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Home Il punto della Rete L'ABUSO Archivi

Il caso Casati Stampa: cronistoria di una storiaccia nera (terza parte – epilogo)

Rete L'ABUSO by Rete L'ABUSO
7 Giugno 2020
in Archivi
Reading Time: 14 mins read
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VDP – «LEI NON SEMBRAVA MORTA»

L’Europeo, aprile 2001

Domenico Scali fu il primo poliziotto a entrare nella stanza in cui giacevano ormai privi di vita i corpi di Anna Fallarino, Camillo Casati Stampa e Massimo Minorenti. Quella domenica di agosto Scali, funzionario della Squadra Mobile della Questura di Roma (che poi per un anno, nel ’73, avrebbe comandato, prima di essere nominato questore), era impegnato in un “pattuglione”.

«Arrivò la segnalazione che in via Puccini c’erano alcuni morti» racconta Scali, oggi in pensione. «Con un collega mi precipitai sul posto. Non avevo nessuna idea di quello che mi stava aspettando. Entrai nel palazzo, al numero 9 della via, accolto dalla servitù. I domestici erano letteralmente ammutoliti e per oltre un’ora, dopo che avevano avvertito gli spari, erano restati in un’incomprensibile attesa. Mi spiegarono poi, quando li interrogai, che avevano ubbidito a un ordine del marchese che aveva esplicitamente chiesto di non essere disturbato per nessun motivo, e loro non disubbidivano mai al marchese. Di fronte a me c’era un grande scalone di marmo. Tutto il posto trasudava importanza, ricchezza, nobiltà.

«Salimmo in fretta le scale e arrivammo di fronte alla porta del salotto. Aprii e avvertii subito, chissà perché, il bisogno di guardare a destra. Il primo corpo che vidi fu quello di Anna Fallarino. Mi sembrò ancora viva. Era seduta sul divano con le gambe incrociate sopra uno sgabello. Aveva le mani in grembo e il volto sereno. La nota stonata era una macchia scura di sangue, sulla camicetta. Vicino a lei, accanto al divano, c’era il giovane Minorenti. Giaceva mezzo raggomitolato per terra, con indosso una maglietta leggera e dei pantaloni, seminascosto da un tavolino con cui aveva tentato a quanto pare un’estrema difesa nei confronti del marchese armato di fucile. Il tavolino era mezzo scheggiato dal colpo che aveva raggiunto il giovane. Avanzai e vidi anche il terzo corpo, quello del marchese. Non era un bello spettacolo, con la testa mezzo sfigurata dal colpo di fucile. L’arma, un Browning calibro 12 da caccia, giaceva abbandonata su una poltrona. Il marchese doveva aver usato quella poltrona per puntarsi il fucile sotto il mento. Poi aveva fatto fuoco. Il suo corpo era finito dietro la poltrona, sui quadri alla parete era schizzata la sua materia cerebrale. In quella stanza non c’era altro. Espletate le prime indagini, passai la mano ai colleghi dell’Omicidi e tornai a occuparmi del pattuglione in cui ero impegnato fin dal mattino. Le foto compromettenti, che destarono tanto scandalo, furono trovate successivamente in un altra stanza del palazzo durante le indagini dell’Omicidi. Ma io quel giorno vidi solo una bella donna che sembrava non essersi accorta di nulla…»

——————

<<Io c’ero>>

Tratto da “Il trangolo maledetto”
di Vincenzo Cerami
(Il Messaggero)

