Don Marino Genova inizia ad abusare di Giada quando lei ha appena 13 anni. Viene processato e, per le violenze successive al 14esimo anno d’età, prosciolto. Da quel momento, per i giudici, lei era consenziente
di Federico Tulli
Don Marino Genova aveva 55 anni quando accolse Giada Vitale nel coro della sua parrocchia a Portocannone, un paesino di 2.600 abitanti in provincia di Campobasso. Giada aveva 13 anni. Orfana di padre a tre anni, la bambina viveva in una situazione prossima all’indigenza, con la madre che per unire il pranzo con la cena faceva pulizie per conto della diocesi. «Ho subito gli abusi di don Marino dall’aprile del 2009 e la violenza è proseguita per oltre tre anni», racconta a Left la giovane donna che ha compiuto 21 anni nel giugno scorso.
Nell’ottobre del 2012 Giada riesce a sottrarsi al giogo del sacerdote e dopo diversi ricoveri causati da uno stato di profonda prostrazione psico fisica, viene convinta da una sua compaesana a raccontare tutto al vescovo, monsignor Gianfranco De Luca, capo della diocesi di Termoli-Larino (Campobasso). «A Portocannone non c’è una stazione dei carabinieri» risponde quando le chiediamo perché non si sia rivolta alle forze dell’ordine. «Nel mio paese c’è la chiesa, c’è una piazza e c’è il Comune, quando succede qualcosa ci si rivolge al prete. Ricordo che non ci abbiamo pensato per niente, siamo andate direttamente dal vescovo».
Sulla reazione e sul sostegno dei familiari, data la siuazione, per Giada era difficile contare. «Una volta lo dissi a mia madre» racconta. «Ricordo che piangevo tanto. Lei mi chiese perché piangevo. Poi le dissi che don Marino mi aveva baciato in bocca. Ma lei non mi credette e non parlai più con nessuno». Monsignor De Luca, invece, chiese spiegazioni a don Marino Genova il quale ammise. Non gli abusi, ma di aver avuto una relazione con Giada. «L’ho solo toccata qualche volta» si leggerà nei successivi atti dell’inchiesta giudiziaria. Per la Chiesa don Marino era comunque presunto colpevole di atti sessuali con una minore. Si tratta di uno dei cinque delitti morali più gravi: la violazione del VI comandamento, Non commettere atti impuri.
Come prevede la prassi seguita dalla Conferenza episcopale il vescovo non lo denunciò alla magistratura italiana. Si limitò a consigliare Giada di farlo. «All’inizio – ci racconta – rimasi spaventata dall’idea di denunciarlo. Mia madre non mi credeva e don Marino era benvoluto da tutti in paese. Sarei rimasta sola contro tutti. Ma alcuni mesi dopo aver parlato con De Luca seppi che aveva allontanato il mio abusatore da Portocannone. Era a Termoli, dove diceva tranquillamente messa e dava la comunione in ospedale. A quel punto qualcosa è scattato, mi sono fatta forza e sono entrata in procura». È l’aprile del 2013. A ottobre dello stesso anno il sacerdote viene sospeso per due anni “a divinis” (interdizione dalle funzioni sacerdotali) dalla Congregazione per la dottrina della fede, l’organo della Santa Sede che giudica questi casi.
Ed è inviato a espiare la sua punizione mediante preghiere e penitenze in una delle strutture ecclesiastiche specializzate nel recupero di «sacerdoti in difficoltà»: l’Oasi di Elim a Roma. Varcata la soglia della procura, però, la giovane precipita verso un altro abisso, quello di una legge che sanziona la condotta del pedofilo fino al compimento dei 14 anni. Dopo di che, basta tutele. «La legge – osserva Giada – stabilisce che un adulto può fare sesso con una 14enne, purché lei sia consenziente e non abbia subito delle pressioni tali da essere considerata incapace di intendere e di volere. Io sono stata annichilita da quel “padre” ben prima dei miei 14 anni e per tutta la durata degli abusi, come dimostra anche una perizia psichiatrica che ho presentato ai giudici». Un documento da cui si evince che il prete ha approfittato del suo ruolo, del suo carisma e della perdita precoce dalla figura di riferimento maschile di Giada. «Ma per il pubblico ministero questa mia condizione di inferiorità non esisteva e ha chiesto l’archiviazione» riferisce esterrefatta.
Dall’indagine, scrive il pm nella richiesta, «emergerebbe la permanenza ininterrotta per anni, da parte della giovane, di una condizione di assoluto consenso, al più soggezione, nella fase iniziale: anche nelle prime fasi investigative la persona offesa afferma di essere ancora innamorata del sacerdote». Alcuni mesi dopo l’opposizione all’archiviazione presentata immediatamente dai legali di Giada Vitale, don Marino Genova è stato rinviato a giudizio per le accuse relative all’arco di tempo precedente al compimento dei suoi 14 anni, cioè prima del 20 giugno 2009. «C’è stata solo un’udienza tecnica a gennaio 2016, io sarò ascoltata il 20 dicembre prossimo», sottolinea la ragazza. Nel frattempo, il primo giugno scorso il Gip di Larino ha respinto il suo ricorso senza nemmeno predisporre una consulenza tecnica d’ufficio per valutare la condizione psicofisica della vittima degli abusi. «Il Gip ha annullato tutto quello che mi è successo dal 20 giugno 2009 in poi. Perché secondo lui, come per il pm, quando è scattata la mezzanotte del giorno in cui ho compiuto 14 anni io sono diventata consenziente».
