La congregazione per la dottrina della fede ha colpito con una pesante condanna padre Gino Burresi. Le colpe? Le stesse di cui è accusato padre Marcial Maciel, fondatore dei potenti Legionari di Cristo
di Sandro Magister
ROMA, 28 luglio 2005 – Il quotidiano cattolico “Avvenire” ha pubblicato il 19 luglio la seguente nota della segreteria generale della conferenza episcopale italiana:
“A seguito del decreto in data 27 maggio 2005 della congregazione per la dottrina della fede, si rende noto che nei confronti di padre Luigi (Gino) Burresi, della congregazione dei Servi del Cuore Immacolato di Maria, sono stati decisi i seguenti provvedimenti canonici:
“1 – revoca della facoltà di ricevere le confessioni di tutti i fedeli in ogni luogo, di cui ai canoni 966 e 969 del codice di diritto canonico;
“2 – proibizione definitiva di svolgere il ministero della direzione spirituale nei confronti di tutti i fedeli, siano essi laici, chierici o consacrati;
“3 – revoca della facoltà di predicare di cui ai canoni 764 e 765;
“4 – divieto di celebrare i sacramenti e i sacramentali in pubblico;
“5 – divieto di concedere interviste, scrivere su giornali, opuscoli, riviste periodiche o tramite internet, partecipare a trasmissioni radiofoniche o televisive che trattano questioni attinenti la dottrina cattolica, la morale, i fenomeni soprannaturali e mistici.
“Tanto si rende noto per conoscenza e utilità dei fedeli”.
In pratica, la CEI ha comunicato che padre Gino Burresi, fondatore dei Servi del Cuore Immacolato di Maria, deve lasciare il ministero e ritirarsi a vita privata.
Tra i motivi del provvedimento, il decreto della congregazione per la dottrina della fede cita abusi nella confessione e nella direzione spirituale. Ma fonti vaticane hanno confermato che a questi motivi vanno aggiunte le accuse di abuso sessuale rivolte contro padre Burresi da alcuni che furono suoi seguaci e seminaristi negli anni Settanta e Ottanta.
Il decreto vaticano non è stato reso pubblico. Ma il settimanale americano “National Catholic Reporter” ne è entrato in possesso, e il suo corrispondente John L. Allen ne ha dato conto nella sua Newsletter “The Word from Rome” del 22 luglio.
Il decreto contro padre Burresi è il primo emesso dalla congregazione per la dottrina della fede nel pontificato di Benedetto XVI. È il primo che porta la firma del suo nuovo prefetto, l’ex arcivescovo di San Francisco William J. Levada (nella foto). Ed è stato approvato personalmente dal papa il 27 maggio ricevendo in udienza il segretario del dicastero, l’arcivescovo Angelo Amato. L’approvazione papale, “in forma specifica”, non ammette appello.
In quanto diretto contro il fondatore di un ordine religioso sulla base di accuse risalenti a decenni addietro per abusi sessuali compiuti su suoi seguaci, il decreto contro padre Burresi richiama un altro caso analogo ma di peso molto maggiore, anch’esso sotto esame da parte della congregazione per la dottrina della fede: il caso di padre Marcial Maciel Degollado, fondatore del Legionari di Cristo.
Non è escluso che la severità adottata contro padre Burresi preluda a un provvedimento di analogo rigore contro padre Maciel.
Padre Burresi, che oggi ha 73 anni, ha fatto parte fino al 1992 degli Oblati della Vergine Maria, un ordine fondato nel 1816 dal sacerdote italiano Bruno Lanteri. Devotissimo delle rivelazioni di Fatima, divenne prete abbastanza avanti negli anni, nel 1983, ma già prima s’era guadagnato una grande fama come mistico e direttore spirituale, oltre che per le stimmate e le visioni.
In piccolo, la sua popolarità somigliava a quella di padre Pio da Pietrelcina. E neppure troppo in piccolo: da lui accorrevano ogni giorno centinaia di persone in cerca di conforto, dall’Italia e dall’estero, compresi alti prelati, politici, ambasciatori. Dalle lontane Filippine, l’allora presidente Corazon Aquino mandò un giorno un suo messo a far benedire un rosario da quest’uomo in profumo di santità.