• Silicone. Roba finta e gommosa, insomma, una protesi. Era questo il segreto di quel seno opulento ma saldo, prepotente, sorprendente per i suoi quarant’anni suonati, che Annamaria Fallarino esibiva con impertinente ostentazione nelle fotografie scattate da suo marito. Avevano avuto una parte non secondaria, quelle istantanee, nel clamore suscitato dal delitto Casati e nell’attenzione un po’ morbosa con la quale l’Italia che si affacciava agli anni Settanta aveva seguito gli sviluppi della vicenda. Indiscrezioni e ipotesi alimentavano ogni giorno cronache che stigmatizzavano lo scandalo, ma non evitavano di metterne in risalto gli aspetti più erotici con compiacenze da voyeur. Eppure, questa faccenda della marchesa al silicone non era mai stata rivelata. Sarebbe stata un’altra notizia sorprendente, in quegli anni in cui alle Dellera e alle Parietti non era ancora spuntato ciò che poi avrebbero provveduto a farsi gonfiare artificialmente. Chissà quando si era fatta operare, dove, da chi. In America, probabilmente. E in Italia, comunque, la marchesa doveva essere stata certamente tra le prime a ricorrere a quel tipo di intervento. Un’antesignana, insomma. Ma a tenere nascosta quella notizia, con un ammirevole senso di riservatezza e di rispetto, era stato colui che l’aveva scoperta: Valerio Gianfrancesco, allora capo della sezione Omicidi della Squadra Mobile e successivamente capo di gabinetto della Criminalpol, dirigente e infine vicedirettore, con il grado di questore, dell’Istituto superiore di polizia. In pensione dall’agosto dello scorso anno, Valerio Gianfrancesco, che è un napoletano sorridente e schivo, con due occhi mobili e vivacissimi, non ha perduto quel suo atteggiamento prudente e riservato nei confronti delle indagini, anche se si tratta di fatti che risalgono ormai a un quarto di secolo fa. Una maledizione per il cronista, a dirla con franchezza, che deve cercare di afferrare allusioni e interpretare silenzi. Ma capire si fa capire, l’ex-capo della Omicidi, eccome. E tira fuori dal cilindro dei suoi ricordi un’altra sorpresa: non è affatto vero, come si era sempre scritto e letto, che i giochi erotici a tre dei marchesi Casati avvenissero solo con amanti occasionali scelti fuori dal loro giro, il bagnino sulla spiaggia o il pescatore, il ragazzo di borgata o il soldato in libera uscita agganciato davanti alla caserma. Rapporti veloci e senza conseguenze, questo sì, con partner che spesso non conoscevano neppure l’identità dell’uomo che offriva tanto generosamente la propria moglie. Limitandosi a guardare e pagando la prestazione, per di più. Come nel caso del militare che aveva abboccato all’esca della bella marchesa nuda tra le dune: «Anna è stata magnifica», aveva poi scritto Camillo Casati nel suo diario, dove annotava con dovizia di particolari le acrobazie sessuali della moglie, che lui si accontentava di ammirare e di fotografare. «Incontrato un militare sulla spiaggia di Fiumicino. Ottimo quel soldato. Date trentamila lire: ben spese». Ma nel famoso diario di pelle verde c’erano anche i nomi di personaggi molto noti del mondo dello spettacolo. E dunque non è verosimile che proprio nessuno sospettasse nulla, nel loro ambiente, del vizietto dei due marchesi: perché non certo quello dello spettacolo è il mondo più adatto per custodire dei segreti. Quali attori erano diventati interpreti dei personaggi che animavano le fantasie erotiche di Camillino, quali erano i nomi custoditi nel suo diario? Questo sì che è un segreto. Perché il vecchio poliziotto è disposto a parlare delle tette della marchesa, ma non a farsi scucire un solo indizio sui nomi dei suoi amanti.

Dottor Gianfrancesco, ma com’è che si era accorto di questa faccenda del silicone?

«Vede, quella sera, appena giunse la segnalazione in questura, ci precipitammo in quello splendido attico dei Parioli. Senza poter supporre le cause dell’accaduto, naturalmente. Io anzi, a giudicare dai nomi, dalla zona e dal lusso dell’abitazione, c’ero arrivato pensando piuttosto a un tentativo di rapina o magari di sequestro finiti tragicamente. Fui il primo a entrare nello studio e a vedere quello spettacolo orrendo: lei riversa su una poltrona con lo sguardo incredulo, il marchese sul pavimento accanto al suo fucile e il ragazzo, Minorenti, contorto dietro un tavolino rovesciato. Non c’era tanto sangue, tolto quel particolare macabro dell’orecchio del marchese che pencolava dalla cornice di un quadro, dove l’aveva scagliato e appiccicato un proiettile. Ma alla donna sporgeva un seno dall’abito che era stato squarciato da uno dei colpi, e dalla ferita sul seno usciva una sostanza bianca e densa, che non riuscivo a capire cosa fosse. Così chiamai subito il medico legale, che era un vecchio amico, per farglielo notare. «Non ti preoccupare» mi disse lui con un ghigno, «è solo silicone». Io ero incredulo, era la prima volta che vedevo una cosa del genere».

