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Home NEWS e CRONACA LOCALE

Sorbolo, il caso don Reverberi: “La comunità è stanca. Non giudichiamo fatti che non conosciamo”

Si torna a parlare del parroco dopo che a ottobre è stata emessa una seconda richiesta di estradizione nei confronti del sacerdote italo-argentino

Rete L'ABUSO by Rete L'ABUSO
20 Gennaio 2021
in NEWS e CRONACA LOCALE
Reading Time: 7 mins read
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“Per come lo abbiamo conosciuto in questi anni, non possiamo credere che don Franco sia responsabile dei fatti di cui è accusato”: è questo il senso della risposta che da più voci raccolgo nel cortile davanti alla canonica dove vive don Franco Reverberi, a Sorbolo.

In un bar del centro, qualcuno ricorda il clamore che aveva suscitato, nel 2012, la notizia che il parroco, arrivato da circa un anno in paese, fosse ricercato dall’Interpol per fatti risalenti agli anni della “guerra sporca” di Videla.

Oggi la vicenda torna a fare parlare dopo che a ottobre è stata emessa una seconda richiesta di estradizione nei confronti del sacerdote italo-argentino, come riportato nell’inchiesta I fuggitivi pubblicata nei giorni scorsi su La Repubblica.

Originario di Enzano, classe 1937, a undici anni Reverberi emigra con la famiglia in Sudamerica. Nel ‘67 l’ordinanza sacerdotale lo porta a svolgere la funzione di parroco, per oltre quarant’anni, a Salto de Las Rosas.

Dopo la fine della dittatura e dopo l’annullamento delle leggi che impedivano di accertare le responsabilità del terrorismo di Stato, quattro sopravvissuti alle sevizie subite nella Casa Departamental, uno dei tanti buchi neri che inghiottirono migliaia di oppositori politici, chiamano in causa don Reverberi nelle loro testimonianze.

Come emerge dall’inchiesta giornalistica che fa parte del progetto On the run from the past, durante il processo i testimoni riferirono che, mentre venivano torturati, ad assistere vi era il cappellano militare, riconosciuto in Reverberi.

Vestito a volte con abiti militari, altre volte con l’abito talare, la Bibbia in mano, il sacerdote, ricordano i testimoni, parlava raramente e solo per indurre i prigionieri a collaborare.

Ma quando, nel giugno del 2011, il procuratore generale di San Rafael, sulla base delle testimonianze raccolte, chiede che Reverberi venga indagato, il sacerdote non è più reperibile avendo lasciato il Paese un mese prima per stabilirsi a Sorbolo. Ai giudici, che dovevano ascoltare il parroco, fu presentato un certificato che attestava problemi cardiaci.

Nel 2012, a un anno dal suo trasferimento in Italia, una sua foto viene diramata dall’Interpol che emette un mandato di rintraccio nei suoi confronti mentre la richiesta di estradizione avanzata dall’Argentina, in assenza del reato di tortura nel codice penale italiano, viene rigettata prima dalla Corte d’Appello di Bologna, poi dalla Cassazione, nel 2014.

Il 2 ottobre scorso, come riportato sulle pagine di Repubblica, è stata però presentata una nuova richiesta di estradizione nei confronti del sacerdote.

Don Reverberi, come mi dicono in paese, esce raramente e conduce una vita molto ritirata limitandosi a dire messa una volta alla settimana. Nello spiazzo alle spalle della chiesa, delimitato a ferro di cavallo entro gli edifici della canonica, c’è un via vai di bambini accompagnati a catechismo dalle mamme.

Lauretta Ponzi, referente Caritas della parrocchia, all’uscita della canonica non si sottrae alle domande. In che modo ha reagito la comunità parrocchiale di fronte alle accuse rivolte nei confronti di don Franco?

“Guardi, abbiamo già parlato tutti troppo di questo argomento, da diversi anni: più se ne parla e più la gente di Sorbolo scuote le spalle e dice di non volerne più sapere nulla. Noi vediamo l’operato che don Franco sta facendo qui ormai da dieci anni: non abbiamo nessun motivo per poter giudicare. Non conosciamo i fatti, se non quelli che abbiamo letto da voi. Per quello che noi vediamo, non abbiamo elementi per dubitare di lui”.

