La madre lo temeva, che quella figlia buona e carina sarebbe stata assaltata da qualche prete. Ma per una famiglia della provincia italiana, entrambi i genitori costretti a lavorare lontani da casa, entrare in convento era una soluzione ragionevole. Solo dopo decenni di angherie e abusi suor Giusi — il nome è di fantasia — è riuscita a ribellarsi. E oggi vuole raccontare la sua esperienza, che è quella di molte altre che tacciono. «Quando me ne sono andata mia sorella mi ha detto: finalmente ti sei decisa a uscire da questo inferno», racconta questa donna di 73 anni che preferisce, comunque, rimanere anonima. Lo sguardo aperto, la voce tranquilla di chi sa di aver fatto la cosa giusta, è un fiume in piena di ricordi dolorosi che iniziano appena varcata la soglia del convento a dodici anni.
Angherie e privazioni
È il 1963, le bambine sono costrette a lavorare: lavano a mano, asciugano e piegano la biancheria di 160 tra preti e seminaristi di un’abbazia della zona. «Avevo le mani rovinate, non potevamo mettere il reggiseno perché era vanità», ricorda l’ex religiosa: «L’abate poteva regalarci una lavatrice, no?». Niente scuola, niente contatti con la famiglia in nome di un santo distacco, niente acqua fuori dai pasti, pranzo in silenzio ascoltando le vite delle sante: «Ci inculcavano l’idea che dovevamo soffrire per diventare sante — dice — Ma chi l’aveva chiesto di diventare santa?».
Le punizioni si susseguono, gratuite e crudeli. «Una volta stavo canticchiando e la superiora mi trattò come se fossi una prostituta», racconta Giusi. Il castigo classico è baciare 50 volte il pavimento, ma si può finire al tavolo della penitenza a mangiare in ginocchio o in piedi davanti all’altare a braccia allargate come in croce. Una compagnuccia viene sorpresa a inviare un biglietto a un compagno di giochi tramite la biancheria pulita, viene costretta in ginocchio a ripetere «Pregate per me che sono una civetta». Il cibo non va mai rifiutato, Giusi mangia anche il gorgonzola che non sopporta, e quando la superiora si accorge di una smorfia le infila nel piatto un’altra fettona di gorgonzola che la bambina è costretta a ingurgitare: «Sono stata male tutto il giorno, senza poterlo dire». Assonnata alla messa in latino dell’alba, ogni tanto rischia di addormentarsi: viene spostata nel banco davanti alla suora superiora che da dietro la sveglia con pugni alla schiena. Più che un convento una prigione, l’ascesi somiglia a una tortura. Ma pensi che le cose vadano così. «A quell’età non capisci: capisci che quella è cattiveria ma niente di più». E rimani.
Lo stupro e il terrore
Fin dall’inizio Giusi vuole andare in missione in Africa, dovrà aspettare 25 anni per realizzare il sogno. Una superiora clemente la invia a Roma per recuperare le scuole medie, poi studia all’ospedale Santo Spirito, lavora per 12 anni da caposala, e nel 1988 infine riesce a partire per il Congo, dove rimane tre anni. E qui avviene la prima violenza.
Nell’ospedale dove lavora finiscono i farmaci, suor Giusi, ormai 38enne, fa un viaggio di tre giorni attraverso foreste e villaggi per andare a recuperarli. Pernotta in una casa del suo ordine religioso dove vive un gruppo di preti e seminaristi. In piena notte le piomba in camera un sacerdote e la violenta. Lei è vergine. «Ricordo il dolore fisico, il dolore morale, il dolore di tutto», racconta oggi con voce asciutta, «e poi ero terrorizzata di essere rimasta incinta». Da quella notte suor Giusi di notte chiude sempre a chiave la porta della sua camera da letto. Non denuncia lo stupro. «Non ho parlato con nessuno, non conoscevo nessuno in Africa», spiega. E il sacerdote? «Oggi è parroco in Belgio».