E di casi così clamorosi, in tanti anni di Squadra Mobile, ne aveva visti altri? «Clamoroso? Veramente, per noi come polizia, la vicenda Casati non fu un caso clamoroso. Lo sarebbe stato se ci fosse stata un’indagine da fare per accertare i fatti, per chiarire le modalità, per identificare l’assassino. Ma in quel caso era tutto così semplice… Noi ci trovammo davanti a una situazione di fatto, un duplice omicidio seguito dal suicidio dell’assassino. Una volta chiarito l’accaduto con l’autorità giudiziaria e con il perito legale che intervenne sul posto, il nostro lavoro fu concluso».

Ma lei non si pose delle domande, non si chiese quale molla era scattata nella testa del marchese?

«Certo, logico che davanti a un omicidio l’investigatore si chieda il perché. Proprio come fa la gente. Io non posso mai dimenticare un cronista che c’era allora a Roma, Michele Ragusa, che poi ebbe una crisi mistica, si convertì e adesso è un religioso, ha addirittura creato un ordine che sta a Soriano del Cimino. Beh, lui davanti a un omicidio si chiedeva sempre: ma perché è successo? Per quale motivo? E voleva cercare di penetrare le cause vere, recondite, che avevano fatto scattare nel cervello dell’assassino l’impulso di uccidere. Ecco, anche l’investigatore, anche il poliziotto si chiede il perché. Anche noi ce lo siamo posto; ma da un punto di vista di polizia giudiziaria, il caso era già risolto. Il marchese aveva ucciso moglie e amante della moglie, poi si era tolto la vita a sua volta».

E lei se la diede subito una spiegazione del perché del delitto?

«Sì, una volta ascoltato il personale di servizio e identificato il giovane Minorenti, fu facile capire il movente. Penso che il marchese Casati si fosse reso conto che quella di sua moglie con un ragazzo tanto più giovane non era la solita avventura, che c’era qualcosa di più. Così esplose la sua gelosia. Poi, certo, un ruolo importante nel clamore suscitato dal delitto lo giocò la stampa: che dato il nome dei protagonisti della vicenda, non dico che la montò, ma ne parlò molto a lungo. Però ripeto: come indagine, per noi poliziotti, è importante il caso che richiede un’investigazione. Il delitto Casati fu clamoroso, per la gente, anzi morboso, soprattutto a causa delle fotografie della marchesa nuda che saltarono fuori, e poi per via del diario…».

Le trovò lei le fotografie? È vero che erano tutte Polaroid, a sviluppo istantaneo, e che erano almeno millecinquecento, come scrissero i giornali dell’epoca?

«Sì, le trovai chiuse in un cassetto della scrivania dello studio, dove avvenne il delitto. Quelle che vidi io erano solo una parte, ma complessivamente non erano così numerose: sono state riportate parecchie esagerazioni in merito a quella vicenda».

Tra le foto, ce n’erano comunque di molto più esplicite di quelle pubblicate dai quotidiani. Gli eredi di Annamaria Fallarino chiesero e ottennero il sequestro di una pubblicazione oscena intitolata “II diario della marchesa”, con i primi piani dei suoi genitali. Si ricamò sul fatto che lei era angosciata dalle eccessive dimensione di certi particolari anatomici, che invece eccitavano molto il marchese e i suoi partner. E, scrisse qualcuno sulla base di chissà quali informazioni, anche “le” sue partner.

