Qualche giorno fa il pontefice è tornato sul tema degli abusi sessuali commessi da membri del clero per ribadire e aggiornare il complesso di norme varato quasi quattro anni fa con il Motu Proprio “Vos Estis Lux Mundi”. Il documento conferma, rafforzandolo, l’intricato complesso di norme e istituti che dovrebbero scoraggiare la commissione di questo genere di “delitti” (per usare un’espressione del diritto canonico).
L’impressione che si ricava da una sua prima e superficiale lettura è quella di una Chiesa Cattolica determinata a reprimere la diffusione degli abusi e a punire con la necessaria severità chi li compie. C’è naturalmente del vero in questa percezione: nel documento, il papa avverte implicitamente vescovi, sacerdoti e anche laici cattolici impegnati nelle attività pastorali che, nel caso si mettessero nei guai sul versante della sessualità con i minori, l’istituzione non interverrà più a proteggerli come ha sempre fatto, ma al contrario li punirà in modo rigoroso e fermo. È un messaggio che tutti i sacerdoti italiani hanno già colta già da qualche anno, da quando la CEI ha istituito dei centri di ascolto che raccolgono le denunce e avviato, in molte diocesi (non in tutte), una campagna di prevenzione di questi crimini, affidata essenzialmente a giuristi e psicologi.
In questo approccio che definirei sommariamente “giustizialista” io vedo tre grandi limiti.
Il primo riguarda l’impatto con la cultura organizzativa della Chiesa, impregnata da secoli di una strutturale tendenza alla copertura dei crimini commessi dai suoi funzionari. È legittimo chiedersi se un’istituzione del genere sarà in grado di ribaltare davvero il suo atteggiamento di fondo e di sanzionare la sua classe dirigente (perché questo rappresentano i sacerdoti) senza sconti quando sbaglia sul terreno del sesso con i minori? Quali garanzie ci sono che il dispositivo giudiziario architettato dai vertici vaticani si metta davvero in moto e che preti e vescovi smettano di insabbiare e occultare? Basta cambiare la legge perché cambino anche i comportamenti e si modifichino le prassi più diffuse?
Il secondo limite attiene al rapporto con il passato e con la conoscenza scientifica del fenomeno. Sotto questo profilo la situazione è molto varia: ci sono conferenze episcopali, ad esempio quelle francese e tedesca, impegnate in una seria opera di accertamento della verità sugli ultimi decenni e di collaborazione con la comunità scientifica che studia il fenomeno e altre, tra le quali si distingue quella italiana, che da quest’orecchio non ci sentono proprio. L’elemento rivelatore della differenza risiede nella disponibilità a istituire e finanziare commissioni indipendenti di inchiesta, che consentano sia l’emersione di molte vicende di abusi consumatesi negli scorsi decenni e rimaste sino ad ora confinate nella sola memoria delle vittime sia la produzione di una rilevantissima mole di dati (non solo quantitativi) relativi al fenomeno in questione. Insomma le commissioni indipendenti rappresentano uno strumento insostituibile: alimentano moltissimo il dibattito pubblico e producono un grande avanzamento della conoscenza, premessa di interventi di riforma più oculati e puntuali. Nel documento vaticano a questo tema non si fa cenno e non mi risulta che il papa su questo abbia una linea: ogni commissione episcopale fa quel che vuole, alcune non fanno nulla.
Il terzo limite è il più serio di tutti e concerne l’adeguatezza della nuova strategia preventiva e repressiva rispetto alle cause reali del fenomeno. Per comprenderlo dobbiamo chiederci come mai quello degli abusi sessuali sia un problema così rilevante per i sacerdoti cattolici (non solo per loro è chiaro, ma soprattutto per loro). C’è qualcosa nel rapporto con la sessualità e l’affettività a cui la Chiesa vincola i sacerdoti che favorisce la commissione di abusi? In definitiva, c’è qualche legame tra il celibato obbligatorio e la castità imposta per legge al clero e gli abusi sessuali che alcuni di costoro mettono in atto? Se sì, come io penso e come ho cercato di dimostrare in altre sedi, è chiaro che tutto l’arzigogolato impianto repressivo disegnato dai vertici cattolici serve a poco. Se a commettere gli abusi non sono solo delle “mele marce” che saranno, auspicabilmente, d’ora in poi più facilmente assicurate alla giustizia canonica e poi punite ma è un sistema vivente di comportamenti e di atteggiamenti legati alla “cultura della castità obbligatoria” gli strumenti come quelli contenuti nel motu proprio sono destinati a rivelarsi scarsamente o per nulla efficaci. Il punto è che anche solo per porsi gli interrogativi che ho avanzato la Chiesa dovrebbe mettere in discussione se stessa, la sua costituzione materiale, la sua natura spirituale, ecclesiale e politica e non solo puntare il dito sui singoli funzionari infedeli. Quando ciò avverrà saremo i primi a parlare di rivoluzione.
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