di Francesca Palazzi Arduini
Ce ne parla Federico Tulli, unico giornalista ad aver condotto un’inchiesta completa sui casi italiani dall’unità ai nostri giorni.
Federico Tulli, giornalista e scrittore, ha pubblicato nel 2010, per L’Asino d’oro edizioni, il libro Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro. Nel 2014, con la stessa editrice, ha pubblicato: Chiesa e pedofilia, il caso italiano. I due libri inquadrano il problema nel più vasto panorama della corruzione all’interno della Chiesa, a livello mondiale e poi nazionale, esaminando anche i legami del fenomeno della pedofilia del clero con la tradizione culturale religiosa, rispetto allo status del bambino come persona, alla concezione della segretezza e del sacro, alla sessuofobia e omofobia.
L’abbiamo incontrato per approfondire l’argomento, in quanto unico giornalista ad aver avuto il coraggio di pubblicare due inchieste sui casi italiani, cercando tra silenzi, omissioni e bugie.
Il film “Il caso Spotlight” ha vinto lo scorso marzo l’Oscar come miglior film e miglior sceneggiatura. Ciò ha riportato alla ribalta il tema della pedofilia del clero cattolico nel mondo; abbiamo tutti notato che alla fine del film, nei titoli di coda che riportavano un elenco dei casi internazionali più discussi, non era presente nessun caso italiano. Interpellando il sito che costituisce il database più noto negli USA sui casi di pedofilia, BishopAccountability.org, ci è stato risposto che dall’Italia non ricevevano indicazioni sui casi, in effetti sulla stampa italiana le segnalazioni raramente compaiono in prima pagina e vengono rilanciate in altre lingue. Cosa ne pensi?
L’attenzione della stampa e la sensibilità dell’opinione pubblica è particolarmente sviluppata nei Paesi in cui le istituzioni hanno fatto luce sulla portata della diffusione di questa tipologia di crimine nella società. Mi riferisco, solo per citarne alcune, alle Commissioni d’inchiesta – governative oppure miste Stato/Chiesa – che in Irlanda, Stati Uniti, Olanda, Belgio, Australia, Germania hanno dato un nome, rimasto segreto per decenni, a migliaia di sacerdoti pedofili. Evidenziando complicità a tutti i livelli, dei vescovi con i preti pedofili, delle autorità civili con i vescovi, e restituendo dignità, purtroppo però raramente giustizia per via della prescrizione, a decine di migliaia di vittime a loro volta inascoltate per decenni.
In Italia né lo Stato né la Chiesa hanno mai preso in considerazione l’idea di un’indagine su scala nazionale. Nemmeno è stata mai avvertita l’esigenza quanto meno di mappare e monitorare il fenomeno della pedofilia in generale e di quella clericale in particolare, con l’obiettivo di fare prevenzione. Ho chiesto di persona a un ministro per le Pari opportunità (Mara Carfagna) e al portavoce della Santa Sede (mons. F. Lombardi) come mai l’Italia – dove vivono oltre 30mila sacerdoti – non prende esempio da altri Paesi molto simili al nostro per tradizione cattolica: perché da noi il problema non sussiste, mi è stato risposto da mons. Lombardi. Ho scritto Chiesa e pedofilia, il caso italiano pure per verificare la fondatezza della sua replica e dopo quasi 300 pagine di inchiesta e di analisi sono giunto a una conclusione opposta. Avvalendomi, oltre ai pareri di esperti in diverse discipline (storia, psichiatria, giurisprudenza, filosofia politica, ecc.), delle durissime conclusioni della Commissione Onu sui diritti dell’infanzia (febbraio 2014) che nessuno in Italia tranne me si è preso la briga di tradurre integralmente e rendere pubbliche in italiano. Tuttavia anche solo i numeri che si ricavano mettendo insieme le notizie di stampa – invero frammentate, scarne e spesso relegate in cronaca locale – lasciano intuire che c’è un problema serio da affrontare.
