La Cassazione riapre, con le motivazioni dell’annullamento della condanna in primo e secondo grado a 5 anni e mezzo, il caso di don Mauro Galli, l’ex coadiutore della parrocchia di Sant’Ambrogio a Rozzano imputato di violenza sessuale per avances che avrebbe fatto il 19 dicembre 2011 a un 15enne del quale era padre spirituale, educatore ed insegnante: alla base del ribaltone, per la Suprema Corte, è «il tardivo disvelamento» della violenza raccontata dal ragazzo solo dopo tre anni, il che «induce a perplessità non adeguatamente spiegate dai giudici di merito» e «impone pertanto una complessiva rilettura del percorso argomentativo» da affidare a un nuovo processo d’Appello.
La dinamica dei fatti si compone di due fasi, una pacifica perché ammessa anche dal prete e l’altra invece controversa: la tesi d’accusa è infatti che il giovane, di cui i genitori avevano concordato con il sacerdote un pernottamento nell’abitazione del prete in attesa delle preghiere del giorno seguente, fosse stato costretto a subire le avances del sacerdote con il quale condivideva il letto, nel corso di una notte seguita a una coinvolgente confessione «che lo aveva messo in mano» dell’imputato.
La prima parte, cioè l’avere ospitato il ragazzo nel proprio letto, era stata subito ammessa da don Galli, che per la palese inopportunità di questo comportamento era stato trasferito dal vicario generale della diocesi Carlo Redaelli da Rozzano a Legnano in affidamento a due sacerdoti e a uno psicologo, e poi nel luglio 2012 dal vicario generale Mario Delpini (attuale arcivescovo di Milano) lontano dal contatto con i minori, prima all’ospedale Niguarda come cappellano e poi a Roma in un istituto religioso di studi. Soltanto nel 2014 il ragazzo aveva fornito una nuova versione nella quale per la prima volta aggiungeva di aver dovuto resistere a pesanti approcci sessuali del sacerdote: denuncia dopo la quale la giustizia ecclesiastica nel maggio 2015 aveva sospeso don Galli da sacerdote.
Le sentenze di condanna in Tribunale e in Appello spiegano il silenzio triennale del ragazzo con «il suo stato di affermata totale soggezione nei confronti dell’imputato». Ma per la Cassazione «non è adeguata giustificazione logica del silenzio la (residua) soggezione nei confronti di chi già tre anni prima, subito, aveva visto «nel breve volgere di qualche ora la distruzione della sua immagine pubblica e della sua stessa autorità ecclesiale, irrimediabilmente azzerate tanto nei rapporti con i superiori ecclesiastici (dai quali, ben presto informati e giustamente adirati, era stato emarginato), quanto nel giudizio della famiglia della persona offesa (altrettanto doverosamente infuriata)».
Scopri di più da Rete L'ABUSO
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.