
Che impatto hanno avuto queste esperienze nella tua vita?
Tu puoi essere una persona solare e positiva, ma certe cose, quelle cose, riescono a conficcarti il male dentro. Però io non mi considero una vittima, le vittime sono altre.
Come si affronta un trauma simile?
Ho dovuto fare un enorme lavoro su me stesso, anche vedere cose che non avevo voglia di vedere. Non nasconderle più. Non nascondermi. Ho dovuto essere sincero con me stesso e con gli altri. Anche perché quando si ammazza il tuo migliore amico ti metti in discussione. Ti fai delle domande. Avrei potuto fare qualcosa? Stargli più vicino? Me lo sono chiesto anche quando è morto mio zio Edoardo.
Il figlio di Gianni Agnelli scomparso nel 2000.
A mio zio penso molto spesso. Mi manca. Mi mancano anche tutti gli altri: mio nonno, Giovannino, Umberto, mio cugino Filippo, che se ne è appena andato. Tutti. Però Edoardo era una persona speciale. Atipica. Che ha vissuto una vita estremamente travagliata. Certe cose dure che ha vissuto, oggi le capisco ancora meglio di ieri. E ho sempre un grande dolore nel pensare che si sarebbe potuto fare di più. Che avremmo dovuto fare tutti di più.
L’AVVOCATO
Hai detto che essere nipote dell’Avvocato è stato più facile che esserne il figlio.
Molto più facile. Essere figlio di Gianni Agnelli non poteva essere una passeggiata di salute. Sono sicuro che non sia stato semplice averlo come padre. Perché il nonno te lo puoi godere, ma un genitore ti deve educare. Da giovane volevo somigliare a mio nonno. Era il mio esempio, il mio modello. Pensavo esistesse solo lui. Poi ho capito che il nonno era il nonno e io sono solo io. È giusto così. Oggi non ho più nessuna voglia di essere come lui, il che non vuol dire che non lo rispetti. Però io sono diverso.
Pensi di avere più cose in comune con tua nonna, donna Marella?
Non faccio mai confronti. I paragoni sono pericolosi. Presuntuosi. Sarebbe facile sostenere che mia nonna è bella ed elegante, ma preferisco dire che è una donna forte e veramente buona. Una persona che mi è stata vicina nei momenti più bui. Quando ho sofferto di più, lei c’era. Con grande generosità. Buona com’era anche la madre di mio padre, nonna Carla che hanno rapito nel 1977 eppure non ha mai perso la gioia di vivere.
Si parla da anni della rottura con Margherita Agnelli.
Non è vero che non parlo con mia madre. Nei rapporti umani ci sono delle fasi. Succede con fratelli, amici, cugini e anche con i genitori. Non sono fiero di certe cose che ho detto su di lei e del modo in cui le ho dette, ma ho i miei limiti, non ho mai preteso di essere perfetto. Ho avuto momenti di grande insicurezza e sofferenza personale e professionale che mi hanno portato a essere duro, freddo e, a volte, verbalmente violento. Poi io e mia madre ci siamo confrontati. Ma quello che ci siamo detti riguarda solo noi, non lo condivido con i giornali. E anche se oggi con lei ho un dialogo nel quale di certe cose non si parla e non si discute, il rapporto è costruttivo. E auspico che con il tempo migliori. Parto sempre dal presupposto che se c’è buona volontà da entrambe le parti, le cose possano prendere una buona piega. Anche perché so che per me è basilare.
LE DONNE
Per arrivare a cosa?
Io nasco da lei. Non da un’altra donna. E se un domani voglio costruire una famiglia tutta mia so che il rapporto con mia madre è fondamentale per avere una relazione sana con le donne, per non nutrire uno spirito vendicativo, o cattivo nei confronti delle donne in generale.
Ci pensi davvero, a mettere la testa a posto?
Una volta pensavo che sarei stato ricco solo dopo aver guadagnato da solo i miei soldi. Oggi credo che la vera ricchezza non dipenda da quanti zeri hai sul conto in banca. Ma da come stai interiormente. E io ho ancora tanta strada davanti. Per me farcela significa conquistare una vita normale e creare la mia famiglia, avere dei bambini. Non vedo la mia vita senza moglie e figli. Ho 36 anni, entro i 40 ci arrivo.