Il suo quartier generale era nelle campagne sotto Tivoli, poco fuori Roma, nella località di San Vittorino, dove ora sorge un vistoso santuario mariano in vetrocemento a forma di cono, edificato con le offerte dei devoti. “Fratel Gino”, come tutti lo chiamavano, riceveva inizialmente in una baracca di legno e lamiera, al posto della quale la congregazione degli Oblati costruì poi un seminario internazionale. Perché padre Burresi era anche un grande magnete di vocazioni alla vita religiosa.
Finché nel maggio del 1988 prima due, poi altri cinque suoi giovani seguaci ruppero l’incanto. Riferirono ai superiori della congregazione che il sacerdote li aveva attratti più volte nella sua camera e aveva abusato sessualmente di loro. Messi per iscritto, i loro racconti oscillavano tra fascinazione e autocolpevolizzazione. Ad esempio:
“Padre Gino baciava e nello stesso tempo diceva cose belle e sante: ‘Lasciati toccare da Dio. Amare non vuol dire peccare’. Ero confuso e paralizzato. sapevo che egli era uno stigmatizzato, uno che aveva contatti diretti con la Madonna. Perciò sentivo che mi sbagliavo, non poteva essere come pensavo, perché se così fosse stato Dio non lo avrebbe scelto come suo ministro in terra. Dissi tra me: Guarda quanto sono cattivo e marcio, vedo la malizia anche negli abbracci affettuosi di un santo”.
Vagliate queste accuse, i superiori degli Oblati presero una decisione fulminea. Il 6 giugno 1988 imbarcarono padre Burresi su un volo per Vienna e lo trasferirono nel loro convento austriaco di Loretto. E il giorno dopo il superiore generale dell’ordine, l’argentino Julio Cura, rimise il dossier d’accusa al prefetto della congregazione vaticana per i religiosi, che era il cardinale Jérôme Hamer.
Ma nella stessa congregazione l’allora segretario Vincenzo Fagiolo, futuro cardinale, era un simpatizzante dell’accusato. “Veniva spesso a confessarsi da me”, fece prontamente sapere padre Burresi, che intanto era già scappato dal confino austriaco ed era rientrato in Italia, a Montignoso di Gambassi Terme, in Toscana, diocesi di Volterra, dove tutt’ora risiede.
Sta di fatto che dal Vaticano misero sotto processo, più che padre Burresi, i superiori degli Oblati, alle cui costole posero un ispettore, Marcel Gendrot, monfortano. Dopo due mesi d’indagine, questi concluse a favore del ritorno di padre Burresi a San Vittorino e con una nota di biasimo a carico dei superiori dell’ordine.
I quali allora si appellarono a papa Giovanni Paolo II. Il ricorso, in data 22 novembre 1988, riempie tre pagine. Elenca i capi di accusa: atti omosessuali consumati con più giovani, sequestro di persona a scopo di libidine, violazione del segreto sacramentale. Rimprovera all’ispettore Gendrot d’aver insabbiato l’indagine. Chiede al papa di togliere il processo ad Hamer e Fagiolo e di affidarlo invece all’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, oppure a una commissione speciale.
Il 3 gennaio successivo la risposta: ricorso respinto. Non solo. Padre Cura e gli altri superiori degli Oblati sono dimessi d’autorità. Da ispettore, Gendrot è promosso commissario dell’ordine. Il processo resta nella mani di Hamer e Fagiolo. Unica concessione: un supplemento d’indagine affidato a tre cardinali oggi defunti: Giuseppe Caprio, Opilio Rossi, Luigi Dadaglio. Questi riascoltano uno solo dei sette iniziali testimoni d’accusa, alla fine divenuti undici. E un anno dopo, nel febbraio del 1990, concludono consentendo a padre Burresi di restare dov’è, a Montignoso, e di continuare lì la sua opera, col solo divieto di occuparsi di giovani vocazioni.
Ma padre Burresi ormai s’è messo in proprio. Nel 1992 lascia gli Oblati e fonda una nuova congregazione, i Servi del Cuore Immacolato di Maria, con ramo maschile e femminile, oggi forte di 150 membri.
