di Giorgio Gandola
Manca l’ultimo metro. Ma non è un dettaglio, è l’essenza di tutto, il colpo di reni per vincere le Olimpiadi o il pezzo di fibra che serve a far funzionare un wifi. Con l’abolizione del segreto pontificio sui dossier, la rivoluzione di papa Francesco per contrastare la pedofilia in tonaca è finalmente concreta, va ben oltre l’omelia vuota del motu proprio Vos estis lux mundi. Il Pontefice passa dal puro marketing all’azione energica, ma per compiere il definitivo salto di qualità serve ancora il metro che fa la differenza: l’obbligo di denuncia.
È un gesto semplice, quasi banale: chiedere ai vescovi o ai sacerdoti che vengono a conoscenza di casi di pedofilia di denunciare i reati alla magistratura. Un piccolo passo per lui, ma ci sono duemila anni di consuetudini a impedirlo. Ci si avvicina, si appoggia la mano alla maniglia ma quella porta rimane chiusa. Con l’abolizione del segreto pontificio è crollato un muro, da domani gli atti delle indagini previe (obbligatorie per il diritto canonica a carico di preti accusati di violenza sessuale) non saranno più coperti da sigilli di ceralacca e le famiglie delle vittime sapranno almeno quali sono stati i provvedimenti presi a carico dei responsabili. Una decisione storica che va incontro alle richieste delle associazioni mondiali delle vittime degli abusi del clero. Il problema è che, se nessun carabiniere o nessun pm viene a conoscenza di quelle inchieste, le preziose carte non servono a nulla. Di conseguenza, il metro mancante riguarda anche il Parlamento italiano che dovrà far sua la materia (fin qui lasciata completamente alla Chiesa) e legiferare, adeguandosi all’ordinamento di numerosi Paesi europei. Cioè studiare una legge che obblighi a sua volta il sacerdote, come cittadino italiano, a denunciare il colpevole strappando il sipario dell’omertà scambiata per carità cristiana. Basterebbe copiare Svizzera e Francia, ma l’iter potrebbe essere lungo e accidentato. E presupporre perfino una revisione del Concordato. Campa cavallo.
IL CASO DON GALLI
Un’obiezione legittima a questa sottolineatura ce la facciamo da soli: ma non è la famiglia della vittima a dover denunciare il prete pedofilo? Vero, però questo non accade spesso, soprattutto se quella famiglia è molto cattolica, crede profondamente negli insegnamenti della Chiesa e si affida alla gerarchia ecclesiastica per avere giustizia lontano dai procedimenti penali, che sempre costituiscono un trauma psicologico ulteriore per le vittime. Un esempio illuminante è quello di Alessandro Battaglia, giovane abusato da un sacerdote (don Mauro Galli) a Rozzano, in provincia di Milano. Il fatto accadde nel 2011, per anni la famiglia bussò all’arcidiocesi chiedendo giustizia ma si trovò di fronte al classico muro di gomma fatto di lettere consolatorie, di dilazioni con benedizione incorporata, di ipocrisie curiali.
Solo nel 2014, in assenza di fatti concreti, i genitori si decisero a denunciare ai carabinieri lo scandalo e qualche mese fa don Galli è stato condannato a oltre sei anni di carcere in primo grado. La vicenda non ha impedito che Mario Delpini – allora vicario episcopale che invece di aprire l’indagine previa si limitò a spostare il chiacchierato sacerdote a Legnano, sempre in mezzo agli adolescenti – diventasse arcivescovo di Milano. Con queste nuove norme non solo non sarebbe successo, ma il monsignore sarebbe stato messo sotto inchiesta per omissione d’atti d’ufficio. A questo proposito, la famiglia della vittima è la prima a muoversi dopo la decisione del Papa e chiederà ufficialmente alla Congregazione per la dottrina della fede gli atti del processo canonico a carico di don Galli e il fascicolo riguardante la gestione di Delpini. Un modo concreto per sapere se alle linee di principio seguiranno i fatti.
ANCHE GENOVA SI MUOVE
Anche il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, vuole subito “approfittare dell’abolizione del segreto pontificio” per ottenere i dossier relativo a un parroco del quartiere Albaro accusato di abusi su minori e già indagato dalla diocesi nel 1998. L’obbligo di denuncia aiuterebbe inoltre nella realizzazione di un certificato antipedofilia per il sacerdote che viene trasferito in una parrocchia. Sarebbe equiparabile al casellario giudiziario, se ci sono pendenze è giusto saperlo. Ma se l’obbligo non esiste, il certificato risulterebbe forzatamente lacunoso o inattendibile. Senza contare che la Chiesa, per sua natura, si occupa con maggiore profondità dei peccati morali più che dei reati.
Ecco perché manca l’ultimo metro, nella rivoluzione di Francesco. E manca anche qualcosa di molto cristiano: l’impegno a prendersi cura delle vittime concretamente. “Significa intervenire presto con indennizzi adeguati” spiega Francesco Zanardi, presidente di Rete L’abuso. “Parliamo di persone che vivono vite sfasciate a causa delle violenze subite, soffrono di gravi problemi psicosomatici, hanno la necessità di sottoporsi a lunghi percorsi di riabilitazione. E spesso non riescono a reinserirsi, avere un lavoro e relazioni normali, perché distrutti dai traumi. Vanno aiutati a rialzarsi e a vivere”. L’ultimo metro significa tutto.
(trascrizione da La Verità del 19 dicembre 2019)
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