«Io, veramente, di fotografie della marchesa con altre donne non ricordo di averne viste. Ma come ho detto, ne trovai solo alcune. E in quei primi momenti la mia attenzione maggiore era per i tre cadaveri, il mio compito era di chiarire cosa era accaduto in quella stanza».

Dottor Gianfrancesco, cosa fece lei appena si trovò davanti ai cadaveri? Succede anche nella realtà come nei film americani, dove il detective non tocca nulla e se deve spostare qualcosa lo fa usando una penna, o magari un fazzoletto?

«Sì, è vero, non sì tocca assolutamente nulla, il buon investigatore lascia tutto come sta. E poi con minuzia, ma sempre senza spostare niente, fa il sopralluogo. La prima cosa importante di un’indagine è il sopralluogo».

E dopo arrivarono la scientifica, il medico legale, il magistrato?

«No, in genere la scientifica arriva insieme a noi, entra e fotografa tutto. Ma senza toccare niente finché non arriva il magistrato e dà l’autorizzazione al proseguimento delle indagini, quindi si raccolgono i vari reperti. Per non inquinare le tracce, bisogna evitare al massimo che sul posto del delitto vada gente inutile».

Quel giorno, nel pomeriggio, aveva già raggiunto l’attico di via Puccini la giovane Anna Maria Casati, nata dal primo matrimonio del marchese e sua unica erede. Il padre, che stava aspettando nello studio la moglie e Massimo Minorenti, le fece dire dal personale di servizio che non poteva vederla, e lei andò via. Tornò in serata, dopo il fattaccio?

«Sì, arrivò quella sera stessa. E ricordo perfettamente che quella ragazza, nonostante fosse sconvolta da avvenimenti tanto drammatici, mi fece una buonissima impressione. Era calma, controllata, molto riservata».

Nei giorni successivi al delitto, fra le più svariate ipotesi riportate dai giornali, ci fu anche quella di un tentativo di estorsione da parte del Minorenti, che avrebbe scatenato la furia del marchese Casati. Successivamente, però, questa ipotesi fu scartata. Si accertò solamente che il giovane, nei giorni in cui i due amanti stavano per affittare un appartamentino con il consenso apparente del marito di lei, avrebbe voluto che gli fosse intestato un autosalone. O che sarebbe stata lei, la marchesa, a chiedere al marito di intestarglielo.

«Sì, ricordo abbastanza bene questa ipotesi. E anche altre, che però non entrarono nelle nostre indagini. Una volta chiarite modalità e tempi del delitto, ogni particolare accertato successivamente veniva riferito al magistrato, toccava a lui svilupparli e approfondirli».

Un altro risvolto polemico riguardò gli aspetti ereditari dell’immenso patrimonio della famiglia Casati: se il marchese fosse deceduto anche solo un istante prima della moglie, questa ne sarebbe diventata teoricamente l’erede, quindi i parenti di lei avrebbero avuto diritto a una parte di quella fortuna. Invece poi fu stabilito che morì prima la donna, e che dunque l’intera eredità andava alla figlia del marchese. Ma come fu possibile accertarlo?

«Lo accertò il medico legale, anche se non credo che esistano metodi scientifici per stabilire il momento della morte con tanta precisione. In ogni modo, in quel caso bastava il buon senso, per presumere cosa era successo: Casati prima scaricò il fucile contro la moglie e contro Massimo Minorenti; e il colpo che uccise lei fu quasi a bruciapelo, probabilmente la fulminò sull’istante. Poi solo dopo averli uccisi, ricaricò l’arma per togliersi a sua volta la vita».

L’Italia del 1970 era più ingenua e più puritana di quella di oggi. Bastava un nudo a suscitare scalpore. È per questo motivo, secondo lei, che il delitto Casati sollevò tanta curiosità?

