In aula F.B, 35 anni, nato nella comunità di Vicchio dove ha vissuto fino ai 18 anni: “Quando cominciai a ribellarmi mi dissero che mi avrebbero ricoverato e fatto passare per pazzo”
“Quando cominciai a pensare col mio cervello e a ribellarmi, a raccontare all’esterno ciò che mi succedeva in cooperativa e tentai di uscire dalla comunità, mi dissero che se non la smettevo subito mi avrebbero ricoverato, dato le medicine e fatto passare per pazzo”. Continuano le testimonianze shock al processo in corso al tribunale di Firenze per gli abusi e i maltrattamenti che sarebbero stati compiuti nella comunità de Il Forteto, a Vicchio (Firenze), che si occupa anche di recupero di minori. A ripercorrere di fronte ai giudici la propria esperienza di vita nella comunità mugellana guidata da Rodolfo Fiesoli – il “profeta” finito sotto accusa per maltrattamenti e violenza sessuale – è stato nella giornata odierna uno dei cinque ragazzi che al Forteto non sono arrivati in affidamento, né perché attratti da una prospettiva di vita comunitaria e agricola. “Noi purtroppo ci siamo nati e nelle intenzioni di Fiesoli avremmo dovuto rappresentare la nuova generazione”.
“In questa realtà mi ci sono ritrovato, non ho scelto: io sono un prodotto del Forteto” ha ripetuto più volte in aula stamani F.B., 35 anni, oggi carabiniere alla caserma “Cavour” di Torino, alle spalle numerose missioni all’estero, rispondendo alle domande del titolare dell’inchiesta, il pm Ornella Galeotti. F. B. se n’è andato dalla comunità nel 1998, poco dopo esser diventato maggiorenne. Sua madre lasciò la cattedra di docente universitaria per seguire il “profeta” e vive tuttora al Forteto, mentre il padre se ne andò dopo 4 anni puntando una pistola in faccia a Fiesoli e accusandolo di abusi e vessazioni sugli ospiti della comunità. “Ho vissuto con la mia madre naturale fino ai 5 anni, poi sono stato affidato a un’altra donna” racconta commuovendosi. In 5 ore di deposizione, la sua voce si romperà ogni volta che citerà la figura materna. “Mi hanno fatto credere che mio padre se n’era andato perché picchiava la mamma – racconta il militare – così hanno fatto in modo che non lo volessi più incontrare”. In realtà F. B. incontrerà suo padre altre due volte, in 20 anni: “la seconda volta mi chiese se volevo andarmene con lui, ma non ce la feci”. Uscito dal cerchio magico di Fiesoli, il testimone tornerà più volte a Vicchio “solo per andare a trovare mia madre”.
“Facevo pipì a letto, la notte, per una patologia congenita – racconta F. B. alla corte – e per questo sono stato sin da piccolo sottoposto ai ‘processi’ e ai ‘chiarimenti’ da parte di Rodolfo Fiesoli. ‘Hai fatto fantasie erotiche’ mi diceva, poi gli altri mi interrogavano finché non confessavo ciò che loro volevano dicessi”. I chiarimenti portavano sempre alla medesima conclusione: presunte deviazioni sessuali che venivano punite con nottate intere “passate nei corridoi di fronte alla camere, dove il buio era totale”, oppure “di giorno, in piedi di fronte alla madia che si trovava in sala mensa: quello era un segno di punizione chiaro a tutti, cosicché chi passava per andare a pranzo mi apostrofava dicendomene di tutti i colori”. Per ben 30 volte F.B. sarebbe stato rinchiuso per ore nella chiesetta della cooperativa, “dove mi dicevano che c’erano i morti sepolti… dove potevo piangere e urlare ma nessuno mi avrebbe potuto sentire” o addirittura “nella cella frigorifera”. “Mi dicevano che mi avrebbero messo nel grande forno dove sottoponevano i bambini a punizioni corporali”. Lo scopo: “volevano spingerci all’omosessualità”.
F. B. non si scompone quando passa in rassegna “gli schiaffi e le botte date coi mestoli, gli approcci e i baci in bocca del ‘profeta’ a noi ragazzini”. Vacilla ma non cede alle lacrime neppure quando parla dei lavori che era costretto a svolgere nell’azienda agricola del Forteto sin da quando era un bambino: “iniziavo alle 5.30, sveglia e colazione. Dopo dovevo andare all’ovile, dove mi occupavo delle pecore, o al caseificio dove lavoravo le ricotte (gli altri mi prendevano in giro per questo e mi chiamavano pecoraio, così quando la maestra ci faceva fare i temini io scrivevo che mi occupavo dei cavalli). Facevo tutto quello che dovevo, poi mi mettevo una tuta sopra gli indumenti da lavoro e correvo a scuola. Ho frequentato le lezioni fino ai 14 anni”. Seguiranno altri sei anni d’inferno prima dell’agognata libertà: una divisa dell’Arma dei carabinieri. La stessa che indossava il nonno materno.
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2014/02/10/news/forteto_continua_il_processo_con_testimonianze_shock-78239084/
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