Avete mai provato, in un confronto con la comunità, a chiedere risposte in merito alle accuse che gli vengono rivolte?

“Don Reverberi ha chiarito tutto: anche in Italia è stato assolto perché non si trovava nel luogo in cui dicono che si trovasse al momento dei fatti”, mi risponde. Le dico che non è così: non è stato assolto perché non è stato processato, essendo venuto in Italia a un mese dall’inizio del processo. “Comunque ho visto l’inserto che avete fatto” e scuote il capo.

Un peso lo hanno anche le parole dei testimoni: don Reverberi non sente il dovere di dare risposte ai giudici, a chi chiede di ricostruire un pezzo buio di storia, anche per chiarire la sua posizione?

“Potrebbe anche essere, io non lo so, ma prima di tutto credo che debba rispondere davanti a Dio: è un sacerdote, c’è un superiore, c’è un vescovo, dovranno verificare loro. La comunità, mi creda, è stanca. Non possiamo dare giudizi su fatti che non conosciamo, che vengono da lontano e che ci sono stati riportati. Sono fatti rispetto ai quali lui si è difeso a spada tratta di fronte alla comunità parrocchiale”.

Don Reverberi si è allontanato dall’Argentina per venire a Sorbolo poco prima del processo che lo vedeva imputato…”Probabilmente sì…questo ci può anche stare: ci possono essere stati sacerdoti che hanno lasciato la vita e altri, magari più deboli, che hanno chiuso gli occhi. Questo più che un problema della Chiesa credo sia un problema della persona. Possiamo mettere in dubbio un sacerdote che sta dando alla comunità, per quello che può dato che è molto malato, il suo impegno celebrando la messa e confessando i fedeli? Nel frattempo si sta curando, ha detto che è venuto in Italia per curarsi: ci sta anche che possa essere venuto in Italia in un momento difficile, ma era anche già malato. A che titolo possiamo giudicare?”.

Cercare risposte, per poi poter giudicare, anche a nome delle vittime del regime di quegli anni. “Sì, sì, la storia la conosciamo…ma quando l’altro giorno ho visto il vostro servizio con don Reverberi in mezzo a quei due…mi è dato un colpo al cuore: non ce lo vedo, lì in mezzo, non posso crederci. La mia risposta da fedele, da cristiana, è questa: se lui è veramente colpevole, parli. Se no, ci dovremo affidare alla giustizia divina. Se intervista qualche altro parrocchiano, qualcuno potrebbe dirle che ha dei dubbi ma la comunità vera, che vive attorno alla parrocchia, non si pone il problema: non è che non vogliamo riconoscere quello che veramente è stato ma non vogliamo pensare che il nostro prete – che non è il parroco, perché è qui solo in appoggio – possa essere coinvolto in una cosa del genere”.

Da una porta, si affaccia sullo spiazzo don Aldino Arcari, dal 2013 parroco della diocesi. Pochi giorni fa, alla giornalista di Repubblica che gli poneva una domanda sul caso Reverberi, ha parlato di accanimento da parte della stampa, informandola di avere avvertito il vescovo del fatto che in paese fossero tornati giornalisti a chiedere di don Franco.

Di fronte alla mia domanda di un’intervista, accetta di rispondere. Parlare con don Reverberi, invece, non è possibile: è molto anziano e malato, mi dice.

Don Arcari, a testimoniare ci sono quattro ex prigionieri politici che hanno indicato in Reverberi il parroco che nel 1976 avrebbe assistito alle torture mentre più testimoni riferiscono della sua presenza tra il ‘76 e il ‘78 nel centro di detenzione clandestino di San Rafael. Quale è la vostra posizione rispetto a questa vicenda?

“Noi abbiamo un foglio della diocesi di San Rafael che dice che lui non era lì, nel ‘76, e lui stesso ha ribadito che non c’era, in quel periodo, essendo diventato cappellano militare solo nell’80. C’è tanto di documento della diocesi! Le accuse che gli vengono rivolte mi sembrano un po’ forzate, conoscendolo! Qui stiamo dando la caccia alle streghe…”.

