di Giorgio Sturlese Tosi
Quaranta casi noti, molti rimasti nascosti. Le curie italiane difendono il segreto. A costo di non rimuovere i molestatori o denunciare le vittime.
Il papa si è rivolto ai vescovi irlandesi ed è intervenuto più volte nello scandalo statunitense, ma nessuno conosce l’estensione del problema pedofilia nella Chiesa italiana. Eppure dal 2000 le cronache giudiziarie hanno segnalato le vicende di 40 sacerdoti finiti sotto inchiesta per questi reati. Pochi statisticamente, ma indicativi di un malessere dai confini inesplorati.
Perché alla discrezione che giustamente protegge indagini con vittime minorenni, si aggiunge un rispetto verso le gerarchie ecclesiastiche che porta a tutelare il segreto istruttorio in modo eccezionale. Una cortina di riservatezza che, secondo molte denunce, incentiva anche una spinta al silenzio da parte delle curie. Dove la preoccupazione non è punire i colpevoli ma evitare la pubblicità negativa, tentando ogni strumento per delegittimare chi trova la forza di ribellarsi alla violenza.
Orrore in seminario
All’età di 12 anni, nel 1994, Marco Marchese è stato violentato nel seminario minore vescovile di Favara, nell’Agrigentino. Don Bruno, il sacerdote che ha abusato di lui e di altri sei minorenni, nel 2004 ha patteggiato ed è stato condannato a due anni e sei mesi. La prossima settimana inizierà il processo anche in sede civile contro don Bruno, il seminario e la curia della città siciliana, a cui i legali di Marco Marchese, l’avvocato Salvino Pantuso e Giuseppe Di Bella, chiedono 65 mila euro di risarcimento per danni biologici e una cifra ancora da quantificare per i danni morali. Non una grossa somma, per una violenza che ha accompagnato tutta l’adolescenza e che è costata a Marco gravi problemi di salute, lunghe terapie in analisi e un tentativo di suicidio. “Ci siamo attenuti alla percentuale di danno biologico indicata nella perizia medica di parte”, spiega, quasi a giustificarsi, l’avvocato Di Bella. Non si è fatta attendere la contromossa della curia che chiede un risarcimento di 200 mila euro a Marco, colpevole di aver infangato l’immagine del vescovado. La controcitazione recita: “La curia vescovile di Agrigento ha subìto e continua a subire, a causa del comportamento offensivo e oltraggioso tenuto dal Marchese, pesanti danni che si ripercuotono sull’immagine, sul decoro e sul prestigio che la curia riveste nell’opinione pubblica”. Il vescovo, tramite il suo legale, ha ritenuto di dover essere risarcito. Nella stessa controcitazione si legge che “il comportamento lesivo tenuto dal Marchese, concretizzatosi nell’abnorme pubblicità compiuta anche a mezzo Internet, ha infangato il prestigio della curia”. Insomma, anche se un dodicenne è stato stuprato nel seminario, non c’è bisogno di alzare tanto polverone.
Quando, nel ‘94, Marco è entrato nell’istituto religioso di Favara non poteva passare inosservato. Capelli neri e grandi occhi verdi, era introverso e sensibile, più fragile degli altri. E più bello. In quei corridoi lunghi e freddi e in quelle stanzette da dividere con altri seminaristi scopre tutto sul sesso. Quello sbagliato, quello di un adulto con un ragazzino. A guidarlo, a fargli da padrino, c’era don Bruno: “Non devi parlarne con nessuno”, gli ripeteva, “il nostro è un rapporto unico, non è peccato e quindi non lo devi neanche confessare”. Quando don Bruno tornò dal bagno dopo il primo rapporto gli chiese soltanto: “Ti sei sporcato?”. Altre volte lo avrebbe sporcato, soprattutto nell’anima. Marco soffriva di coliche, non riusciva a dormire e aveva frequenti attacchi d’asma. Ora racconta che tutti i malesseri sono scomparsi quando scappò dal seminario e trovò il coraggio di denunciare tutto al padre rettore, al suo parroco e al vescovo. Quelle denunce però sono servite solo a lenire i sintomi psicosomatici. Non è stato preso alcun provvedimento nei confronti di don Bruno, che ancora oggi, dopo aver patteggiato, esercita il ministero sacerdotale. Nella sentenza di condanna, emessa dal giudice Luigi Patronaggio, al sacerdote venivano concesse le attenuanti generiche perché “la complessa vicenda che ha visto protagonista il religioso va inscritta in quel particolare clima che caratterizza le comunità chiuse come il carcere, i collegi, le navi durante lunghe navigazioni, dove spesso si instaurano, tra soggetti deboli ed esposti, dinamiche a sfondo omosessuale”. Marco, che oggi ha 23 anni, nel dolore ha trovato la forza di laurearsi in psicologia, di fondare un’associazione che si occupa di minori molestati e gira l’Italia per testimoniare il suo calvario.