Dal 2000, 170 sacerdoti sono stati condannati in via definitiva per abusi. Oltre 60 sono quelli denunciati oppure in attesa di una sentenza definitiva. La maggior parte delle 226 diocesi italiane è stata interessata da almeno un caso. E questi sono i fatti noti. Ciò che non sappiamo è quanti sono e dove vivono oggi i sacerdoti italiani dimessi dallo stato clericale in seguito a una sentenza di condanna per abusi emessa dalla Congregazione per la dottrina della fede (Cdf). I processi canonici sono soggetti a segreto pontificio e una volta cacciati dalla Chiesa nessuno si prende la briga di fare i loro nomi alla polizia.
Nemmeno la Commissione Onu sui diritti dell’infanzia è riuscita a ottenere questa informazione sebbene la Santa Sede (di cui la Cdf fa parte) abbia ratificato la relativa Convenzione che vincola i Paesi aderenti a emanare leggi che tutelino in ogni modo i diritti e l’incolumità dei bambini. È facile immaginare quanto invece siano a rischio diritti e incolumità dei bambini laddove ad un pedofilo è consentito di circolare liberamente mantenendo l’anonimato. Stiamo parlando di un profilo criminale e patologico equiparabile a quello di un serial killer – non si ferma fino a quando non viene preso e isolato -, tuttavia la priorità per la Chiesa e per papa Bergoglio quando annuncia la “tolleranza zero”, è che il prete stia lontano dai luoghi di culto: perché l’abuso di un minore è un peccato in violazione del VI comandamento, quindi un’offesa a Dio. Non c’è un giornale italiano che abbia mai evidenziato questo aspetto che invece è centrale perché la pedofilia non è un delitto contro la morale, ma un crimine violentissimo contro esseri umani in carne e ossa.
Nel film “Il caso Spotlight” è stato dato rilievo alla linea giornalistica del Boston Globe, per la quale era necessario denunciare il “sistema” di coperture dato ai casi di pedofilia da parte di preti, svelando la responsabilità dei vescovi in questa trama di copertura e spostamenti dei preti predatori verso parrocchie sempre nuove. La denuncia del sistema richiedeva un’indagine completa sui rapporti tra denuncianti, preti, vescovi, autorità di polizia e della magistratura. In Italia è stato mai fatto qualcosa di simile?
Sono state fatte diverse inchieste su singoli casi, sono state raccontate tante storie in alcuni libri, ma un lavoro d’inchiesta capillare come quello condotto dal team di Spotlight ha scarse possibilità di essere realizzato. Viviamo nel Paese in cui un magistrato, tra i massimi esperti europei nel campo della lotta alla pedofilia è stato messo sotto inchiesta dal ministro della Giustizia per aver evidenziato la scarsa propensione dei vescovi italiani a collaborare con chi indaga su questi crimini. A denunciare, insomma, alle autorità civili i presunti casi di cui vengono a conoscenza. È accaduto nel 2010 all’allora capo del pool antimolestie di Milano, Pietro Forno.
Intervistato da Il Giornale nel pieno degli scandali che stavano sconvolgendo mezza Europa, Forno disse tra l’altro (cito): «Nei tanti anni in cui ho trattato l’argomento non mi è mai, e sottolineo mai, arrivata una sola denuncia né da parte di vescovi, né da parte di singoli preti, e questo è un po’ strano. La magistratura quando arriva a inquisire un sacerdote per questi reati ci deve arrivare da sola, con le sue forze. E lo fa in genere sulla base di denunce di familiari della vittima, che si rivolgono all’autorità giudiziaria dopo che si sono rivolti all’autorità religiosa, e questa non ha fatto assolutamente niente». Qualche giorno dopo il magistrato si ritrovò a dover rendere conto delle sue affermazioni agli ispettori spediti dal ministro Alfano per verificare che non avesse divulgato segreti d’ufficio.
In Europa il numero delle richieste di sbattezzo è aumentato in seguito agli scandali per pedofilia, anche in coincidenza con inchieste scomode, anche televisive, si pensi al documentario della BBC “Sex Crimes and the Vatican” del 2006. Proprio in Irlanda, nel 2010, dopo aver raccolto centinaia di migliaia di moduli di sbattezzo, il sito “Countmeout” chiude i battenti per il rifiuto della Chiesa irlandese di accettare le notifiche. Quanto pensi avrebbe potuto incidere in Italia, ad esempio rispetto alla campagna omofoba condotta da una parte del clero contro le unioni civili (vedi quella del cardinal Bagnasco), una più esaustiva informazione sui reati di pedofilia commessi da preti omosessuali sessualmente repressi?