Ma i centri di detenzione erano extra-legali e clandestini: è improbabile che si registrassero gli ingressi di chi vi operava…

“Può anche essere – ribatte don Arcari – io però mi fido di quello che dice. Se poi fosse falsa testimonianza, dovrà risponderne davanti a Dio. Siamo nel campo delle ipotesi. Lui ha già detto che non c’era. Ma io dico: se anche ci fosse stato, che accusa è? Beh, va bene: aveva la Bibbia in mano, dicono, certo: è un prete, non poteva andare là con un mitra….che conforto poteva dare ai condannati? Cosa poteva fare? Come quando durante il fascismo chiedevano a qualcuno di baciare il crocifisso….Che cosa poteva fare, poveretto… Non siamo mica tutti leoni: pensiamo a Don Abbondio”.

All’esterno fa freddo, pur essendo un pomeriggio di sole. Don Arcari mi invita a entrare assieme a Lauretta Ponzi. Mi ripetono che la comunità non può credere che sia lui il prete riconosciuto dai testimoni, non per come lo conoscono.

“Ci pensi – così Arcari, rivolgendosi a me -, come mai papa Francesco non è mai andato in Argentina, che è la sua terra? Chiediamoci questo. E’ un problema politico: non lo possono vedere, quel papa lì, in Argentina e lui non ci andrà mai, glielo dico io: sono delle beghe politiche. Non possono vedere papa Francesco e allora dicono: ti torturiamo questo prete argentino che è in Italia. Ci sono delle storie, sotto, che noi non sappiamo…Io, se fossi papa, la prima cosa che farei sarebbe andare nel mio paese natale…”.

Vi siete confrontati col vescovo recentemente sulla vicenda di cui ora si torna a parlare vista la nuova richiesta di estradizione?

“Io e il vescovo siamo molto legati. Quando viene qualcuno a chiedere di don Franco, glielo dico: lui mi ha detto di avere allertato Parolin in modo che avverta il papa di questa storia. Sembra che Sorbolo copra il torturatore ma noi non copriamo nessuno: lo abbiamo qui ospite e ce lo teniamo, anziano e malato, poveretto. Celebra messa solo una volta a settimana e confessa i fedeli: più di questo non fa. Che gli è venuto un infarto è vero: l’ho accompagnato io in ospedale. Per lui questa attenzione è una tortura. Altro, non saprei cosa dirle”.

Arturo Salerni, avvocato che nel caso Reverberi è stato parte civile in Cassazione per la Repubblica Argentina, uno dei principali avvocati difensori delle vittime del maxi-processo Condor nel quale sono stati condannati all’ergastolo 24 responsabili dei crimini commessi durante le dittature sudamericane, raggiunto nel suo studio romano così commenta il caso Reverberi: “La richiesta di estradizione fu respinta dalla Corte d’Appello di Bologna, ritenendo che i reati fossero prescritti. Verso di lui era mossa l’accusa di tortura. Io allora feci per la Repubblica Argentina il ricorso in Cassazione che sostanzialmente ribadì le conclusioni alle quali era arrivata la Corte di appello di Bologna.

Dal punto di vista dei processi, in Italia non ci sono attualmente altri elementi. Quello che evidenziamo è che don Reverberi si è sottratto alla giustizia argentina oltre al fatto che ci sono diversi e convergenti elementi di accusa: ci sono precisi riconoscimenti, che sono stati raccolti, tutti convergenti nell’indicare in lui ‘il prete’, il sacerdote che assisteva alle torture in maniera benevola non nei confronti dei torturati ma dei torturatori, con atteggiamento di complicità e spingendo i prigionieri a confessare. Da più parti – conclude il legale – in alcuni casi anche da parte della Chiesa, viene la richiesta che Reverberi si sottoponga alla giustizia terrena, prima di arrivare alla giustizia divina”.

Lucia De Ioanna

https://parma.repubblica.it/cronaca/2021/01/20/news/sorbolo_il_caso_don_reverberi_la_comunita_e_stanca_non_giudichiamo_fatti_che_non_conosciamo_-283389240/?fbclid=IwAR0rqWtQc52SapVME10yvb_xAaSCZVLGSjY_OHqyC5lMBK4WKzH-bS47vWQ

 

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