La perizia ignorata
La prima causa legale contro una curia, accusata di essere responsabile dell’operato di un suo parroco, è stata presentata a Napoli, dagli avvocati Giuseppe Aulino e Luciano Santoianni. Chiedono 170 mila euro perché l’ex arcivescovo, il cardinale Michele Giordano, “era a conoscenza della malattia di padre Giovanni ma non fece niente per impedire che molestasse sessualmente Gaetano, un ragazzo di 14 anni con lieve ritardo mentale”. Questa settimana il tribunale deciderà se accogliere le motivazioni dei legali di Gaetano e procedere nell’iter che potrebbe costringere la curia a risarcire i danni, morali e psichici, subiti dal ragazzino. Un precedente assoluto che, se accolto, aprirebbe la strada a decine di risarcimenti milionari. La tesi dei legali Aulino e Santoianni si fonda su una lettera che Franco Poterzio, medico psichiatra e docente all’Università Statale di Milano, scrisse al cardinal Giordano. Nella lettera lo psichiatra informava l’arcivescovo che padre Giovanni “è affetto da disturbo bipolare di primo tipo, in fase di grave eccitamento maniacale”. Poterzio segnalava anche l’opportunità che il sacerdote fosse allontanato dai servizi di catechesi e comunque non fosse lasciato solo insieme ai ragazzini. Il professore per tre volte ha parlato al telefono col cardinale. Inutilmente.
Padre Giovanni aveva delle attenzioni particolari verso i suoi chierichetti. Uno di questi, Gaetano, aveva qualche problema di apprendimento e per questo era seguito dagli assistenti sociali. Sono stati loro a denunciare quel prete alla magistratura. Dagli atti del processo svolto a Napoli si scopre che, nel luglio ‘99, durante una gita organizzata dalla parrocchia a Marechiaro, mentre sono tutti in mare, Gaetano viene abbracciato da dietro da padre Giovanni. Alle assistenti sociali e al magistrato, racconterà di aver sentito “il suo pene che struscia sul mio sedere”. In un’altra occasione, il 15 dicembre dello stesso anno, durante un viaggio a Roma, il sacerdote e Gaetano passano la notte nell’istituto dei Padri missionari della Carità, in via di sant’Agapito 8. Secondo il racconto di Gaetano, padre Giovanni si sarebbe accoppiato davanti a lui con altri due ospiti di sesso maschile. Il terzetto avrebbe costretto Gaetano ad assistere, chiedendogli anche di partecipare, ma senza che questo avvenisse. I riscontri della polizia giudiziaria hanno verificato la presenza del sacerdote e del ragazzo nell’istituto religioso, ma non hanno potuto scoprire se l’orgia c’è stata davvero. Il tribunale, al termine di una lunga istruttoria, nel 2002 decreta il non luogo a procedere perché “il fatto è stato commesso in stato di incapacità di intendere e di volere”. In attesa dell’esito della causa civile, la curia non ha adottato alcun provvedimento di cautela. Dopo le parole dei giudici, dopo le perizie psichiatriche, dopo le stesse ammissioni di padre Giovanni, l’unica misura del vescovado, ora retto dal cardinale Sepe, è stato quello di un suo primo trasferimento in una parrocchia del quartiere popolare dell’Arenaccia e la sua successiva destinazione come cappellano in uno dei più importanti ospedali napoletani. Oggi padre Giovanni si sveglia tutti i giorni all’alba, dice la prima messa alle 7.45 del mattino e poi passa a dare parole di conforto e di fede tra le corsie dell’ospedale, anche nel reparto pediatrico, dove 42 lettini ospitano ogni anno 3 mila bambini.
