di Giorgio Gandola
Colpa del superlavoro, del navigatore rotto e del River Plate. Sono i tre motivi che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha elencato davanti al collega Oscar Cantoni per motivare la nomina di quest’ultimo a cardinale e l’ennesima beffa subita.
Una scena spiacevole avvenuta nel duomo di Como davanti a 500 fedeli in raccoglimento per la cerimonia più solenne: la concessione ufficiale della porpora all’amato vescovo della città. Molti hanno commentato il discorso delpiniano come una “scherzosa protesta”, una “divagazione ricamata sul filo dell’ironia”; in realtà si è trattato di uno sberleffo pubblico che in 400 anni mai era risuonato nella cattedrale intitolata a Santa Maria Assunta.
Un accadimento che a Como nessuno dimenticherà, un affronto soprattutto a Papa Francesco che ha nominato Cantoni e non Delpini, perché “nemmeno la Trinità conosce cosa pensi un gesuita”. Il giorno dopo il siluro coram populo è permeato di un silenzio assordante: il neocardinale è molto amareggiato ma, come si rileva nel vescovado lariano, “non ha nessuna intenzione di scendere in polemica e rovinare un momento così speciale per l’intera comunità comasca e valtellinese”. In Vaticano, dove tutti hanno visto il video e letto i report, lo scandalo dell’augurio al confratello trasformato in stand up comica è soffocato in nome della fratellanza della tonaca. Ma nelle sacre stanze c’è chi se l’è legata al dito. Una scena con accenti da Maurizio Crozza, i vescovi che gli facevano ala si sono esibiti in risate di approvazione che hanno aggiunto imbarazzo a imbarazzo. Il solo cardinal Francesco Coccopalmerio è rimasto pietrificato da ciò che stava ascoltando.
Le tre ragioni elencate dall’arcivescovo di Milano per giustificare la scelta e legittimare il sorpasso sarebbero state: “Il Papa pensa che l’arcivescovo di Milano sia troppo occupato e ha voluto dare un po’ di lavoro anche al vescovo di Como”, “Il Papa pensa che il metropolita bauscia di Milano non sappia nemmeno dove sia Roma e sarebbe meglio non coinvolgerlo nel governo della Chiesa universale”, “Il Papa è tifoso del River Plate (in realtà del San Lorenzo de Almagro, tessera numero 88.235, ndr) che è una squadra che non vince e per affinità ha scelto Como, una città che non ha una squadra di calcio vincente perché lo scudetto è a Milano”. Tutto questo a un metro dal raggelato neocardinale Cantoni. Come ridurre tutto a una macchietta. Chissà perché torna alla mente la frase di Jep Gambardella ne La Grande Bellezza: “Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire”.
Delpini ha deciso di accendere la miccia, nascondendo la frustrazione dietro il sarcasmo, con una domanda retorica: “Quali sono i motivi che hanno spinto il Papa a imporre la berretta a un vescovo lombardo e non al suo rispettivo metropolita?”. Si è risposto da solo: superlavoro, navigatore rotto e football. Ma questo è folclore, ovviamente.
Fra le cause del declassamento ce n’è una inconfessabile, che il nostro giornale ha raccontato dall’inizio alla fine: le responsabilità oggettive dell’Arcidiocesi nella gestione del caso di pedofilia sacerdotale che ha visto protagonista don Mauro Galli, condannato in secondo grado a cinque anni e sei mesi per abusi sessuali su un adolescente a Rozzano. La Cassazione ha rimandato il processo in Appello per un vizio di forma e c’è il rischio concreto che la sentenza venga congelata dalla prescrizione.
Al tempo dei fatti (dicembre 2011) Delpini era vicario episcopale e invece di proporre l’apertura dell’ “indagine previa” (l’inchiesta prevista dal diritto canonico per accertare i fatti) decise semplicemente di trasferire il sacerdote a Legnano, sempre in unità parrocchiali con oratori, quindi a contatto con potenziali giovani vittime. Un atteggiamento che il Papa avrebbe in seguito condannato nel motu proprio “Vos estis lux mundi”, allargando l’imputabilità anche ai vescovi e agli altri prelati, cosiddetti omertosi o insabbiatori. Lo stesso Francesco aveva nominato Delpini arcivescovo nel 2017, quando il caso non era ancora arrivato in tribunale a Milano. E quando i pochi giornali che ne parlavano (noi in prima fila) venivamo additati dalle alte sfere della comunicazione ecclesiastica come dei “divulgatori di fake news”.
Ecco perché la vicenda comasca non è fine a se stessa ma ci riporta nella terra di mezzo di peccati e peccatori. È difficile che le scelte del Papa non tengano conto del pregresso. L’arcivescovo metropolita lo sa e forse si sente al capolinea. Ma stando a Milano può sempre rivincere lo scudetto.
(trascrizione da La Verità del giorno 3 settembre 2022)