È vero che vuoi chiamare tua figlia Italia?
Certo che è vero. Sempre che la moglie sia d’accordo. Come esistono Asia e India, perché Italia non va bene?
L’ITALIA
Sei innamorato di un Paese che va sempre peggio.
Non sono d’accordo. I problemi ci sono, ma anche i segnali positivi. Guardate questo Papa, è fantastico, umano, moderno. E anche se il Vaticano non è in Italia, la sua influenza si sente parecchio. L’Italia soffre, ma non è sconfitta. Solo che dovremmo evitare di prenderci a schiaffi da soli. C’è un enorme potenziale non espresso.
Per esempio?
Si parla tanto di Alitalia, ma ancora prima bisogna guardare ai problemi strutturali. Abbiamo infrastrutture inadeguate. Gli aeroporti, per dire, vengono gestiti molto male. Se atterri a Madrid o a Barcellona – e cito la Spagna perché sta peggio di noi – puoi passare la giornata a girare i duty free senza annoiarti. A Fiumicino un’esperienza come quella raccontata nel film The Terminal me la risparmio volentieri.
E del declino di Berlusconi cosa pensi?
Non sono paraculo né finto, e a differenza di molti altri dirò le cose come stanno. Ammetto che io Berlusconi, nel ’94, l’ho votato. Nel suo lavoro aveva creato slancio e pensavo potesse replicare lo stesso schema in politica. Poi molto di quel che era stato promesso non è stato fatto e io non l’ho votato più. Come imprenditore e italiano il mio scopo non è dimenticarmi delle tasse. Guadagno e sono contento di pagarle. Poi Berlusconi che pure non è un mio amico, non mi sta affatto sulle palle. Non partecipo al tiro al bersaglio. Qui da sempre prima si fa un applauso, poi si prepara il plotone di esecuzione. Troppo comodo.
La sua epoca è davvero finita?
È una domanda complessa. Berlusconi non è solo un individuo. È un sistema: un modo di pensare, comportarsi, comunicare. Ha compiuto errori, come tanti altri, ma sarei stato felice se avesse fatto di più. Per me non è mai stata questione di destra o di sinistra. Non faccio il radical chic, né fingo di essere comunista o di sinistra. Di principe rosso ce n’era uno e si chiamava Carlo Caracciolo. Fantastico e inimitabile, ma io sono diverso.
Oggi governano Letta e Alfano, il parricida.
Possono fare un buon lavoro e anagraficamente, il tempo è dalla loro parte. Quando c’è stato lo show down nel Pdl, ho cercato il numero di Alfano che incontro spesso in treno e poi l’ho chiamato: “Lei ha dato prova di avere grandi coglioni”, gli ho detto.
L’Huffington Post Italia in primavera titolava ‘Elkann vota Grillo’.
Impossibile, ero in America, non avrei potuto neanche volendo. Ma non l’avrei votato comunque.
Nella stessa intervista si riferisce di un tuo duro giudizio su Renzi: “Si è venduto a Bersani per un piatto di lenticchie”.
Impossibile anche questo. Non ho mai parlato male di Renzi. Mi pare uno che si comporta nello stesso modo che abbia davanti un cameriere o il presidente della Repubblica. Un atteggiamento che mi piace. Troppo facile giocare a fare il duro con chi lavora per te, meno semplice farlo con chi ha più capacità, intelligenza o palle di te.
Guarda che ti invita a pranzo.
All’epoca del mio incidente di percorso Renzi mi scrisse una lettera estremamente gentile e umana. Altri dissero cose più sgradevoli. Fini dichiarò che mi dovevo vergognare. Quando penso ai politici separati dalla realtà, appartati in comode salette e circondati da guardie del corpo, penso a gente come lui.
ZITTI E MUTI
Un altro uomo di potere che critica spesso gli Agnelli è Diego della Valle.