Cinque anni più tardi, però, nel 1997, torna a indagare su di lui la congregazione per la dottrina della fede. Il processo si conclude il 10 maggio 2002 con un decreto firmato da Ratzinger e dall’allora segretario del dicastero, Tarcisio Bertone, oggi cardinale e arcivescovo di Genova.
La sentenza prende atto che le accuse sono cadute in prescrizione e quindi non condanna né punisce padre Burresi. Ma il rapporto di venti pagine che accompagna il decreto – anch’esso oggi in possesso del “National Catholic Reporter” – ha passaggi che meritano d’essere citati. È firmato dai quattro prelati incaricati delle indagini, presieduti da Velasio De Paolis, oggi vescovo e segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Il rapporto elenca le accuse contro il sacerdote: violazione del segreto confessionale, uso illegittimo delle confidenze avute in confessione a danno del penitente, offesa al buon nome delle persone, violazione del diritto alla privacy, induzione alla disubbidienza contro i superiori, falso misticismo, asserite apparizioni, visioni e messaggi soprannaturali.
Ammette che i fatti oggetto delle accuse sono caduti in prescrizione. Ma chiede alla congregazione per la dottrina della fede di comminare ugualmente contro padre Burresi delle sanzioni amministrative. Per questo motivo:
“Non va dimenticato che durante questo processo alcuni [seguaci di padre Burresi] hanno detto che l’accusato ‘uscirebbe da esso trionfante, più rispettato che mai, e quindi senza alcuna ombra, più glorioso di prima’. [Essi hanno detto] ‘che la segreteria di stato difende padre Gino, per cui la vittoria è assicurata’. Se nessun limite fosse applicato alla sua libertà di esercitare il ministero semplicemente per il fatto che le accuse provate sono cadute in prescrizione, probabilmente la sentenza di questa corte sarà usata come strumento di propaganda a favore dell’accusato. Egli sarà in grado di continuare a far danno a quelle persone psicologicamente deboli che si mettono sotto la sua direzione spirituale”.
L’asserito appoggio della segreteria di stato a padre Burresi – richiamato nel rapporto – è un altro degli elementi che accomunano il suo caso a quello di padre Maciel.
In effetti, nella segreteria di stato lavorano due prelati che appartengono l’uno, Angelo Tognoni, ai Servi del Cuore Immacolato di Maria fondati da padre Burresi, e l’altro, Donal Corry, ai Legionari di Cristo fondati da padre Maciel.
Non solo. I Legionari di Cristo risultano avere come loro sostenitore, da molti anni, il segretario di stato in persona, il cardinale Angelo Sodano.
Una conferma dell’appoggio della segreteria di stato alla causa dei Legionari si è avuta lo scorso venerdì 20 maggio, poco dopo l’uscita di un servizio di www.chiesa dedicato all’indagine sul caso Maciel avviata dalla congregazione per la dottrina della fede.
Grazie a un fax a loro pervenuto senza firma ma con un timbro della segreteria di stato, i Legionari di Cristo hanno emesso quel giorno un comunicato che diceva:
“At this time there is no canonical process underway regarding our founder, Fr Marcial Maciel, LC, nor will one be initiated”.
In realtà, il fax della segreteria di stato era meno perentorio, riguardo al futuro. Esso letteralmente diceva, in italiano:
“Non vi è nessun procedimento canonico in corso né è previsto per il futuro nei confronti di p. Maciel”.
La formula “non è previsto per il futuro” è ricorrente in Vaticano per indicare atti che sono nelle sfera del possibile, ma sui quali non è stata ancora presa una decisione formale.
Di certo c’è che sul caso Maciel l’indagine preliminare è andata avanti anche dopo la pseudo-smentita del 20 maggio, acquisendo ulteriori testimonianze e documenti. E sulla base di questa indagine la congregazione per la dottrina della fede – non la segreteria di stato – deciderà circa il processo canonico contro il fondatore dei Legionari di Cristo.
Il caso Burresi insegna. Pareva definitivamente archiviato dalla benevola sentenza del 10 maggio 2002. E invece è ripartito e arrivato a una conclusione ben più severa. Con Ratzinger giudice supremo, nel frattempo divenuto papa.
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