In Italia è cosa rara l’informazione sulle cose di Chiesa indipendente dalla Chiesa stessa. Tutte le notizie principali (politica, economia, finanza e scandali) che passano attraverso i media generalisti sono filtrate dai “vaticanisti”, giornalisti cioè accreditati e formati presso la Sala Stampa vaticana. Il quadro si è ancor più definito negli ultimi tre anni con l’ascesa del gesuita Bergoglio al soglio pontificio. Papa Francesco e il suo staff curano in maniera maniacale la comunicazione perché devono ricostruire l’immagine internazionale della Chiesa cattolica e apostolica romana devastata dai crimini compiuti durante i pontificati di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger. La mala-gestione della Curia romana, dello Ior e della pedofilia, oltre alla crociata in difesa dei cosiddetti valori non negoziabili il più delle volte condotta sulla pelle delle donne (aborto, fecondazione assistita), sono risultati fatali a Benedetto XVI e hanno acuito notevolmente il distacco dei fedeli dalla Chiesa. Basta citare il caso dell’Irlanda che di recente non a caso ha visto la vittoria dei sì al referendum in favore dei matrimoni gay. Nel 2005, quando Ratzinger si è insediato, il 67% della popolazione irlandese si dichiarava cattolica. Nel 2013 l’indice era sceso al 49%. In mezzo due grandi inchieste governative avevano scoperchiato oltre 50 anni di abusi insabbiati dalla Chiesa irlandese con la complicità di numerose istituzioni laiche, ai danni di circa 35mila piccoli fedeli e studenti delle scuole cattoliche. Uno studio commissionato nel 2012 dalla Pontificia accademia di Roma ha calcolato che il danno d’immagine provocato dalla sola pedofilia nel biennio 2010-2011 è costato alla Santa Sede 2mld di dollari in termini di mancati introiti: meno fedeli = meno offerte, meno testamenti, meno donazioni, ecc. In due parole: meno potere.
In Italia, nonostante le Chiese vuote e dismesse, il calo inesorabile dei battesimi e dei matrimoni concordatari, l’aumento dei divorzi e delle convivenze, gli esoneri crescenti dall’ora di insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, la pesante ingerenza del Vaticano e della Conferenza episcopale nella vita socio-politica rimane costante. E qualunque dichiarazione di papa Bergoglio ci viene proposta in maniera acritica e senza alcun contraddittorio.
Complice la politica genuflessa; anche la Rai, in primis, che svilisce il ruolo di servizio pubblico di uno Stato laico ingolfando di papi, preti e monsignori i suoi programmi di intrattenimento e informazione. E complici, come dicevo, i media generalisti che tranne rari casi (il Corriere della Sera ad esempio, riguardo l’affaire Ior) raccontano in maniera del tutto parziale, cioè solo dal punto di vista del Vaticano, le situazioni di criticità che riguardano tutto ciò che accade all’interno e in “prossimità” delle mura leonine. E poi ci sono i giubilei, le beatificazioni e le canonizzazioni. Veri e propri strumenti di auto-promozione a spese del contribuente italiano, glorificati dai media come se si trattasse del primo passo dell’uomo su Marte.
Uno studioso e politico italiano appartenente alla destra tradizionalista cattolica, Massimo Introvigne, ha dichiarato: “L’età della pubertà varia nei singoli casi, ma le stesse fonti – ai fini statistici – considerano “pedofilia” l’attività sessuale con minori di undici anni. Quando si parla di “pedofilia” per tutti i casi di rapporti sessuali di sacerdoti con minorenni si dice, semplicemente, una sciocchezza. Un sacerdote di trent’anni che scappa con una parrocchiana di sedici viola certamente la morale cattolica e secondo le leggi di molti paesi commette anche un reato, ma non è certamente un pedofilo. Né lo è, tecnicamente, chi va con una dodicenne per quanto il suo comportamento sia ripugnante e sia più che giusto sanzionarlo.” Nel tuo libro ci sono pagine importanti sulla concezione del bambino battesimato, sull’età della comunione e sulla confessione…
Introvigne cita a sostegno delle sue affermazioni sulla pedofilia il Dsm, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Ma Introvigne è un sociologo, non un medico quindi ha una visione molto superficiale. Io nei miei due saggi per chiarire a chi legge cosa è la pedofilia intervisto medici, scienziati e ricercatori. Professionisti che hanno avuto in cura vittime e carnefici. Ad esempio, lo psichiatra e psicoterapeuta Domenico Fargnoli evidenzia i tanti errori di fondo del Dsm. In particolare spiega che ciò che conta, secondo gli psichiatri americani, è il controllo razionale cosciente, improntato a valori morali di rispetto per l’infanzia, su di una situazione di conflitto intrapsichico.