L’abbazia dell’orco
Morali, se non penali, sono le responsabilità del vescovo di Arezzo, monsignor Gualtiero Bassetti. Fu lui che, nel 2000, ordinò sacerdote don Pierangelo Bertagna, al centro del maggiore scandalo di pedofilia che abbia di recente colpito la Chiesa italiana. L’11 luglio 2005 don Bertagna, parroco di Farneta, in provincia di Arezzo, viene arrestato dai carabinieri con l’accusa di aver abusato di un tredicenne. La denuncia era partita dalla madre a cui il ragazzino aveva raccontato dei particolari toccamenti che subiva da Bertagna. Ma nessuno poteva immaginare cosa nascondesse il parroco. Fondatore della comunità Ricostruttori di preghiera, il sacerdote predicava una vita di ascesi. Lui stesso, barba lunga e personalità carismatica, dormiva sul pavimento e si cibava di verdura. Una vocazione tarda la sua, a 30 anni: entrò in seminario a Novara nel 1992. Poi nel 2000 fu ordinato sacerdote nel duomo di Arezzo. Cinque anni dopo sarà ancora monsignor Bassetti a sospenderlo a divinis. Quando esplose la vicenda, il vescovo affidò all’Ansa, un unico commento: “Siamo rimasti sbalorditi nell’apprendere dell’arresto. Non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere; don Bertagna è sempre stato un ottimo sacerdote. Speriamo che le indagini portino in breve ad accertare la verità”. Quello che sembrava uno scandalo di provincia diventò un terremoto che dall’epicentro di un paese di poche anime anime arrivò a scuotere i palazzi del Vaticano. Dopo la prima confessione del sacerdote, che ammise di aver violentato il tredicenne, crollò il muro di omertà e molti genitori denunciarono fatti analoghi in un crescendo che terrorizzava gli stessi inquirenti. Poi, a settembre, nel corso di un interrogatorio, assistito dagli avvocati Francesca Mafucci e Annelise Anania, Bertagna crollò e ammise di aver abusato di 38 minorenni. Dieci vittime sono della Valdichiana, la zona che circonda l’abbazia millenaria di Farneta, dove viveva Bertagna. Dei 38 casi rivelati dal sacerdote, i carabinieri hanno trovato finora 18 conferme. Ma l’indagine prosegue per scoprire eventuali molestie commesse in seminario.
Ci sarebbe di che interrogarsi sull’efficacia delle misure adottate dalla Chiesa italiana per impedire altri orrori. Mentre oggi la soluzione per i sospetti, per i dubbi e anche per le denunce che segnalano l’evidenza è troppo spesso il trasferimento. Che lascia il sacerdote solo alle prese con le sue turbe ed espone nuove vittime alla violenza.
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L’orco sotto la tonaca
di Sandro Magister
Sospensione dei sacerdoti. Controlli nelle curie. Sanzioni severe. La svolta di Ratzinger contro gli abusi sessual.i
Ai vescovi dell’Irlanda riuniti davanti a lui in Vaticano, lo scorso 28 ottobre, Benedetto XVI ha detto chiaro che questo è un “tempo di purificazione”. Di purificazione da quella “sporcizia” da lui denunciata nella memorabile Via Crucis al Colosseo del venerdì santo di due anni fa, pochi giorni prima d’essere eletto papa, e che è fatta dai “molti casi, che feriscono il cuore, di abusi sessuali sui minori, particolarmente tragici quando colui che abusa è un prete”. Papa Joseph Ratzinger su questo terreno è molto severo ed esigente, più del suo predecessore Giovanni Paolo II. In un anno e mezzo di pontificato non ha esitato a calare la scure anche su uomini di Chiesa dal precedente papa ritenuti intoccabili.
Con gli Stati Uniti, l’Irlanda è la nazione dove la Chiesa ha più fatto scandalo. L’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, 61 anni, ha confermato che Benedetto XVI, ricevendo i vescovi irlandesi, non ha soltanto denunciato l’orrore, ma ha dettato loro “indicazioni precise” su come far pulizia. Con sanzioni talora più rigide di quelle comminate dai tribunali civili. In Irlanda, i vescovi hanno accertato che in sessant’anni, dal 1945 al 2004, i sacerdoti implicati in abusi sessuali su minori di 18 anni sono stati 105, quasi il 4 per cento del totale dei preti, con circa 400 vittime. Di quelli tuttora in vita otto sono stati condannati al carcere dopo un processo penale, altri 32 hanno in corso un processo civile. Altri ancora non hanno avuto una condanna giudiziaria per l’impossibilità di provare azioni troppo lontane nel tempo. Ma anche con questi la gerarchia della Chiesa oggi reagisce escludendoli dall’attività pastorale. E a tutti i preti colpiti da accuse chiede in ogni caso di autosospendersi da ogni incarico, prima ancora che inizino gli accertamenti. Può quindi accadere che tali sanzioni puniscano temporaneamente anche persone che poi risultano innocenti: “Purtroppo però l’esperienza del passato ci ha obbligati a questi provvedimenti dolorosi ma indispensabili”, afferma l’arcivescovo Martin. La linea vigente è che è meglio eccedere in severità che rischiare l’oppposto.
