Nell’arco dell’ultimo ventennio, lo scandalo degli abusi sessuali sui minori ha aperto una crisi drammatica nel cattolicesimo mondiale e prodotto cambiamenti profondi, in parte senza precedenti, nella chiesa di Roma. Da una parte si è affermato un principio di responsabilità – prima negato e occultato – di fronte a delitti considerati gravissimi dall’opinione pubblica e da molte legislazioni civili, allo stesso tempo è entrato in discussione il clericalismo inteso come potere separato e intangibile della chiesa e dei suoi apparati. Su questo secondo aspetto, peraltro, è in corso una battaglia culturale all’interno delle stesse gerarchie ecclesiastiche tutt’altro che conclusa.
Il momento di svolta in questa storia è il 2001: quell’anno esplodeva infatti il caso dell’arcidiocesi di Boston portato definitivamente alla luce nei mesi successivi dal Boston Globe attraverso l’ormai storica inchiesta che si è aggiudicata il premio Pulitzer ed è diventata un film da Oscar nel 2016, Il caso Spotlight. Qualcosa di paragonabile – per impatto sull’opinione pubblica e costruzione del mito del giornalismo a stelle e strisce – era avvenuto solo con lo scandalo Watergate, l’evento che contribuì alle dimissioni di Richard Nixon, da cui pure venne tratto un celeberrimo film, Tutti gli uomini del presidente.
Dopo l’inchiesta circa settanta sacerdoti furono accusati di abusi commessi nel corso di alcuni decenni a Boston. Il cardinale arcivescovo della città, Bernard Law, si dimise nel 2002 e di lì a poco si trasferì a Roma, sfuggendo così ai procedimenti giudiziari nei quali era coinvolto per aver coperto i colpevoli, nascosto i delitti e fatto pressione in vari modi sulle vittime e sulle loro famiglie affinché mantenessero il segreto. Law, tra le proteste delle organizzazioni delle vittime e di molti fedeli, fu nominato da Giovanni Paolo II arciprete della basilica di Santa Maria maggiore, a Roma, uno dei più importanti luoghi di culto cattolici al mondo. Vi rimase dal 2004 al 2011. Nel 2017 è morto.
Il processo in Australia
In questa primavera 2018 altri fatti raccontano, in modo diverso, la stessa storia. Lo scorso 1 maggio il cardinale George Pell è stato rinviato a giudizio da un tribunale australiano relativamente a diversi casi di abusi su minori, che sarebbero avvenuti in due momenti diversi: tra gli anni settanta e ottanta del novecento a Ballarat, paese di origine di Pell, da cui prese il via la sua carriera ecclesiastica; e tra la fine degli anni novanta e il 2000 a Melbourne, città in cui ricopriva la carica di arcivescovo. Altre accuse sono state respinte dalla giudice Belinda Wellington che, dopo aver ascoltato per un mese una cinquantina di testimonianze contro e a favore dell’accusato, ha deciso che il processo poteva avere luogo.
Il caso Pell ha alcune implicazioni notevoli. Il cardinale infatti era, fino a un anno fa, il prefetto della segreteria per l’economia, ovvero il capo del nuovo superdicastero creato da papa Francesco per mettere ordine nelle opache finanze vaticane. Il porporato, tuttavia, una volta che l’iter giudiziario ha preso il via in Australia, ha lasciato il suo posto – assecondando in tal modo una richiesta dello stesso Bergoglio – e si è presentato davanti al tribunale australiano per difendersi dalle accuse, rivendicando sempre la sua innocenza.
Per ora, fa sapere la Santa Sede, “resta in congedo”, in attesa della fine del procedimento. Un po’ in omaggio al principio di non colpevolezza fino al pronunciamento della sentenza, un po’ perché nominare un secondo ministro delle finanze dopo un simile passo falso, non è così facile neanche per il papa.
I problemi di Pell erano noti da tempo. Sia quando era a capo della chiesa australiana sia da prefetto dell’economia in Vaticano, il cardinale aveva dovuto difendersi dalle accuse di abusi sui minori davanti a due commissioni – una dello stato di Victoria e una della Royal commission. In quelle circostanze aveva di fatto ammesso le proprie responsabilità circa silenzi e coperture, adducendo alcune attenuanti tra le quali la scelta – sia pure giudicata a posteriori come un grave errore – di mettere al primo posto la difesa del buon nome dell’istituzione.
Il processo in corso è stato accompagnato da infinite polemiche pro e contro il cardinale. Pell è stato una personalità chiave della chiesa australiana e dell’establishment del suo paese, un esponente dell’ala più tradizionalista della gerarchia cattolica sul piano dottrinario e un fautore del liberismo in economia. Tra le sue caratteristiche una buona dose di schiettezza, la capacità di lottare per le proprie idee pubblicamente, nonostante i dissensi e le critiche, e la passione – autentica – per le finanze.