Dall’allusione all’implicazione morale si capisce perché il cattolico Introvigne si ispira al Dsm. E ancora, per farsi un’idea dell’attendibilità di certe fonti, se il Dsm-IV, come sottolinea lo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, equipara la pedofilia al voyeurismo – come se fosse la stessa cosa collezionare mutandine e violentare un bimbo di 4 anni – l’ultima versione del Manuale distingue fra pedofili che «“desiderano” fare “sesso” con bambini e quelli che mettono in atto i loro “desideri”». In quest’ultima categoria rientrano i pedofili criminali, colti con le mani nel sacco. Questa distinzione è subdola perché prelude a una normalizzazione della pedofilia da considerare un orientamento sessuale come un altro. Un’idea che coincide niente affatto casualmente con quella del catechismo della Chiesa cattolica che parla di sesso fuori del matrimonio, masturbazione, pornografia e stupri di donne e bambini come se fossero la stessa cosa: sono tutte «offese alla castità». Cioè, Introvigne, il catechismo e il Dsm non distinguono la sessualità umana che in estrema sintesi è rapporto e desiderio, dalla pedofilia che in quanto violenza non è mai sessualità. E soprattutto parlando di pedofilia come di attività sessuale “dimenticano” che il bambino non ha sessualità.
C’è dunque di fondo una visione distorta della realtà umana del bambino. Un annullamento, per dirla in termini psichiatrici. Perché la sessualità comincia alla pubertà con lo sviluppo degli organi genitali, prerequisito indispensabile per poter parlare di sessualità. Prima c’è una dimensione di rapporto affettivo, profondo e potente che può essere con il padre, la madre, il fratello, l’amico o gli insegnanti. È di questa dimensione che “approfittano” i criminali pedofili. E qui entra in gioco una grande ambiguità che è tutta all’interno del pensiero religioso e che consiste nel farsi chiamare “padre” da parte dei sacerdoti. Per un bambino che vive una situazione familiare difficile – le vittime preferite dei pedofili – questo appare come un tentativo di ricostruire almeno il rapporto con il genitore, che però non è reale perché nessun prete è padre di nessuno.
È questa ambiguità “calcolata” che apre la strada alla violenza pedofila celata dietro una richiesta affettiva del bimbo. Ed è questa una delle tante drammatiche confusioni che sono state fatte sulla figura del bambino, per cui poi può essere torturato, violentato senza che sia considerato un crimine particolarmente grave. Al punto che spesso abbiamo sentito dire a degli uomini di Chiesa che è il bambino che provoca il sacerdote. Difatti come viene raccontato nel film “Spotlight”, c’è chi ha ritenuto sufficiente trasferire i preti violentatori da una diocesi all’altra. Non proprio una manifestazione d’interesse per le vittime.
A completamento del quadro cito una frase pronunciata nel gennaio del 2014 da papa Francesco durante un’udienza generale: «Un bambino battezzato non è lo stesso che un bambino non battezzato». Questo pensiero discriminatorio se da un lato “stranamente” non ha stimolato l’attenzione dei media, dall’altro ci aiuta a scoprire che le radici della complicità morale e materiale delle istituzioni vaticane con i preti pedofili affondano nella cultura cattolica. In questa frase c’è l’idea che in fondo il bambino non sia ancora un essere umano per cui, appunto, gli si può fare quel che si vuole. Nella quarta di copertina di Chiesa e pedofilia, il caso italiano ho voluto mettere la frase molto significativa con cui la psicoterapeuta e neonatologa Maria Gabriella Gatti commenta l’affermazione del papa: «Il problema è che nel cattolicesimo è sempre mancato il rapporto uomo-donna, e con esso si è sempre annullato il discorso della nascita umana, perché il bambino per la Chiesa non ha identità: l’identità gliela dà il battesimo».