Negli Stati Uniti è lo stesso. Anche lì si è accertato che sono stati circa quattro ogni cento, nell’ultimo mezzo secolo, i sacerdoti che hanno commesso abusi sessuali su minori: 4.392 su un totale di 110 mila preti diocesani e religiosi. I tre quarti dei crimini si sono avuti negli anni tra il 1960 e il 1984, quando la prassi usuale era semplicemente di trasferire il colpevole da un incarico all’altro, magari inframmezzando sedute di psicoterapia che in realtà non cambiavano nulla. Questa prassi irresponsabile e indulgente, pur col fenomeno in calo, si è protratta fino ad anni molto recenti, finché nel 2002 è esploso sui media lo scandalo e tutto si è scoperchiato. I vescovi degli Stati Uniti hanno reagito alle proprie stesse precedenti debolezze con una nuova politica di ‘tolleranza zero’. Un numero molto alto di cause hanno invaso i tribunali civili e sulle diocesi sono cadute ingenti richieste di risarcimento. Anche qualche vescovo ne è uscito travolto, non solo per aver coperto gli abusi ma per averne personalmente commessi. Uno di questi, Anthony O’ Connel di Palm Beach in Florida, fece nel 2002 un’ammissione rivelatrice. Disse che nel compiere tali atti si sentiva influenzato dallo spirito di quegli anni Settanta: “Nei quali dettava legge il rapporto Masters & Johnson e imperava un clima di trasgressione sessuale”.
Una manifestazione contro gli abusi negli Usa
In alcune corti di giustizia, negli Stati Uniti, si è arrivati a citare in giudizio la Santa Sede come corresponsabile dei crimini in esame. L’ultima richiesta del genere è venuta lo scorso maggio da un tribunale dell’Oregon. Ma finora sono state tutte bloccate in forza dell’immunità della Santa Sede come stato sovrano. L’8 febbraio 2005, ricevendo in Vaticano Condoleezza Rice, l’allora segretario di Stato Angelo Sodano chiese alla sua omologa negli Stati Uniti di intervenire in difesa dell’immunità della Santa Sede, chiamata in giudizio da un tribunale del Kentucky. Il che avvenne.
In Italia, come è raccontato per esteso nelle pagine seguenti, le cifre degli abusi sessuali commessi da preti sono meno impressionanti che negli Stati Uniti e in Irlanda. Ma anche qui c’è una crescente severità da parte della gerarchia della Chiesa. Il segretario generale della Conferenza episcopale, Giuseppe Betori, che nel 2002 definiva il fenomeno “talmente minoritario da non meritare attenzione specifica”, oggi promuove in ogni diocesi la costituzione di un centro Meter, l’associazione fondata dal sacerdote Fortunato Di Noto per combattere la pedofilia.
Anche Ratzinger, quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, era meno intransigente di oggi. I delitti contro il sesto comandamento (quello che dice: non commettere atti impuri) erano di competenza esclusiva della sua congregazione, ma in vari casi denunce anche molto circostanziate non trovavano in essa alcun seguito. Ancora nel novembre del 2002, quando lo scandalo negli Stati Uniti era all’acme, Ratzinger minimizzò il numero dei preti colpevoli: “meno dell’1 per cento”, e attribuì l’esplosione dello scandalo soprattutto al “desiderio di screditare la Chiesa”.
Poi però cambiò strada. Era l’autunno del 2004 e Ratzinger ordinò al promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede di ripescare negli scaffali tutti i processi dormienti riguardanti il sesto comandamento. L’ordine era: “Ogni causa deve avere il suo corso regolare”. In altre parole: nessuno poteva più essere ritenuto intoccabile, nemmeno tra i protetti dell’allora potentissimo cardinale Sodano e nemmeno tra i prediletti del papa regnante Giovanni Paolo II.
