di GIORGIO GANDOLA
“Ora si rischia che la giustizia sfugga, nascosta dietro la prescrizione. Per noi sarebbe un nuovo dramma”. La famiglia del giovane Alessandro di Rozzano (Milano), vittima di abuso sessuale da parte di don Mauro Galli, vede all’orizzonte il pericolo principale dopo il pronunciamento di Cassazione che ha rimandato il caso in Appello per colpa di due parole. “Costrizione” e “induzione”, termini che galleggiano alternativamente dentro le sentenze di colpevolezza del sacerdote (condannato in secondo grado a 5 anni e 6 mesi) diventano improvvisamente macigni: definiscono lo stesso reato, conducono alla stessa pena (secondo l’articolo 609 bis del Codice penale), ma non sono la stessa cosa e vanno uniformate. Quindi, la sentenza va riscritta.
La Cassazione ha accolto il tecnicismo dell’avvocato Mario Zanchetti, difensore di don Galli, membro della commissione diocesana per la tutela dei minori e storico legale dell’arcidiocesi di Milano. E, di fatto, ha sospeso l’esecuzione della condanna. La difesa chiedeva l’annullamento della sentenza di Appello e non l’ha ottenuto, ma l’impianto dovrà essere ridefinito e spiegato meglio. La violenza è stata confermata, il 99% delle richieste di don Galli sono state dichiarate inammissibili “perché entravano nel merito” (parole del procuratore generale), ma il cavillo è passato e si è infilato come un cuneo nella porta. Ora la procedura verso la fine di una vicenda che dura da 11 anni diventa una traversata nel deserto, al termine della quale potrebbe esserci la beffa suprema per la vittima e la sua famiglia, sfinite da questa impervia ricerca della verità. La prescrizione, obiettivo della strategia della difesa del sacerdote, attende come una tagliola nell’estate del 2023.
Non riesce a chiudersi uno dei processi più dolorosi e scabrosi per l’Arcidiocesi di Milano coinvolta nella triste storia per proprietà transitiva. Dopo l’abuso sessuale fra il 19 e 20 dicembre 2011, don Galli non fu fermato e avviato a “indagine previa” come prevede il Diritto canonico dall’allora vicario episcopale Mario Delpini, oggi arcivescovo della metropoli lombarda, e dal responsabile dei giovani sacerdoti Pierantonio Tremolada, oggi vescovo di Brescia. Ma fu semplicemente spostato da Rozzano a Legnano, sempre a contatto con gli adolescenti. Lo stesso arcivescovo di quel tempo, Angelo Scola, in una lettera di scuse alla famiglia stigmatizzò il “comportamento maldestro” dei suoi collaboratori. Dal giorno in cui il prete-catechista invitò Alessandro, allora quindicenne, a “dormire nel lettone” del suo appartamento privato, il lungo calvario della vittima e della sua famiglia non si è ancora concluso. E forse non si concluderà mai.
La colpevolezza di don Galli, 50 anni, nato a Cislago in provincia di Varese, non è in dubbio, ma le vie del Signore non sono infinite. Ora la procedura somiglia a un ottomila himalaiano: si devono attendere i 90 giorni per le motivazioni della Cassazione, ci sarà la sospensione dell’esistenza agostana, il tribunale di Milano dovrà celebrare il processo di Appello bis in un’unica udienza (con accusa e difesa) al termine della quale dovrebbe esserci la sentenza con le parole al posto giusto. Ad andare bene potremmo essere già a gennaio 2023. Poi si dovranno attendere altri 90 giorni per le motivazioni di questa sentenza e 30 per consentire un nuovo ricorso in Cassazione con relativa tempistica prima della sentenza finale. Senza la pandemia, i 10 anni fra reato e prescrizione sarebbero già trascorsi.
Così il piano inclinato consente al due volte colpevole di sperare di farla franca. L’intera vicenda è un esempio della discrepanza fattuale fra le indicazioni paradigmatiche di Papa Francesco riguardo ai reati sessuali dei sacerdoti e la realtà nelle parrocchie, il desino delle vittime, la possibilità concreta di ottenere una giustizia. A tutto ciò si aggiunge la sentenza assolutoria che, nonostante le due condanne in un tribunale italiano, don Galli ha ottenuto l’anno scorso nel primo processo canonico, quello istruito dal Tribunale ecclesiastico regionale lombardo.
Per lui è stata usata la formula della “sentenza dimissoria”, che di fatto equivale all’insufficienza di prove. Il caso è stato poi trasferito in Vaticano, alla Congregazione per la dottrina della Fede, ed è scomparso dai radar, lasciando una lunga ombra sui proclami di ritrovata trasparenza da parte della Chiesa. Un atteggiamento da più parti stigmatizzato anche da chi è culturalmente vicino alla Santa Sede; per esempio dal libro “Agnus Dei” di Lucetta Scaraffia, Anna Foa e Franca Giansoldati.
Il caso rimane aperto e la strada verso la conclusione sempre più stretta. C’è un dispositivo di Cassazione, ci sono due parole che litigano fra loro, c’è meno di un anno per metter ordine, c’è una vicenda evaporata nelle segrete stanze del Vaticano, ci sono due sentenze di colpevolezza. C’è anche un libro della mamma della vittima, Cristina, dal titolo eloquente: “Chiesa, perché mi fai male?”. In attesa di un risposta, c’è infine una famiglia che si sforza di credere nella giustizia umana e divina, ma non riesce a trovare la pace.
(trascrizione da LaVerità del 15 giugno 2022)