Nel 2011 sorvolò sulle molestie di un prete. Oggi avrebbe l’obbligo di autoaccusarsi
di Giorgio Gandola
Più che Vos estis lux mundi, il motu proprio di Papa Francesco contro la pedofilia nella Chiesa avrebbe dovuto intitolarsi più prosaicamente Repetita iuvant. Perché dogmi, indicazioni e regole dell’ultima lettera vaticana in realtà non sono altro che la riproposizione con differenti termini (e qualche invito operativo in più) del motu proprio precedente sul tema, quel Come una madre amorevole del luglio 2016 che avrebbe dovuto porre argine al dilagare del peccato in tonaca. Se fossimo in Parlamento, li chiameremmo i decreti attuativi di principi tante volte ripetuti e altrettante volte calpestati.
“Voi siete la luce del mondo”, scriveva Matteo nel suo vangelo. E la luce dovrebbe illuminare la verità nei drammi personali di minorenni abusati da preti, troppo spesso messi in un angolo dalle diocesi di riferimento in attesa che entrino nel dimenticatoio. La luce di un percorso virtuoso determinato – come sottolinea quest’ultima lettera apostolica – dall’obbligo di denuncia dei presunti abusi da parte di sacerdoti e chierici alle autorità religiose. Ma tre anni fa il pontefice sottolineava con insolito vigore: “Il Diritto canonico già prevede la possibilità della rimozione dall’ufficio ecclesiastico per cause gravi; ciò riguarda anche i vescovi diocesani, gli eparchi e coloro che ad essi sono equiparati dal diritto. Fra le cause gravi è compresa la negligenza dei vescovi nell’esercizio del loro ufficio, in particolare nei casi di abusi sessuali compiuti su minori e adulti vulnerabili”. Morale: chi insabbia, chi intorbida le acque, sarà punito. L’obbligo di segnalazione era esplicito anche nel 2016. Cosa che non si è quasi mai verificata.
A fare realmente la differenza in difesa delle vittime di violenze sessuali da parte dei preti sarebbe una frase che il Papa non firmerà mai: “I sacerdoti a conoscenza di abusi sui minori dovranno denunciare i fatti contestualmente all’autorità religiosa locale e a quella giudiziaria”. Fino a quel giorno nessun passo in avanti potrà essere considerato tale. E non si tratta di pretese originali, perché in numerosi Paesi del mondo l’ordinamento giudiziario prevede l’obbligo di denuncia per i prelati. Per introdurlo in Italia si dovrebbero rivedere i Patti Lateranensi.
Nel motu proprio di Papa Francesco la vera novità è l’identificazione di un coordinatore delle indagini, l’arcivescovo metropolita che riceve dalla Santa Sede il mandato ad investigare nel caso del coinvolgimento di un vescovo per comportamenti omissivi, per coperture indebite, per non avere voluto perseguire l’abuso di cui era venuto a conoscenza. Molti giornali, nell’esemplificare il ruolo centrale in questo tipo di indagine, hanno fatto l’esempio dell’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. E è giusto perché nel caso in cui avvenisse un abuso coperto da un suo sottoposto sarebbe proprio lui a dover raccogliere gli indizi e “trasmettere alla Santa Sede un’informativa sullo stato delle indagini entro 30 giorni”.
Tutto ciò ha un aspetto singolare perché proprio Delpini, nel caso dell’abuso su un ragazzo di 15 anni da parte di don Mauro Galli (condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi), in qualità di vicario episcopale spostò il prete da Rozzano a Legnano senza approfondire la vicenda e senza aprire l’obbligatoria indagine previa. A tal punto da venire criticato dall’allora arcivescovo Angelo Scola. L’abuso, risalente al 2011, venne alla luce sono quattro anni dopo, quando la vittima lo denunciò ai carabinieri.
Secondo il motu proprio del Papa, oggi monsignor Delpini dovrebbe indagare sé stesso. Qualche volta la luce del mondo passa dalle fessure più inattese.
(trascrizione da La Verità del 11 maggio 2019)
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