Il cardinale è entrato in conflitto con il papa sui temi etici, sulla concezione della famiglia, sulle aperture ai divorziati risposati e agli omosessuali. Pell è stato anche l’unico alto esponente vaticano ad aver scritto, nero su bianco, quale fosse il risarcimento pagato dalla Santa Sede allo stato italiano per il crac del Banco ambrosiano, ovvero 406 milioni di dollari. Ancora, davanti alla commissione dello stato di Victoria nel 2013, aveva riconosciuto – e si tratta di una rarità nel mondo ecclesiastico – che il celibato obbligatorio poteva essere all’originedi alcuni casi di abuso sui minori. Figura controversa per eccellenza, amico dell’Opus dei e vicino ai circoli finanziari più conservatori, ora dovrà affrontare un procedimento non facile sotto il profilo giuridico.
Quando si parla di Pell, non bisogna perdere di vista il contesto: l’Australia è stata sconvolta dalle indagini sulla pedofilia che hanno portato alla luce una realtà sconcertante fatta di decine di migliaia di casi avvenuti tra il 1950 e il 2010, il 60 per cento dei quali all’interno di strutture religiose. La vicenda, definita dalle stesse istituzioni australiane “una tragedia nazionale”, ha rotto in modo traumatico il rapporto di fiducia tra la chiesa e le persone, tanto che lo stesso episcopato australiano ha convocato un concilio plenario nel 2020 (l’ultimo si è tenuto nel 1937) per affrontare la situazione; una decisione in linea con quel rilancio del decentramento sinodale, del ruolo e dell’autonomia decisionale delle chiese locali, promosso da Francesco come strategia di riduzione del centralismo romano.
Cile, abusi, dittature e silenzi
L’altro grande nodo venuto al pettine in questi mesi riguarda il Cile. La vicenda ha complesse diramazioni, ma il canovaccio centrale lungo cui si snoda contiene già tutti gli elementi essenziali del problema. Un sacerdote, Fernando Karadima, 87 anni, responsabile di decine di abusi sessuali, è stato anche strettamente legato ad alcune figure dell’alta borghesia cilena e a pezzi di establishment reazionario del suo paese, ha avuto frequentazioni con la giunta militare di Augusto Pinochet ed è stato in ottimi rapporti con il cardinale Angelo Sodano, ex nunzio apostolico in Cile e poi a lungo segretario di stato vaticano, uomo chiave del potere wojtyliano.
Karadima ha inoltre fondato un’organizzazione, la Pia unione sacerdotale, attorno alla quale, tra gli anni settanta e ottanta del novecento, gravitavano politici, ministri della giunta militare, gerarchie ecclesiastiche. Diversi sacerdoti hanno fatto carriera grazie a Karadima, e alcuni sono diventati vescovi.
Con il passare del tempo però gli abusi di Karadima sono venuti alla luce grazie alle denunce delle vittime. Il sacerdote ha subìto un processo canonico nel 2010, durante il quale è stato riconosciuto colpevole, e la Santa Sed ha respinto ogni appello per modificare la sentenza. Nel frattempo, e parallelamente, è emersa la figura di monsignor Juan Barros Madrid, vescovo della città di Osorno, nel sud del Cile. Barros – ripetevano le vittime di Karadima – aveva assistito agli abusi, ne era a conoscenza, eppure non era stato mai allontanato dagli incarichi che ricopriva, anzi aveva fatto carriera, difeso e tutelato dai più alti esponenti della gerarchia ecclesiastica. La vicenda ha provocato un’ondata di indignazione nel paese, allontanando moltissimi fedeli dal cattolicesimo.
Nel gennaio scorso il papa, durante la visita in Cile e Perù, ha difeso a spada tratta Barros, evocando esplicitamente una sorta di complotto di sinistra, laicista e anticlericale, contro la chiesa. Le accuse contro di lui erano infondate. La presa di posizione del papa è esplosa come una bomba sulla stampa di mezzo mondo, suscitando reazioni critiche anche in ambienti cattolici. Francesco ha fatto una prima parziale marcia indietro sul volo di ritorno verso l’Italia, chiedendo scusa alle vittime per le sue parole, senza però cedere sulle responsabilità Barros.
A quel punto sono cominciate ad arrivare critiche al papa anche dai vertici della chiesa – un altro fatto inedito. Il cardinale Sean Patrick O’Malley, capo della pontificia commissione per la tutela dei minori, che ha preso il posto di Law a Boston dopo gli scandali, ha dichiarato: “È comprensibile che le parole di papa Francesco in Cile siano state fonte di grande dispiacere per le vittime di abusi sessuali da parte del clero”. Dunque, il papa aveva sbagliato.