«Io direi di no, penserei che furono piuttosto la notorietà dei personaggi, la loro vita certamente particolare, l’ambiente in cui il delitto avvenne a produrre un’eco così vasta. E poi quelle fotografie, naturalmente, e il contesto in cui erano state fatte, e le loro finalità: perché se una donna si apparta su una spiaggia isolata e prende il sole nuda, beh, sono fatti suoi. Ma se poi qualcuno la ritrae in pose porno o quantomeno osé e queste foto vengono utilizzate per suscitare un interesse preciso, allora la faccenda cambia aspetto. Io penso che anche al giorno d’oggi una vicenda del genere se i personaggi coinvolti fossero altrettanto noti e se risvolti e retroscena fossero simili, susciterebbe nella gente un interesse identico a quello di allora».

Il sole nuda sulla spiaggia, dice lei. Ma le foto scattate da Camillo Casati a sua moglie non erano fatte tutte solo sulle spiagge…

«Quelle che trovai allora io nello studio, sì. E ripeto, se non fosse poi venuta fuori tutta la faccenda dei loro rapporti sessuali a tre, neppure in quel periodo avrebbero fatto tanto scalpore le fotografie della marchesa nuda. Fu solo dopo, una volta pubblicate dalla stampa le rivelazioni del diario verde, che quelle istantanee acquistarono tutta un’altra dimensione».

Del diario di pelle verde si seppe fin dal giorno successivo al delitto. Fu lei a trovarlo?

«Sì, lo vidi la sera stessa del delitto, durante il sopralluogo. Si trovava sulla scrivania dello studio dove avvenne il delitto. Un diario grande come una cartellina portadocumenti, con la copertina di pelle verde, scritto a mano dal Casati con una grafia chiara. Una scoperta importante, il diario: perché la sua lettura, insieme al ritrovamento delle fotografie, ci permise di ricostruire subito gli antefatti e quindi di avere una spiegazione di ciò che era accaduto. Ma era anche una scoperta delicata, da gestire con grande riservatezza, per i nomi che conteneva e per i dettagli di certi resoconti, assai più scabrosi delle poche frasi che erano state pubblicate all’epoca dai giornali».

Conserva ancora qualche ricordo preciso?

«Sì, eccome, ma non lo posso dire. Non l’ho mai voluto fare: non solo per la riservatezza dell’indagine, ma anche per pietà verso quella gente finita com’era finita. E poi per tutelare la privacy delle persone indicate nel diario che fino a prova contraria, anche avendo avuto uno o più rapporti sessuali con la marchesa, non avevano commesso alcun reato».

Ci vuol poco a capire che sarebbe inutile insistere: sono trascorsi ormai ventiquattro anni dal giorno del delitto, ma il tempo e la pensione non bastano ad allentare i sentimenti rigorosi di rispetto e di riservatezza di questo vecchio poliziotto che ha insegnato a interi stuoli di giovani funzionari, all’Istituto di polizia, il senso del dovere di un lavoro difficile. Dice solo, Valerio Gianfrancesco, che comparivano i nomi di personaggi famosi, di attori noti, tra i partner della “marchesa al silicone” (chissà se almeno loro lo sapevano, se se ne rendevano conto, visto che il modo e l’occasione non gli mancavano) e del marchese guardone. E aggiunge che c’erano resoconti assai più scabrosi di quelli pubblicati, che pure non erano poca cosa: a cominciare dai giorni immediatamente successivi al matrimonio, durante il viaggio di nozze, quando Camillino scrive sul suo diario di aver spinto un cameriere dell’albergo nella doccia della moglie, e che lei ha capito subito, è stata al gioco, e che lui si è divertito tanto. Contento lui… Ma è vero che era sempre e soltanto il marchese a scegliere i partner della moglie, com’era stato scritto all’epoca? Si capiva questo aspetto delloro rapporto, dalle annotazioni sul diario?

«No, e anzi non credo proprio che fosse solo lui a scegliere e imporre regole e amanti, lei stava perfettamente al gioco».