Come se non ci fosse stata continuità tra gli abusi subiti a 13 anni e quello che è successo dopo, come se la condizione di soggezione fosse evaporata nel giorno del suo 14esimo compleanno. Ma Giada si fa forza e continua la sua battaglia. «È disgustoso tutto questo. Non è giusto, perché don Marino Genova mi ha rovinato la vita. E loro stanno continuando a rovinarmela». Si riferisce in particolare al passaggio dell’ordinanza in cui il Gip Daniele Colucci scrive: «…In ogni caso, anche ai fini anche della definizione della carenza dell’elemento psicologico, va osservato che il Genova non è uno psicologo e nel rapportarsi alla ragazza non le somministrava il Minnesota o altri test, per cui non poteva configurare o riconoscere uno stato di deficienza psichica della Vitale…». In sostanza don Genova è stato assolto perché non essendo uno psicologo, non poteva accorgersi della sofferenza mentale inferta alla ragazzina. Un’affermazione che ha provocato la reazione indignata della consigliera regionale del Molise Nunzia Lattanzio. Nei giorni scorsi ha annunciato in una nota che chiederà a papa Bergoglio la destituzione dallo stato clericale per don Genova. Quanto al giudice di Larino, osserva Lattanzio, «nel rispetto pieno della decisione assunta dal magistrato, è doveroso e opportuno tuttavia esprimere pieno dissenso per quelle dichiarazioni. Stando alla sentenza, ci resta solo da sperare che l’intero universo maschile possa essere interamente popolato da psicologi, detentori esclusivi della capacità di valutazione del livello di maturità del proprio interlocutore».
SE IL PARADOSSO SI CONSUMA NELLE AULE DI GIUSTIZIA
«È la credibilità della vittima a essere messa in discussione». Il parere dell’avvocato Mario Caligiuri
l proscioglimento di don Marino Genova influenzerà inevitabilmente l’esito del processo che lo vede imputato per gli abusi compiuti su Giada Vitale prima del 20 giugno 2009. All’avvocato Mario Caligiuri del foro di Roma, legale di numerosi minori vittime di pedofili, chiediamo di aiutarci a capire quali sono le criticità che si devono affrontare in casi di questo tipo. «Al di là della questione sulla condivisibilità tecnica del ragionamento seguito dal Gip di Larino nell’ordinanza, su cui si può discutere, il dato che sembra emergere da questa, così come in altre decisioni simili, è la messa in discussione della credibilità della vittima di violenza sessuale. E questo, a vent’anni dall’entrata in vigore della legge, è un paradosso. Proprio nel luogo che dovrebbe restituire dignità alle vittime, spesso si consuma il tradimento della fiducia nella giustizia. Con il rischio concreto di scoraggiare chiunque a denunciare gli abusi». Ciò che colpisce è la considerazione, o meglio, la scarsa considerazione, dello stato psico fisico della bambina per tutta la durata del “legame” e la convinzione dei magistrati che possa essersi innamorata del suo violentatore. La perizia di parte appare un documento irrilevante agli occhi del Gip. «Pensando alle garanzie costituzionali, che riguardano anche l’indagato, una perizia psichiatrica ordinata dal giudice avrebbe potuto consentire di verificare, da un punto di vista super partes, sia l’effettività che l’influenza del radicamento manipolatorio esercitato dal prete sulla bambina anche dopo il compimento dei 14 anni di età. Nonché la sussistenza, come sostenuto dalla sua difesa, dello stato psicopatologico ravvisato alla luce dell’articolata relazione medica prodotta e dei test psicologici somministrati». Il Gip, in qualità di organo di controllo delle indagini preliminari, ha dunque preferito agire come “perito dei periti”. È nelle sue facoltà. «Evidentemente ha ritenuto convincente la posizione difensiva dell’indagato e l’esito dell’audizione in forma protetta a cui era stata sottoposta la ragazza alla presenza della psicologa nominata dal Pm. Su questo aspetto devo dire che, purtroppo, accade di frequente che i giudici in una materia così delicata si assumano una tale responsabilità». Secondo Caligiuri non si può però sottovalutare che una persona abusata, specie in questa fascia di età, porti nel suo vissuto più intimo le tracce del trauma subito. Sono violenze che intaccano il “normale” sviluppo psichico di chiunque, «influendo radicalmente sulle scelte al punto da determinare una vera e propria crisi di autenticità, anche dei ricordi», spiega l’avvocato. E conclude: «L’approfondimento valutativo super partes avrebbe potuto contribuire a stabilire scientificamente se Giada, adolescente, era effettivamente in grado di comprendere, con un senso di maturità e piena consapevolezza di sé, ciò che le stava accadendo anche dopo i 14 anni».
Dal settimanale Left n. 38 in edicola fino al 23 settembre 2016
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