Le molestie a Roma
Le molestie sessuali continuano quando la religiosa rientra in Italia. Torna a lavorare nella clinica romana dove aveva iniziato, una delle più rinomate strutture private della capitale. «Volevo andare in Africa, dai più poveri del mondo, e invece dovevo lavorare con i più ricchi del mondo», commenta. La sua famiglia più volte cerca di convincerla a lasciare la vita religiosa. È caposala, lavora tutti i giorni fino alle 21. Scopre alcuni imbrogli, li denuncia alla superiora. Nella casa generalizia dove risiede viene spesso il padre provinciale. Una sera insiste per darle un passaggio in macchina, ma a un certo punto devia, si accosta in una zona in penombra di Roma e le mette le mani addosso. Lei lo respinge, lui si masturba, poi riprende la guida e la porta in silenzio alla clinica.
Suor Giusi rimane congelata. Inizialmente non pensa a denunciare: «Non mi avrebbero creduta». Poi matura la decisione: prima scrive una lettera anonima, poi va dal padre generale. Dopo un po’ il sacerdote viene trasferito in una parrocchia, poi lo riportano a Roma. La suora nel corso del tempo scopre che molte altre donne erano state assaltate e molestate dal prete. Alcune avevano i lividi, sono state buttate a terra, hanno dovuto combattere per resistergli. Lui anni dopo è morto nel suo letto, i confratelli gli hanno fatto un bel funerale, per lui parole di encomio. «Non mi do pace — dice suor Giusi — io l’ho denunciato, altre donne lo hanno denunciato, i padri sapevano… e non hanno fatto niente».
“Sappiamo, sappiamo”
E poi c’è quell’altro sacerdote importante, rettore di un’università cattolica, amico di ministri e cardinali, a cui un giorno lei porta un lavoro accademico. Lui la fa entrare, le si avvicina, le prende la mano e gliela appoggia sul suo pene in erezione. «Sono rimasta paralizzata». Lo ha denunciato? «Ma a chi lo andavo a dire?». Anni dopo, però, lo denuncia ai superiori. Più tardi incontra un confratello della stessa congregazione di quel prete: «Gli dissi che avevo un brutto ricordo di quel sacerdote, e quello cosa mi rispose? “Sappiamo, sappiamo…”. Quelle parole, “sappiamo, sappiamo”, ce le ho ancora oggi nel cervello. Lo sapevano, perché non lo ha fatto solo con me».
E non hanno fatto niente. Anche lui muore tranquillo nel suo letto. Era potente, Giusi è convinta che molte non abbiano denunciato per paura di ritorsioni sul lavoro. «Se con me, che ero già affermata, ha osato tanto, non posso pensare cosa avrà fatto ad esempio alle novizie appena arrivate dall’India o dall’Africa a cui faceva da padre spirituale». Una di loro anni fa si è suicidata buttandosi dalla finestra: «Ho sempre pensato che l’avesse violentata».
Una lettera di accuse false
Nel 2000 suor Giusi se ne va. Ha un grave problema in famiglia, ha bisogno di ospitare una persona, si deve assentare per assistere i genitori malati, ma il suo ordine religioso le nega tutto. Non le versa neppure i contributi dovuti. «Dopo 36 anni in convento, 12 ore al giorno di lavoro, avevano i miliardi e non mi hanno dato neanche un euro per comprarmi il primo vestito da laica a cinquant’anni», racconta. Lei scrive a Giovanni Paolo II, le superiore fabbricano una lettera di accuse false che inviano al Papa. Il Vaticano non la aiuta. La misura è colma, suor Giusi lascia il velo e torna nella casa di famiglia. «Tutti hanno fatto in modo che io non facessi uno scandalo», racconta oggi. Perché non se n’è andata prima? «Avevo fatto i voti davanti a Dio». Ha perso la fede? «In Dio ci credo. Prego a casa mia. Sento che lui è qui, molto più che da loro», dice l’ex suora. «Mi hanno fatto troppo male».
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