Da lì in poi le cose hanno preso un corso imprevedibile: Francesco ha mandato una commissione d’inchiesta fidata e indipendente in Cile, quindi ha fatto sapere di essere stato male informato da alcuni dei suoi collaboratori sul caso Barros. Infine, tra aprile e inizio maggio, le tre vittime più note di Karadima, oggi accusatrici di Barros e dei vertici della chiesa cilena, sono state ricevute in vaticano nella residenza Santa Marta.
Le vittime in Vaticano
Juan Carlos Cruz, James Hamilton e Andrés Murillo hanno parlato a lungo con Francesco, e secondo quanto hanno detto loro stessi non ci sono state censure o paure. Ma hanno anche aggiunto: “Non spetta a noi portare avanti le necessarie trasformazioni nella chiesa per fermare l’epidemia degli abusi e degli insabbiamenti sessuali. Speriamo che il papa trasformi le sue amorevoli parole di perdono in azioni esemplari, altrimenti tutto questo resterà lettera morta”.
Il passo successivo sarà l’inevitabile rifondazione della chiesa cilena, anche perché negli insabbiamenti degli abusi sono coinvolti ben due cardinali, Ricardo Ezzati Andrello e Francisco Javier Errázuriz Ossa, entrambi ex arcivescovi di Santiago del Cile. Errázuriz Ossa è stato anche uno dei più stretti collaboratori di Bergoglio.
Il tema resta quello della governance interna alla chiesa e del messaggio che la Santa Sede sarà in grado di trasmettere al mondo. Dimissioni e prepensionamenti di vescovi e cardinali cileni coinvolti nello scandalo saranno un segno di svolta. L’ammissione del proprio errore – e che errore – da parte del vescovo di Roma, pone le basi per una nuova assunzione di responsabilità da parte della chiesa. La vicenda ha segnato il pontificato, che ha creato un dicastero apposito, la Pontificia commissione per la tutela dei minori, poi entrato in crisi per il conflitto tra alcune vittime, i componenti laici dell’organismo e alcuni settori della curia refrattari ad accettare il ruolo decisionale del nuovo dicastero, ritenuto tropo laico e con troppe donne al suo interno.
Marie Collins, irlandese, una vittima, esperta di tutela dei minori, si è dimessa nel marzo 2017 in polemica con il Vaticano e in particolare con la Congregazione per la dottrina della fede. Al centro dello scontro, i poteri reali della pontificia commissione e la possibilità o meno di istituire un tribunale vaticano per processare i vescovi colpevoli di insabbiamento. Nel luglio del 2017, però, anche il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, leader dei conservatori contro Francesco, ha lasciato il suo incarico a causa, tra le altre cose, di una gestione troppo burocratica dei casi di pedofilia.
Chiesa e società
Lo scandalo abusi, dunque, ha fatto emergere diverse questioni relative al potere clericale, al rapporto tra giustizia civile e canonica, al celibato e alla sessualità, all’assenza di donne ai vertici della chiesa. In sostanza è entrata in crisi la relazione tra chiesa e società civile.
Tra i documenti che saranno ricordati e studiati dagli storici ci sono ben due drammatiche lettere aperte scritte dagli ultimi due pontefici proprio dopo gli scandali legati agli abusi sui minori: la prima, di Benedetto XVI, indirizzata nel 2010 ai cattolici d’Irlanda; e la seconda di Francesco ai vescovi del Cile. In quest’ultima si fa riferimento tra l’altro a “tante vittime di gravi abusi di coscienza e di potere” e agli “abusi sessuali commessi contro minorenni da diversi consacrati del vostro paese, che sono stati negati al momento e che hanno rubato loro l’innocenza”.
Ratzinger esprimeva “la convinzione che, per riprendersi da questa dolorosa ferita, la chiesa in Irlanda deve in primo luogo riconoscere davanti al Signore e davanti agli altri, i gravi peccati commessi contro ragazzi indifesi. Una tale consapevolezza, accompagnata da sincero dolore per il danno arrecato alle vittime e alle loro famiglie, deve condurre ad uno sforzo concertato per assicurare la protezione dei ragazzi nei confronti di crimini simili in futuro”.
Anche in Irlanda, il lavoro condotto da una lunga serie di commissioni d’inchiesta governative aveva portato alla luce uno scenario terribile fatto di migliaia di abusi avvenuti in molte istituzioni cattoliche alle quali era stato affidato una parte consistente del sistema scolastico e formativo del paese. All’enormità dello scandalo ha fatto seguito una decisa accelerazione sulla strada della laicità nella sensibilità collettiva del paese e forse una presa di distanza dalla cultura cattolica tout-court; in questa prospettiva può essere letta l’approvazione per via referendaria dei matrimoni gay nel maggio del 2015.
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