Nel film “Il caso Spotlight” si racconta dei contatti intercorsi tra la redazione e Richard Sipe, l’ex prete studioso di pedofilia nel clero, autore del libro “Il mondo segreto” sulla sessualità dei preti. Dalle sue ricerche condotte tra il 1960 e il 1985 sul clero, la percentuale di preti pedofili era del 6%, mentre i preti che nonostante il voto di celibato avevano rapporti sessuali con donne era di circa il 25%, e quelli omosessuali era del 15%.
In una famosa nota sul blog di Alessandro Capriccioli (Metilparaben), nel 2007 si irrideva alla dichiarazione di Don Fortunato Di Noto il quale dichiarava che contrariamente a quanto diceva la stampa, i casi di pedofilia in Italia imputabili a preti erano solo l’1% del totale. Ciò in realtà dava come risultato che i preti erano dieci volte più pedofili dell’italiano medio. Cosa è cambiato da allora nei dati sulla pedofilia nel nostro Paese?
Mentre all’estero, penso alla Gran Bretagna, per monitorare il fenomeno della pedofilia istituzioni e associazioni private collaborano alla costruzione di reti di conoscenze, di scambio e condivisione dei dati, in Italia, al di là delle dichiarazioni di principio, poco o nulla è stato fatto dai diversi governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Il risultato è che i dati disponibili sono pochi e lacunosi, ottenuti più che altro grazie all’iniziativa di singole associazioni come il Telefono Azzurro. Non rendono pertanto conto di un fenomeno che rimane in larghissima parte sommerso, anche a causa della sua natura, nemmeno le cifre del ministero di Giustizia secondo cui in carcere si trovano oltre 1300 pedofili e i bambini abusati sono circa 150 l’anno.
Il punto è che l’abuso su minori in molti casi avviene in contesti sociali legati a istituzioni come la scuola o la chiesa, le quali, per tutelarsi dal grave danno di immagine che ne conseguirebbe, hanno spesso la tendenza a insabbiare episodi di questo tipo. Anche le violenze che avvengono in ambito familiare difficilmente vengono segnalate. Telefono azzurro ha stimato che per ogni denuncia che arriva in commissariato ci sono almeno 140 casi che rimarranno per sempre sconosciuti.
Un discorso simile vale per le statistiche dei pedofili intercettati dalle autorità ecclesiastiche. Come detto in precedenza, la Santa Sede oltre ai nomi dei preti pedofili non fornisce dati globali sul fenomeno. Per farsi un’idea ci si può affidare ad alcuni studi approfonditi realizzati a livello locale, come quello del John Jay College of Criminal Justice di New York pubblicato nel 2004 e commissionato dalla Conferenza episcopale Usa sulla scia dell’inchiesta di Spotlight del 2002. Secondo la ricerca nei 50 anni precedenti oltre il 4% dei sacerdoti americani aveva compiuto almeno un abuso. Le critiche e i distinguo suggeriti da Introvigne riguardano proprio questa statistica. A lui farei rispondere direttamente da papa Francesco: «Dati attendibili valutano la pedofilia dentro la Chiesa al livello del due per cento» dice Bergoglio in un articolo di Eugenio Scalfari su Repubblica (luglio 2014). Vale a dire una percentuale da 20 a 200 volte più elevata di quella stimata riguardo le professioni più a rischio: quelle che si svolgono a contatto con i bambini (educatore, allenatore, maestro, ecc).
L’affermazione di Bergoglio non è mai smentita dalla Santa Sede a differenza di altre riportate nello stesso articolo da Scalfari. In pratica, in base alla percentuale espressa dal papa, solo in Italia, dove vivono circa 30mila sacerdoti, i pedofili in abito talare potrebbero essere almeno 600. Se pensiamo – come peraltro non fa mai nessuno di coloro che si affrettano a distinguere lo stupro di una bambina di 11 anni da quello di una di 13 – che l’abuso è un crimine seriale e che ci sono preti pedofili che hanno confessato oltre 130 stupri (è il caso di padre Geoghan che ha dato il via all’inchiesta di Spotlight) allora forse si può iniziare a intuire la reale dimensione di un fenomeno che Stato e Chiesa non intendono investigare.