Cominciarono o ricominciarono così, tra le altre, le investigazioni contro due fondatori di ordini religiosi con forti appoggi nella curia: l’italiano Gino Burresi, fondatore dei Servi del Cuore Immacolato di Maria, e il messicano Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, entrambi accusati di abusi sessuali contro loro giovani seminaristi e discepoli e di gravissime violazioni del sacramento della confessione.
La morte di Giovanni Paolo II e la successiva elezione a papa di Ratzinger non fermarono le indagini ordinate da quest’ultimo. Anzi. Nel maggio del 2005, il primo atto firmato dal nuovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’americano William J. Levada, fu proprio la condanna di Gino Burresi, il primo dei due fondatori di ordini religiosi sopra citati. La condanna aveva l’approvazione di Benedetto XVI ‘in forma specifica’, che non ammette appello.
La sentenza sul fondatore dei Legionari di Cristo richiese più tempo e dovette superare più resistenze. Quando ‘L’espresso’, il 20 maggio 2005, diede notizia circostanziata degli interrogatori in corso, la segreteria di Stato vaticana reagì asserendo che “non vi è nessun procedimento canonico in corso né è previsto per il futuro nei confronti di p. Maciel”. Di vero, nell’apparente smentita, c’era che la Congregazione per la dottrina della fede risparmiava il processo canonico a Maciel per ragioni di salute e di età, 86 anni. Ma la condanna arrivò inesorabile un anno dopo: revoca di ogni ministero pubblico e “vita riservata di preghiera e di penitenza”. Poco dopo Benedetto XVI congedò il cardinale segretario di Stato, Sodano.
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La mala educación di padre Renato
Padre Renato era convinto di educare i giovani all’omosessualità. Nell’appartamento in affitto, al terzo piano di un palazzo di via Durundo, a Mondovì, salivano decine di ragazzini, tutti fra i 14 e i 17 anni, qualcuno italiano, molti stranieri. Don Renato pagava con caramelle, schede telefoniche e poche manciate di euro i loro servizi. Che consistevano nel mettere in pratica il rito antico detto del ‘frocio romano’. Il sacerdote amava essere spogliato, lavato e messo a letto dai giovanissimi. Efebofilia più che pedofilia vera e propria. La squadra mobile di Cuneo, diretta dal commissario capo Tommaso Pastore, nel 2005 ha intercettato per mesi quello che avveniva dentro l’appartamento e ha filmato il via vai di minorenni che trascorrevano i pomeriggi o le sere dal sacerdote. Don Renato, 43 anni, vicario della diocesi di Albenga e Imperia, li aveva convinti inventandosi una fantomatica associazione, sponsorizzata dal Comune, che si proponeva di avviare i giovani omosessuali a un corretto comportamento sessuale. Ai più bravi, a quelli che gli procuravano i numeri di telefono di altri coetanei, dava un premio di 10 euro. Fra i suoi passatempi preferiti c’era quello di portare il ragazzo di turno a vedere il film ‘La mala educación’, di Pedro Almodóvar. Finché, alla fine di giugno dello scorso anno, i poliziotti lo hanno arrestato con l’accusa di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Durante l’interrogatorio condotto dal sostituto procuratore di Mondovì, Riccardo Baudinelli, il sacerdote ha confessato di aver avuto un solo rapporto sessuale con un ragazzo di 16 anni.
Il prete è ricorso al patteggiamento ed è stato condannato ad una pena di pochi mesi. Negli atti processuali però non compaiono le scabrose e inequivocabile intercettazioni delle telefonate che don Renato aveva con un altro religioso di Roma. Sul prelato romano non è stata avviata alcuna indagine.
- S. T.
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Fedeli fino all’omertà
di Marco Lillo
Le rivelazioni di un tredicenne, i riscontri dei giudici. Ma l’arresto di due preti mobilita i parrocchiani. In loro difesa.
