Lentamente, un passo alla volta, papa Bergoglio consolida la struttura normativa con cui intende prevenire e contrastare la pedofilia nel clero ecclesiastico. Ultima tappa è il motu proprio “Come una madre amorevole” mediante il quale, tra le «cause gravi» già previste dal Diritto canonico per la rimozione di un vescovo dall’ufficio ecclesiastico, ha incluso la negligenza rispetto ai casi di abusi sessuali. Una misura a questo punto inevitabile.
La scarsa considerazione delle denunce di vittime e familiari e i trasferimenti dei sacerdoti “problematici” sono state tra le cause principali della diffusione della pedofilia nel clero dal secondo Novecento, e sono da tempo al centro dei pensieri di Bergoglio. In particolare da quando il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia ha accusato la Santa Sede di gravi negligenze nella gestione delle denunce e dei casi di pedofilia. Era il 5 febbraio 2014. «Il Comitato è fortemente preoccupato perché la Santa Sede non […] ha preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso sessuale e per proteggere i bambini, e perché ha adottato politiche e normative che hanno favorito la prosecuzione degli abusi e l’impunità dei responsabili», si legge nel passaggio chiave della relazione che concluse l’indagine Onu da cui emergeva che la Chiesa di Roma tra il 1990 e il 2013 ha ripetutamente e palesemente violato la Convenzione sui diritti dell’infanzia. A cominciare dalla clausola ineludibile che obbliga i Paesi firmatari ad adottare ogni misura possibile per tutelare i diritti fondamentali dei minori e per proteggere la loro crescita da qualsiasi situazione a rischio. In Italia se ne è parlato poco e male ma l’accusa non aveva precedenti nei confronti di uno Stato sovrano. La cultura della segretezza, sulla scia delle indicazioni del Crimen sollicitationis (1962) rinnovate nel De delictis gravioribus (2001), e il terrore in Vaticano dello scandalo pubblico, hanno avuto come conseguenza la distruzione della vita di migliaia di persone abusate e la diffusione planetaria del crimine in ambito ecclesiastico. «A causa di un codice del silenzio imposto su tutti i membri del clero, pena la scomunica – si legge nella relazione Onu – i casi di abuso difficilmente sono stati denunciati […]. Al contrario, sono stati riportati casi di suore e di sacerdoti, degradati e cacciati per non aver rispettato l’obbligo del silenzio, oltre a casi di preti che hanno ricevuto le congratulazioni per aver rifiutato di denunciare colleghi pedofili». La Santa Sede si difese esibendo come prova la creazione di una Commissione per la tutela dei minori composta da chierici e vittime. In effetti poco tempo dopo (marzo 2014) Bergoglio nominò i primi otto membri. Si devono anche ai loro consigli le misure varate dal papa argentino, tra cui l’inasprimento delle norme penali, il reato canonico di “abuso d’ufficio episcopale” e la creazione di un tribunale per i vescovi sospettati di aver coperto preti pedofili (2015). Di qui arriviamo al motu proprio del 4 giugno in cui si stabilisce che «in tutti i casi nei quali appaiano seri indizi» la Congregazione competente avvierà un’indagine che «può» concludersi con la rimozione del vescovo da parte del papa.
Il decreto anti-insabbiamento è di certo un segnale positivo, se pensiamo alle garanzie di impunità di cui i preti pedofili hanno approfittato per decenni, ma non una svolta come acriticamente è stato definito dalla stampa nostrana. Resta infatti immutato il concetto cardine di abuso. Le nuove norme non intaccano in alcun modo l’idea che si tratti di un delitto contro la morale, cioè di un’offesa a Dio in violazione del VI Comandamento. E qui sorge il problema. Perché l’abuso è altro. È un crimine dalla violenza inaudita contro persone inermi, che per le sue conseguenze può essere equiparato a un omicidio psichico. Usando un linguaggio medico, come si può pretendere di curare una malattia se la diagnosi è sbagliata? Prendiamo il Catechismo. Nei canoni 2351-56 si parla di sesso tra adulti fuori del matrimonio e di stupri di donne e bambini come se fossero la stessa cosa: tutte «offese alla castità». Cioè non si distingue un rapporto tra persone con un’identità sessuale definita, consapevoli e consenzienti, dalla violenza sul bambino. Il tutto in coerenza con la norma canonica che definendo la pedofilia «attività sessuale di un chierico con un minore» pretende che anche il bimbo abbia una sua attività sessuale, denotando una visione falsa della sua realtà umana. Perché, in estrema sintesi, prerequisito indispensabile per poter parlare di sessualità è il pieno sviluppo degli organi genitali che avviene alla pubertà. Prima c’è un rapporto affettivo e profondo con il padre, la madre, il fratello, l’amico o gli insegnanti. È di questa dimensione che approfittano i pedofili. E qui entra in gioco una grande ambiguità specifica della pedofilia clericale, quella del farsi chiamare “padre” da parte dei sacerdoti. Per il bimbo che vive una situazione familiare critica – la vittima ideale – questo appare come un tentativo di ricostruire almeno il rapporto con il genitore, che però non è reale perché nessun prete è padre di nessuno. È questa ambiguità “calcolata” che apre la strada alla violenza psicofisica celata dietro una richiesta affettiva del bimbo. Ed è su queste conoscenze acquisite sulla realtà umana e sul profilo criminale del pedofilo che dovrebbe basarsi una strategia che ha come obiettivo la “tolleranza zero”, cioè la prevenzione degli abusi e la presa in carico dei responsabili e di chi li copre.
Federico Tulli è giornalista e scrittore, ha pubblicato di recente “Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos” (L’Asino d’oro, Roma 2015)
* Immagine di Felipe Barra Ministério da Defesa, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite
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