Dunque non si può ipotizzare il numero del rapporto tra casi denunciati alle autorità ecclesiali e casi denunciati alle autorità giudiziarie in Italia?
Purtroppo no, come dicevo in precedenza, i casi denunciati all’autorità ecclesiastica sono vincolati al segreto pontificio. Nel 2014 di fronte a due commissioni delle Nazioni Unite (Diritti dell’infanzia, Contro la tortura) gli emissari di papa Bergoglio hanno dichiarato che la Santa Sede ha valutato circa 7000 denunce in dieci anni e che nel periodo in questione oltre 800 sacerdoti sono stati espulsi dalla Chiesa di Roma per aver compiuto abusi su minori. Ma i nunzi della Santa Sede hanno rifiutato di dire i loro nomi e le loro nazionalità.
Dopo l’elezione di papa Bergoglio, si sono levate alcune voci che informavano sul fatto che in alcuni casi di pedofilia in Argentina, per i quali i familiari delle vittime avevano chiesto aiuto ai vescovi senza essere ascoltati, l’arcivescovo Bergoglio era stato silente, se non addirittura attivo nel proteggere la reputazione dei preti coinvolti. Il cardinale di Boston, Bernard F. Law, nonostante dopo lo scandalo abbia rassegnato le dimissioni, è stato trasferito ad un prestigioso incarico presso Santa Maria Maggiore a Roma e lì è rimasto nonostante le voci che lo volevano cacciato da un Papa da “tolleranza zero”. I segnali più recenti fanno pensare ancora ad un intervento contro la pedofilia più mediatico che concreto?
Per decenni le autorità ecclesiastiche sono state attente solo a preservare l’immagine pubblica, propria e della Chiesa. In nome di quella cosa che chiamano “ragion di Stato”, in cui non c’è spazio per l’attenzione alla salute mentale e fisica delle giovanissime vittime, hanno adottato come misura più “incisiva” lo spostamento in gran segreto da una parrocchia all’altra dei casi più pericolosi (per la Chiesa), come dimostra con precisione l’inchiesta di Spotlight. La possibilità per dei serial killer di agire indisturbati, addirittura tutelati, si è ovviamente tradotta in una diffusione esponenziale degli abusi. Le frequenti dichiarazioni pubbliche di Bergoglio danno l’idea che l’ago della bilancia si stia spostando verso un atteggiamento più responsabile. È presto per parlare di effetti concreti ma gli annunci di “tolleranza zero” possono avere un effetto deterrente. Nel senso che potrebbe finalmente venire meno la certezza di impunità che ha spinto molti pedofili a intraprendere la carriera clericale.
Tuttavia anche Benedetto XVI nella seconda metà del suo papato era per la “tolleranza zero” e sappiamo come è andata a finire. Nelle considerazioni conclusive della Commissione Onu per i diritti dell’infanzia elaborate a febbraio 2014 c’è scritto: «La Commissione è fortemente preoccupata perché la Santa Sede non ha riconosciuto la portata dei crimini commessi, né ha preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso sessuale e per proteggere i bambini, e perché ha adottato politiche e normative che hanno favorito la prosecuzione degli abusi e l’impunità dei responsabili».
È bene chiarire che gli investigatori delle Nazioni Unite puntavano il dito contro i tre papi che hanno guidato la Chiesa tra il 1991 e il 2014: Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio. Quindi, come dicevo, in concreto c’è ancora molto da fare. Non basta aumentare i termini di prescrizione del reato e inasprire le norme penali, cosa che di fatto in tre anni ha portato a un unico arresto da parte dei gendarmi vaticani (l’ex nunzio della rep. Dominicana, Józef WesoÅowski).
Finché la pedofilia verrà considerata un peccato o per dirla come Ratzinger “un abuso morale”, tutte le azioni intraprese per estirparla saranno una conseguenza di questo pensiero scarsamente aderente alla realtà. Cioè poco incisive, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione che in questi casi è determinante.