La difesa di un’intera comunità contro la parola di un ragazzino rom di 13 anni. Le fiaccolate contro i rapporti di Polizia. È questa la strana reazione delle parrocchie dei due sacerdoti arrestati nell’ultimo blitz anti-pedofilia. A Prato come a Roma, le comunità si chiudono a difesa dei loro religiosi. Don Domenico Repice, 39 anni, romano, collaboratore della parrocchia di San Giustino nel quartiere Alessandrino, è ai domiciliari con l’accusa di avere pagato un 13enne per fare sesso in auto. Con l’aggravante di averlo cacciato a calci per non dargli tutti i soldi, minacciando: “Sono un poliziotto”. Oltre alle parole del ragazzino, contro di lui c’è solo la segnalazione, in una sera diversa, della sua auto nella strada della prostituzione minorile. Lui, a chi lo chiama, ripete: “Sono innocente, mi credi, vero?”. I giovani che chiacchierano davanti a San Giustino, in questa strana periferia romana che sembra più un paese, rispondono sì: “È venuto in gita con noi a Colonia, mai un gesto o una parola fuori posto”. La titolare della pizzeria vicino alla chiesa sentenzia: “Non si può crocifiggere un uomo sulla parola di uno zingarello”. Don Mimmo insegnava al liceo artistico De Chirico, al Tuscolano. Anche lì il muro di solidarietà tiene. La preside sottolinea che “si è fatto da parte anche se è solo indagato”; la vicepreside si commuove per lui, gli alunni sottolineano che, durante le cene di classe, quando si facevano le ore piccole cantando a squarciagola Baglioni, o nelle gite a Firenze, ci sarebbe stata pure l’occasione. E invece niente: “Don Mimmo è un prete vero”. Pronto alla battuta sulla sua squadra, la Roma, ma inflessibile sulla dottrina. Solo a parlare di aborto e fecondazione si inalberava. I suoi alunni dicono: “Sarà stato uno zingaro a cui ha negato i soldi a fargliela pagare”. Stesso ritornello a Prato. L’onda calda di solidarietà all’altro sacerdote agliarresti domiciliari per l’indagine coordinata dal capo della squadra mobile di Roma, Alberto Intini, è ancora più forte e sorprendente. Non capita tutti i giorni un parroco nigeriano accusato di abusi sui minori: padre Denis è accusato di avere passato una notte in una pensioncina con lo stesso ragazzino che ha chiamato in causa don Mimmo. Contro di lui c’è la registrazione in albergo e il riconoscimento del tredicenne. L’ultima volta che il suo lungo nome (Georgedenis Onyebuchi Asomugha, per tutti Denis) era finito sui giornali, era stato un anno fa. Il quotidiano dei vescovi, ‘Avvenire’, aveva dedicato un ritratto a questo sacerdote nero piovuto dalla Nigeria. “La chiesa di Galcetello è rinata con lui”, dicono in coro le massaie in fila al supermercato che affianca la chiesa. “Ci sono 80 miei coetanei pronti a dirti cosa ha fatto per noi”, ti sfida la ragazza del gruppo giovani affranta sulla panchina. Ora che si trova agli arresti domiciliari nella stessa chiesa che aveva inserito nel progetto Nip, Nuova immagine della parrocchia, qualcuno potrebbe ironizzare sul parroco aperto ai giovani. Invece sono tutti preoccupati per lui, non per i ragazzi. “Mia figlia continua a seguire il catechismo per la comunione. Se padre Denis tornasse libero”, dichiara la parrucchiera, “la lascerei lì”. Al bar strappano il quotidiano che pubblica le accuse contro il sacerdote: “Padre Denis qui non ha mai pagato una colazione, era sempre offerta in segno di stima”. Tra le villette a schiera che compongono questo borgo elegante le domande provocano solo fastidio. Non ci sono cinesi. E i figli degli impiegati delle aziende tessili che rappresentano l’ossatura di questo quartiere non mollano il loro parroco. Ogni mattina don Denis si sveglia e scorge dalla finestra lo striscione colorato con su scritto: ‘Noi ci siamo’. Hanno organizzato una fiaccolata con il vescovo e intonano canti sacri sotto la sua dimora coatta. Se gli fai notare che sono coetanei del ragazzino rumeno che si è venduto per pochi euro, ti guardano con gli occhi stupiti: “Siamo stati in auto con lui, anche di sera. O a giocare al calcetto o sotto lo stesso tetto in gita. Un mese prima di quella sera di aprile di cui parla l’accusa, Denis era a Roma con noi. Semplicemente, non possiamo crederci”. Solo una signora di mezza età azzarda una maldicenza: “Spendeva molti soldi in biancheria intima”. L’ultima mangiapreti sopravvissuta in questo lembo di Toscana, dove si sentono più ave marie che bestemmie. A mandare avanti la parrocchia ora è rimasto padre Collins, il viceparroco, nigeriano anche lui. Dice solo: “Preghiamo perché la verità prevalga”.
(http://espresso.repubblica.it – 20 novembre 2006)
http://www.donvitaliano.it/?p=503
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