Tutti, però, descrivevano Anna Fallarino prima del matrimonio con Camillo Casati come una ragazza di provincia acqua e sapone, timorata e quasi schiva… Il suo primo fidanzato, un giovane macellaio che lei aveva conosciuto appena giunta a Roma, ha raccontato che tutte le sere alle 21 doveva riaccompagnarla a casa, e ha fatto capire che non c’era verso di toccarla con un dito. Avrebbe voluto sposarla, se proprio i genitori di lui non si fossero opposti. «Per motivi loro», ha precisato senza aggiungere altro, rimanendo nel vago. E questo sembra l’unico campanello d’allarme, l’unica nota stonata nella biografia della giovane donna, chissà che cosa pensavano di lei i suoi mancati suoceri. Più o meno le stesse cose del fidanzato ha riferito sul suo conto il suo primo marito, l’industriale Giuseppe Drommi. «Prego tanto la Madonnina che ci faccia sposare presto», gli scriveva lei. Com’è possibile che si sia trasformata all’improvviso in un mostro del sesso? Oppure erano solo apparenza gli atteggiamenti di prima?

«Dal diario, per la verità, non si capisce bene se fosse stato il Casati a portarla su quella strada. Lui si limitava ad appuntare degli incontri, e a descrivere come si erano svolti».

Dottor Gianfrancesco, che fine ha fatto quel diario, una volta conclusa l’indagine, visto che non si trattava di un corpo di reato?

«Intanto, dal momento in cui io lo trovai e lo lessi, quei diario non rimase nelle mie mani nemmeno un’ora. Lo presi io materialmente, lo portai nel mio ufficio giusto il tempo di sigillarlo, e lo diedi al magistrato. Per non correre rischi, per evitare che potessero dire un domani, di qualsiasi indiscrezione, “uscita di lì”. Poi, probabilmente il magistrato lo ha consegnato ai familiari, agli eredi, una volta archiviato il caso».

In simili storie di sesso e di sangue, entra spesso anche la droga. Un ingrediente quasi sempre presente in orge, festini, triangoli, come se questi fossero irrealizzabili senza cocaina o almeno senza spinelli… Nel caso del delitto Casati, invece, le cronache dell’epoca non hanno mai accennato a nulla del genere. Lei sospetti non ne ebbe, allora?

«Non credo, almeno per quanto mi ricordi. In ogni caso, quella splendida casa che si affacciava su Villa Borghese, fu perquisita da cima a fondo. E di stupefacenti non fu trovata proprio alcuna traccia. No, non erano né la cocaina né altri stupefacenti a spingere i Casati verso i loro triangoli erotici».

Di droga ne circolava già molta in quegli anni, a Roma?

«Come no. Anzi, ricordo perfettamente che del primo episodio di spaccio di stupefacenti a Roma mi ero occupato proprio io: sarò stato il 1964 o il ’65 e io allora stavo alla Squadra Mobile. Ci stava anche Ferdinando Masone, che oggi è questore di Roma, e che venne alla Mobile quando io già ero là da qualche tempo. Fu un caso clamoroso, per l’epoca: erano due inglesi, che spacciavano marijuana a piazza Vittorio. La vendevano in un camper parcheggiato nella piazza. Furono i primi due arresti per spaccio, e i giornali diedero grande risalto a questo avvenimento».

Niente droga ma solo follia, insomma, nel delitto Casati. E lei si rese conto fin dall’inizio di trovarsi di fronte alle tre vittime di un dramma della gelosia?

«Beh, non ci volle molto. C’era anche il biglietto lasciato dal Casati, scritto sul foglietto di un calendario, con una donna nuda anche quello… Lui aveva capito che tra sua moglie e il ragazzo era nato del tenero. Altrimenti, se si fosse trattato di un amante occasionale, come tanti altri, il marchese non avrebbe avuto motivo né intenzione di vendicarsi. Evidentemente, invece, tra la Fallarino e il Minorenti si erano instaurati rapporti affettivi. Il marchese voleva solo rapporti veloci, che iniziavano e terminavano al massimo entro una settimana. Ecco perché il suo diario conteneva una lunga sfilza di nomi e di storie. Lui era un anormale, a suo modo era molto possessivo, non poteva accettare l’idea che lei si innamorasse di un altro uomo. Tutto, con gli altri, doveva fermarsi al sesso. E quando aveva capito che invece la stava perdendo…».

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