Ne è la prova la mancata chiusura dei pre-seminari e dei seminari minori gestiti da ordini e congregazioni religiosi. Gran parte degli abusi imputati a religiosi si consuma tra le mura di questi istituti in cui vengono educati minori dai 6-8 anni in poi. L’Onu ha fatto richiesta esplicita alla Santa Sede di chiuderli anche perché è noto che spesso il pedofilo è una persona abusata in giovane età, ma solo in Italia ne esistono ancora una sessantina con oltre 1200 studenti.
Un altro deterrente potrebbe essere l’innalzamento della soglia della discrezione, cioè l’età in cui un bambino può accedere alla confessione. Nel 1910 è stata abbassata a 7 anni. Alcune associazioni cattoliche hanno più volte chiesto al card. Bagnasco di intercedere presso il papa per elevarla a 14 anni. Perché sulla base delle testimonianze raccolte nelle grandi inchieste governative e miste di alcuni Stati europei è emerso che quasi tutte le violenze avvengono nell’ambito di questo rito che non si consuma solo nel confessionale ma ha una durata indefinita e soprattutto è soggetto al vincolo di segretezza. Il segreto, insieme al senso di colpa instillato nella vittima dal suo “confessore”, è la chiave dell’impunità. I preti pedofili lo sanno bene.
La Pontificia commissione per la tutela dei minori, istituita nel 2014, ha di recente tentato di richiamare all’ordine la CEI imponendo per “necessità morale” che i sacerdoti e i vescovi denuncino alle autorità civili i casi di pedofilia di cui vengono a conoscenza. Quanto pesano su questi tentativi di cambiamento il rapporto Onu sui diritti dell’infanzia, non favorevole all’immagine della Chiesa cattolica per quel che concerne la pedofilia, e il nuovo papato?
La mancata collaborazione delle autorità ecclesiastiche con gli organi di polizia è un altro sintomo di scarsa propensione della Chiesa a voler affrontare fino in fondo il fenomeno della pedofilia. Nel 2011 la Congregazione per la dottrina della fede ha emanato una serie di indicazioni per le conferenze episcopali di tutto il mondo, alle quali attenersi nella redazione delle linee guida anti-pedofilia, il vademecum per i vescovi nella gestione dei casi di abusi. Contrariamente a quanto indicato dalla Cdf, nel 2014 la Cei del card. Bagnasco ha deciso di non inserire nelle linee guida l’obbligo per i vescovi italiani di denunciare i sacerdoti pedofili all’autorità giudiziaria. In Italia questo obbligo vincola per esempio i pubblici ufficiali – come il preside di una scuola. I vescovi non sono pubblici ufficiali ma non hanno avvertito nemmeno l’obbligo morale di stabilire come doverosa la collaborazione con la magistratura “laica”.
La motivazione fornita dal card. Bagnasco va al di là di qualsiasi immaginazione: «La denuncia è una decisione che spetta ai genitori, noi non denunciamo per tutelare la privacy delle vittime». Per il capo della Cei è secondario che in questo modo si sta tutelando anche quella del pedofilo. E che quindi oltre a contribuire ad acuire l’isolamento affettivo e fisico della vittima di cui come detto in precedenza approfitta sempre il violentatore, si mette a rischio l’incolumità di altri bambini. È talmente palese la pericolosità di una posizione del genere che a febbraio scorso la Pontificia commissione per la tutela dei minori di recente ha emanato una nota dicendo chiaro e tondo: «Abbiamo tutti la responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti alle autorità civili che hanno il compito di proteggere la nostra società». Secondo voi questo monito finora ha avuto qualche effetto? La Pontificia commissione è un organo consulente della Santa Sede. Esorta tutta la comunità ecclesiale a denunciare e ovviamente fa bene.
Ma, se come abbiamo visto nel caso delle informazioni richieste dall’Onu, la stessa Santa Sede è la prima a non denunciare quel che sa, quale credibilità può avere un organismo del genere all’interno della Chiesa (e non solo)?
