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Home NEWS e CRONACA LOCALE Lombardia

“Il vescovo di Milano coprì il mio violentatore”

Rete L'ABUSO by Rete L'ABUSO
13 Ottobre 2018
in Lombardia
Reading Time: 5 mins read
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“Da vittima di abusi accuso Delpini. Coprì il mio carnefice senza pagare mai”

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di Giorgio Gandola

Quando aveva 15 anni, Alessandro subì violenze da un parroco, oggi condannato a sei anni e quattro mesi. Ma l’attuale arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che si limitò a trasferire il sacerdote, non ha mai pagato. E Alessandro non ci sta: “Spero che a livello mediatico riceva ciò che si merita. Un vescovo che insabbia fatti come questi non è degno di un’arcidiocesi come Milano”.

“Ho deciso di metterci la faccia quando ho visto quei nomi scritti sul muro”. Alessandro Battaglia ha 22 anni e una barba rifilata con cura lungo il viso. Quando ne aveva 15 subì gli abusi di un prete, quel don Mauro Galli condannato in primo grado dal Tribunale di Milano a sei anni e quattro mesi per pedofilia. E soltanto trasferito fra altri adolescenti dall’allora vicario Mario Delpini, che sarebbe diventato arcivescovo di Milano. Un mese fa Alessandro era a Berlino a un meeting internazionale delle vittime degli abusi del clero e si trovò davanti la parete.

“C’erano una cinquantina di nomi, non capivo cosa significassero e ho chiesto. Erano i ragazzi suicidati per colpa dei sacerdoti. Lì ho deciso che dovevo uscire dal guscio, parlare a viso aperto; lì ho capito di non essere più una vittima, ma un sopravvissuto. In fondo sono stato fortunato”.

Oggi il sopravvissuto è graphic designer, lavora in uno studio, si infila nel traffico attorno a Milano, si diverte con gli amici, suona pianoforte e chitarra, si muove dentro il flusso della sua generazione. Sta rientrando lentamente nella sua vita dopo aver compiuto una traversata del deserto. Sette anni fra le dune della paura, a contatto con un mondo curiale mellifluo, di sabbia, che pregava per lui ma non voleva credergli. Sette anni con l’angoscia di quella di quella notte che tornava a travolgerlo quando abbassava la guardia, quattro tentativi di suicidio, le cure psichiatriche, l’amore della famiglia. E poi la denuncia, il processo, le lacrime alla pronuncia della sentenza. Ma non tutto è alle spalle e forse non lo sarà mai.

Alessandro, pensa ancora a ciò che accadde nella stanza del prete?

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“Ci sono momenti in cui riesco ad affrontare questa storia e momenti nei quali non ce la faccio. Ho ancora crisi di panico, il mese scorso aspettando la sentenza sono andato a lavorare 10 giorni su 22. Voglio riprendermi la mia vita, sto ricostruendola con pazienza. Il lavoro, gli hobby. Avevo un gruppo musicale con gli amici dell’oratorio, ma l’abbiamo sciolto; adesso se mi incontrano per strada attraversano sull’altro marciapiede”.

Perché?

“Ragazzi senza carattere. Ma per quanto possa essere rammaricato, di loro non mi importa più. È arrivata la giustizia, essere creduto dalla società ti restituisce un po’ di serenità”.

Si dice che la giustizia divina sia più importante di quella terrena.

“Per me conta quella terrena, è terapeutica e fa scomparire le ombre; non posso pensare che altri ragazzi provino quello che ho provato io. Bisogna denunciare subito, non tenersi dentro niente; questa è una battaglia di civiltà. La Rai mi aveva chiesto l’esclusiva per un’intervista. Ho detto no, non avrebbe avuto senso. Questa non è una battaglia solo mia, è una battaglia per tutti”.

È come voler svuotare il mare con un cucchiaio.

“Settecento vittime ed è solo la punta di un iceberg perché c’è chi si lascia avvolgere dal silenzio. Dovrà arrivare il giorno in cui non ce ne sarà più neppure una”.

Cosa direbbe a don Mauro se lo incontrasse?

“In passato l’avrei voluto morto, oggi il suo destino non mi interessa più. La giustizia ha fatto il suo corso, sei anni sono una pena esemplare. Ma ciò che accadde è latente. Quando se ne parla torna fuori, quando vedo i vecchi amici per strada torna fuori, quando passo davanti all’oratorio torna fuori. E allora bisogna fare lo sforzo di non lasciarsi travolgere dal turbamento, ma incanalare tutto in positivo”.

Come si riesce?

“Così, parlandone, denunciando. Dopo la sentenza mi hanno scritto quasi in 500. Dopo l’apparizione televisiva a Quarto Grado ho incontrato persone per strada che mi hanno abbracciato in silenzio. La gente ha capito, sa che c’è un sistema dietro”.

Che significa un sistema?

“Due anni fa a scuola una compagna mi chiese perché non riuscivo a studiare. Le risposi in modo brusco: è già tanto se sono vivo. Ecco, torniamo a quel muro di nomi a Berlino. Pur di proteggere l’istituzione e difenderne la reputazione, il clero arriva a sacrificare delle vite umane. Bisogna difendersi, il silenzio sarebbe una resa”.

Monsignor Delpini non è stato neppure sfiorato dal processo.

“Spero che a livello mediatico riceva ciò che si merita; un vescovo che insabbia non è degno di un’arcidiocesi come questa. Mi domando per quale motivo non possa essere indagato”.

Alessandro, lei va ancora in chiesa?

“La mia famiglia è molto cattolica, io prima ero credente ma adesso non riesco più. Come potrei recitare il Credo senza un brivido? I miei figli non vedranno mai l’interno di una chiesa”.

Arriverà un giorno in cui riuscirà a distinguere fra la tonaca e il crocifisso?

“Non ho bisogno di andare in chiesa per credere in Dio. Pensi che ho un punto di riferimento in don Alberto, l’ho conosciuto il giorno dopo quella notte. Io, abusato da un prete: l’ultima persona con cui avrei dovuto parlare sarebbe stata un prete. Il psicoterapeuta è contrario. Ogni volta dico a don Alberto che ha sbagliato mestiere, ma non si può vivere senza avere fiducia”.

A Roma c’è il Sinodo sui Giovani con Delpini rappresentante dei vescovi italiani. Se potesse, cosa direbbe ai partecipanti?

“Direi loro di uscire tutti perché è una pagliacciata, o di far entrare tutti e di parlare con il cuore aperto di ciò che interessa veramente ai giovani. Discutere su come riportare i giovani in chiesa e far finta di non guardare la più grande spina nel fianco, che è quella degli abusi, non ha senso. Ipocrisia pura. Vieni a sapere? Non hai scelta, denunci”.

Mi spiega i due tatuaggi sul braccio e sul collo?

“Il primo è una bussola. Significa la ricerca di una strada, il desiderio di navigare nella vita con un minimo di stabilità. Il secondo è una scritta: Error 404. Lo dice il computer quando non trova un contenuto. Infatti da quell’orecchio sono sordo”.

Chi l’ha aiutata di più ad aggrapparsi all’esistenza, a non naufragare?

Alessandro indica con il dito qualcuno dietro le spalle, laggiù in cucina. Un’ombra che non ha voluto assistere all’intervista, ma che trepida facendo finta di maneggiare lo smartphone, pronta a sorreggergli i pensieri, la fronte, la vita. Gli trema la voce: “Lei c’è sempre stata e ci sarà sempre”. Sua mamma.

(trascrizione da La Verità dell’ 11 ottobre 2018)

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