Sono amico di suo figlio, ma a Diego Della Valle che ho incrociato spesso, non ho mai risposto nel merito. Un po’ perché credo che quando dice: “Parlano i risultati” abbia ragione mio fratello. Un po’ perché non sono un tuttologo e su certi temi, mi astengo. Come imprenditore Della Valle ha fatto un gran cammino, ma non basta trasformare un’aziendina in un’aziendona per far di te uno che può parlar di tutto e di tutti. Della Valle non se l’è presa soltanto con la mia famiglia, ma anche e in maniera poco graziosa, con Giorgio Armani. Ha detto che avrebbe dovuto restaurare il Castello Sforzesco come lui aveva fatto con il Colosseo.
Armani cosa ha risposto?
Gli ha fatto sapere che se deve far beneficenza lo fa con i suoi soldi e non con quelli degli azionisti e che in ogni caso, non ha bisogno di sbandierarlo. Nella storia italiana esistono due GA. Uno era Gianni Agnelli, l’altro è Giorgio Armani e allora zitti e muti perché Armani è uno che si è fatto da solo, è un esempio di distinzione, garbo ed eleganza, è in ufficio alle 7 e 30 del mattino e rappresenta l’Italia in giro per il mondo al massimo livello. Detto questo, non ho nessuna animosità né nessuna polemica da rialimentare con Della Valle. Spero capisca che è inutile perder tempo e che oggi il Paese non ha bisogno di conflitti interni né di piccoli giochi di potere. Ci sono imprenditori interessati ai Cda delle banche e dei giornali, ma c’è anche chi, di quel sistema, non ha voglia di far parte né oggi né domani. In generale, se devo confrontarmi con gente con cui non vado d’accordo, la chiamo direttamente. Non ho bisogno di pubblicità e se posso averne meno, sono anzi più sereno. Provoca dicendo che la mia famiglia ama andare in barca a vela. É vero, ma gli ricordo che io la barca l’affitto, lui ce l’ha di proprietà.
LA FIAT
Della Valle se la prende con la Fiat che delocalizza. Come giudichi le scelte di Marchionne?
Prima di lui la Fiat era un’azienda europea, oggi è mondiale. Marchionne non aveva molte opzioni. L’alternativa era tra vivere e morire. Penso abbia scelto bene. E vedo la delocalizzazione come una forma di internazionalizzazione . Ma parlo da azionista, in Fiat non lavoro più dal 2005, quando mi dimisi.
Prima di quello scandalo legato alle tue dipendenze si parlava di te come futuro presidente della Ferrari. È un sogno che coltivi ancora?
A Maranello vado circa cinque giorni al mese, ho un contratto di consulenza. Le macchine sono il mio primo amore, una vera passione. Ma il lavoro che faccio ora con “Italia Independent” non è un gioco. Ci sono famiglie che dipendono da me, prospettive, orizzonti che, al momento, nel mondo dell’auto non ci sono.
La prima esperienza nelle aziende di famiglia è stata però alla Piaggio di Pontedera, sotto falso nome.
Io ero il terzo in linea di montaggio, linea 2 amortizzatore-cavalletto in un contesto molto comunista e iper incazzoso. C’era un operaio che si vestiva come mio nonno. Si metteva l’orologio sulla camicia. Era il figo della linea di montaggio, io non volevo farmi scoprire, ero discreto e mi vestivo con le canotte da Renegade, quelle con l’aquila. Questo mi prendeva da parte e diceva ad alta voce: “Oh, sei vestito come uno sfigato! Un po’ di stile”. Stetti due mesi, dormivo in una pensioncina al centro di Pontedera, ma non ci prendiamo per il culo. La gavetta è un’altra cosa e due mesi non sono niente. Quello in fabbrica è un lavoro durissimo, dalla monotonia straziante, per cui provo profondo rispetto.
Ti hanno scoperto?
Ebbi un gran culo. Il giorno in cui ho smesso alla Piaggio sono andato a vedere la Juve allo stadio. Mi videro in tv, ma lo stage era già finito. Peccato, perché a Pontedera ero pazzo di un’operaia, che era veramente bella. Ma mi frenai e mi dissi: “Non ti permettere neanche di pensarlo, sarebbe una cosa da stronzo”.
