Parole «forti, determinate e senza ambiguità». Sono quelle che Antonio Messina, vittima riconosciuta di abusi da parte del sacerdote Giuseppe Rugolo, chiede di pronunciare a monsignor Luigi Renna, arcivescovo di Catania. Chiamato a presiedere il Pontificale nella Basilica Cattedrale il prossimo 15 agosto, a Piazza Armerina, in occasione della festa di Maria Santissima delle Vittorie. Insieme a lui ci sarà Rosario Gisana, vescovo di Piazza Armerina, e imputato per falsa testimonianza, con l’accusa di aver protetto Rugolo – oggi dimesso dallo stato clericale dopo la condanna – e di aver costruito un sistema di insabbiamento. Un’ombra pesante che incombe sull’appuntamento liturgico, che Messina – vittima riconosciuta del sacerdote condannato in primo e secondo grado per violenza sessuale su minori – chiede di diradare con una lettera aperta, lunga e dettagliata, diretta a monsignor Renna. Il cuore della richiesta è semplice, ma politicamente e pastoralmente delicato: che l’arcivescovo usi la sua presenza pubblica non come un atto di cortesia istituzionale, ma come un’occasione per dire parole chiare e inequivocabili di condanna verso ogni forma di abuso e di copertura.
La lettera non risparmia nomi e accuse. Le accuse di insabbiamento rivolte al vescovo di Piazza Armerina Gisana, scrive Messina, trovano riscontro nelle intercettazioni telefoniche e nelle registrazioni agli atti del processo. Non solo: il vescovo, sempre secondo la vittima, avrebbe ridicolizzato e minimizzato le sue denunce, definendo la vicenda «una storia tra omosessuali» e liquidando il dolore con stereotipi e frasi offensive. Un passaggio su cui Messina, oggi, richiama a Renna le sue stesse parole, affidate in passato al quotidiano La Repubblica: «Non ci devono essere dubbi. I vescovi non proteggono nessuno, bisogna denunciare e stare dalla parte delle vittime, la cui sofferenza va presa molto sul serio». Parole che, sottolinea la vittima, dovrebbero ora tradursi in coerenza e azione concreta. Non un gesto simbolico, ma un atto pubblico e inequivocabile che allinei la prassi alla dottrina, l’azione alla predicazione.
Il rischio, scrive Messina, è che il 15 agosto si trasformi, anche involontariamente, in un segnale di sostegno verso chi è accusato di proteggere i colpevoli. Per questo chiede all’arcivescovo di pronunciare parole chiare di condanna oppure di declinare l’invito, per non compromettere la propria posizione in una vicenda che «macchia la diocesi e offende la dignità dei fedeli». In filigrana, dietro le righe della lettera, emerge una generale e più ampia accusa: quella al silenzio e all’indifferenza come forme di complicità. «Il cambiamento – scrive Messina – è affidato anche a chi nella Chiesa ha un ruolo di guida e non occupa semplicemente un posto di preminenza». Un appello che non è solo una richiesta personale, ma un atto di denuncia pubblica, un banco di prova per la credibilità di un’istituzione che, di fronte agli scandali, è chiamata a scegliere da che parte stare: «Mi aiuti a fare sì che non si perpetri ancora l’abuso – si congeda Messina nella lettera – che si attua anche con il silenzio, l’indifferenza e la commissione. Preghi per me, per la mia famiglia e per quelle vittime che non hanno voce».