A prescindere dai provvedimenti di natura canonico-giuridica della Chiesa, quali sono state secondo te in questi ultimi anni le politiche efficaci della Chiesa per evitare altri casi e altri scandali? C’è una tendenza a non far entrare più in contatto diretto i singoli preti in generale con i singoli bambini? E quanto può pesare invece nel proseguire del “sistema” la vocazione terzomondista del modello di chiesa di Bergoglio?
Oltre a quanto già detto a proposito della Cei, il caso di don Inzoli mi porta a pensare che pochi per non dire nessuno all’interno della Chiesa si preoccupano concretamente dell’incolumità dei bambini. L’ex parroco di Crema ed ex presidente ciellino della onlus Fraternità che, per inciso, tra le altre cose si occupa dell’affido di bambini provenienti da famiglie in difficoltà, due anni fa è stato condannato per abusi su minori dalla Congregazione per la dottrina della fede. Cito: «In considerazione della gravità dei comportamenti e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza. Gli è inoltre prescritto di sottostare ad alcune restrizioni, la cui inosservanza comporterà la dimissione dallo stato clericale».
Lo scorso anno a gennaio, cioè sei mesi dopo la sentenza della Cdf, Inzoli se ne stava placidamente seduto in platea al Palazzo della Regione Lombardia dove si svolgeva un convegno sulla tutela dei valori della famiglia tradizionale. L’ex parroco era in seconda fila, davanti a lui sedevano Roberto Formigoni e Roberto Maroni. Si dice che Inzoli sia stato anche il confessore di Formigoni ma non è questo il punto. Il punto è che la condanna a “una vita di preghiera e di umile riservatezza” evidentemente non impedisce a un sacerdote di partecipare alla vita pubblica. E risulta difficile pensare che ad esempio per le vie di Milano non si incontrino bambini.
A proposito di uso, abuso ed educazione dei minori, vuoi dirci qualcosa del tuo ultimo libro, “Figli rubati”?
Si tratta di un libro-inchiesta nel quale faccio il punto sulla ricerca dei figli rubati ai desaparecidos durante le dittature sudamericane degli anni ’70. Secondo le Abuelas di Plaza de Mayo almeno 60 “figli rubati” che oggi hanno 35-40 anni potrebbero vivere in Italia senza conoscere la propria storia. Ma fino a oggi nel nostro Paese non è mai avvenuto un ritrovamento. Le famiglie a cui vennero venduti, in base al Piano di appropriazione dei bambini ordito dalla dittatura argentina, dovevano essere di provata fede cristiana e cultura occidentale. Perché avevano il compito di rieducarli per interrompere la catena di trasmissione delle idee marxiste di cui erano portatori i loro genitori naturali. Nel libro oltre a spiegare perché non si riesce a trovarli – e di mezzo c’è la Chiesa, la P2 e i cosiddetti servizi segreti deviati – indago sulle radici culturali di questa forma orrenda di violenza sui bambini. La cosa interessante è che l’inchiesta a un certo punto mi porta in Spagna nel bel mezzo della dittatura clerico-fascista di Franco.
Quello che in pochi forse sanno è che durante i 36 anni di dittatura vennero sottratti alle donne repubblicane circa 30mila figli, i quali come poi avvenne in Sud America sono stati affidati a famiglie contigue al regime per essere rieducati… secondo valori cristiani e occidentali. Quello che è ancora meno noto è che dopo la morte di Franco e la fine della dittatura, l’appropriazione di bambini da strumento di repressione è diventata un vero e proprio business facendo della Spagna uno dei crocevia mondiali delle adozioni illegali. Secondo una stima del magistrato Baltasar Garzon, lo stesso che nel 1998 incriminò e fece arrestare Pinochet a Londra, tra il 1975 e il 1996 almeno 270mila neonati sono stati sottratti con l’inganno alle loro madri naturali. Che non erano più le donne repubblicane – si trattava infatti di ragazze madri, prostitute, figlie di “famiglie perbene” che non potevano abortire, ecc. – tuttavia le cliniche “specializzate” a gestire questi casi rimasero le stesse di cui si serviva Franco: strutture facenti capo in massima parte a congreghe, ordini e sette religiose cattoliche.
Francesca Palazzi Arduini
http://www.arivista.org/?nr=409&pag=31.htm
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