È vero che, a Capri, rubasti un Taxi al grido di “la Fiat è mia”?
Ma vi pare che avrei mai detto “La Fiat è mia”? Il “Lei non sa chi sono io” non mi appartiene a iniziare dal lei. Io do del tu a tutti. A Capri non è andata così. Ho tanti difetti, ma non sono arrogante. Eravamo un po’ brilli, c’era stato il compleanno di un amico. Scherzai con un tassista e guidai l’auto per 10 metri. La mia fidanzata di allora mi disse di smetterla e finì lì. Qualcuno pensò poi di sfruttare la storia per fare pubblicità all’isola, ma non successe niente. Veramente niente.
Però in Fiat hai lavorato: alcune idee, come le felpe col logo dell’azienda, furono efficaci.
Arrivai in Fiat in un momento drammatico. L’azienda aveva perso il proprio padre e inventare comunicazione senza soldi e ringiovanire un marchio senza prodotto partendo dalla Stilo non fu facile. Bisognava ricreare empatia attorno a un marchio che vende auto ma paradossalmente, non ha auto. Riaccendere l’orgoglio, anche internamente. Per prima cosa inaugurammo l’Open Space. Una questione di trasparenza, non si doveva nascondere nulla ai lavoratori.
LA DIPENDENZA
Poi è arrivato il 2005, lo spartiacque della tua vita. Sei finito in rianimazione e sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Come è stato risalire dallo sprofondo?
Lento, sofferto, complesso. Difficilissimo come tutte le scalate per raggiungere il bello. Sono servite fatica e sofferenza.
E adesso ti senti in salvo?
Ora sono a metà strada. Adesso ho una certa pace interiore perché a quella definitiva – e chi lo nega mente – non arrivi mai. Ho pianto il mio miglior amico, ho visto gente morire, ho perso una donna che amavo molto e un lavoro che adoravo. Mi sono salvato per un soffio dopo aver visto la morte in faccia, ho avuto l’immensa fortuna di potermi giocare una seconda occasione. Ma il mio passato alla fine è stato un enorme aiuto. Anche con Italia Indipendent non è stato tutto rose e fiori. Momenti durissimi. Ma quando hai vissuto quello che ho vissuto io certo non ti fai scoraggiare. E oggi, senza presunzione, se penso alla competizione, penso a Ray-Ban. Con i nostri occhiali arriveremo o siamo già arrivati in Europa, America, Giappone ed Emirati Arabi. Vogliamo diventare quello che era la Swatch negli anni Ottanta.
LA RISALITA
Si dice che il primo a convincerti a uscire di casa, dopo lo scandalo, fu l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger.
So cosa dicono di lui. Che è una persona senza etica, un figlio di puttana per quello che fece in Vietnam e in Sudamerica negli anni 70. Ma con me è stato leale e paterno. Mi ha aiutato moltissimo, è stato tra i primi a tendermi la mano.
Cos ’hai imparato da lui?
Mi ha fatto capire che qualsiasi cosa facessi non era mai abbastanza. E che la fame la si coltiva, da ricchi e da poveri. Per migliorare non ci sono scorciatoie, devi combattere e lottare. Se mi chiedi di dare il 100 per cento nel lavoro, io non ci riesco. Do sempre il 400 per cento. E sapete perché? Perché i miei eccessi e la mia natura additiva non remano solo contro di me. Per la passione che ci metto sono lo stereotipo di un italiano.
Che uomo vuole diventare Lapo Elkann?
Uno che riesce a raggiungere i suoi obiettivi con etica, correttezza e umanità. Ho l’illusione che si possa emergere senza sotterfugi. Con la bontà: essere buoni non è qualità né un difetto. Se la classe imprenditoriale ha fatto credere che essere furbi fosse un valore, io rivendico il valore della bontà. Ci sono quelli che mi criticheranno sempre e quelli a cui non piacerò mai. Io vado per la mia strada. Senza arroganza, magari sbagliando, ma a modo mio.
Da Il Fatto Quotidiano del 18 ottobre 2013
Scopri di più da Rete L'ABUSO
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.