«Dovevamo lasciare l’aula per frequentare alcune lezioni di religione e andare nel seminterrato in una stanza chiamata “Sala dei Laboratori”. Venivano tirate grandi tende nere. Era qundi buio pesto quando accendeva il macchinario che proiettava le immagini su un grande schermo. Ricordo le vite degli apostoli, di Cristo e della Vergine Maria, in paesaggi magnifici. Era magico. Sento ancora il rumore che faceva ogni volta che inviava una nuova immagine. Potevo vedere ogni suo gesto, ma non diceva molto. Per tutto il tempo mi accarezzava. Come la maggior parte degli scolari, portavo i pantaloni corti».
I fatti risalgono agli anni Sessanta del secolo scorso a Bramois, un villaggio vicino a Sion, nel Vallese, Svizzera francese. A parlare è Gérard Falcioni, ormai adulto, che per anni ha denunciato, inutilmente, quello che gli era successo da bambino. «I vescovi minimizzavano – ricorda – mi dicevano che ero l’unico ad aver subito abusi in Svizzera». Il parroco è Simon Fournier, un uomo conosciuto e rispettato in tutto il circondario, mentre la famiglia Falcioni subisce una sottile discriminazione a causa delle origini italiane. Il prete lo sa e non a caso sceglie Gérard e la sorella minore come vittime: «puntava i più vulnerabili: i poveri, gli orfani, gli immigrati o quelli che erano già oggetto di qualche chiacchiera di paese – ricorda Falcioni – così, nel caso avessero raccontato quello che faceva, avrebbe potuto facilmente screditarli». È il solito modus operandi del predatore pedofilo: avvicinare chi è indifeso e poi esercitare sulla vittima (e spesso sulla sua famiglia) il suo potere, sicuro che nessuno oserà mettere in discussione la sacralità della figura sacerdotale. Don Fournier, però, sarà denunciato da un gruppo di genitori (tra cui quelli di Gérard) e infine condannato nel 1973 a diciotto mesi da un tribunale civile, che lo riterrà colpevole di «attentato al pudore dei bambini e oltraggio pubblico». La chiesa, imperterrita, continuerà a fare finta di nulla. Il prete, a cui era stato vietato di occuparsi dei bambini, sarà poi spostato in un’altra parrocchia e tutto verrà insabbiato. «Nessuno parlava del processo, la stampa taceva e tutti hanno continuato a pensare che mentissimo – ricorda Falcioni – mio padre, che aveva una piccola azienda, non ha più trovato lavoro in paese».
Dopo la pubblicazione nel 2002 del suo primo libro, L’etabli de la vie. J’ai été abusé à l’âge de cinq ans (Il banco di prova della vita. Sono stato abusato all’età di cinque anni, edizioni Mon Village 2002) in cui racconta la violenza subita da Fournier, Falcioni comincia a ricevere «una pioggia di testimonianze di altre vittime». Storie terribili, di ragazzini stuprati senza pietà e poi abbandonati al proprio destino, famiglie che non si danno pace per quello che è successo ai figli mentre vedono i responsabili fare carriera, sostenuti dal rispetto della comunità. Vite che spesso, nell’impossibilità di superare il trauma e di avere giustizia, hanno un esito tragico. «Erano almeno sessanta le vittime nel Vallese che si sono rivolte a me – racconta Falcioni a Domani – io ho riportato tutto al vescovo di Sion (Norbert Brunner, ndr) ma lui non solo ci riduceva al silenzio, ma ci disprezzava. Una vittima che parlava, lui la disprezzava». Molti, nell’impotenza e nell’abbandono, muoiono tragicamente. «In effetti, è spaventoso il numero di testimonianze che ho ricevuto in cui ci sono dei morti – scrive Falcioni in una lettera a un amico – Un terzo dei bambini abusati all’epoca è morto. Un altro terzo è scomparso, insieme alle famiglie».
Vent’anni dopo, finalmente, qualcosa è cambiato. La Conferenza dei vescovi svizzeri, la Conferenza centrale cattolica romana e le Comunità religiose cattoliche della Svizzera hanno incaricato una commissione indipendente dell’Università di Zurigo di indagare sulla realtà degli abusi in tutte le sei diocesi della Confederazione. I ricercatori – un team guidato da due donne, Monika Dommann e Marietta Meier – hanno potuto consultare liberamente gli archivi ecclesiastici, compresi quelli “segreti”, a cui ha accesso soltanto il vescovo, in cui vengono conservati gli atti dei processi penali ecclesiastici e quindi anche tutto ciò che riguarda l’abuso sessuale su minori di meno di sedici anni, considerato «reato in materia di costumi». Molti di questi archivi, in realtà, risultano lacunosi e frammentari per diversi motivi, non ultimo la distruzione di parte dei documenti secretati. Ai ricercatori non è stato invece permesso di visionare i documenti depositati alla Nunziatura apostolica e al Dicastero per la dottrina della fede, segno quanto mai evidente della non disponibilità del Vaticano a una politica di reale trasparenza sulla questione degli abusi, al di là di tutte le dichiarazioni di “tolleranza zero” fatte da papa Francesco.
Lo studio-pilota, sulla cui base verrà condotta un’analisi più approfondita nei prossimi due anni, è stato presentato il 12 settembre scorso e ha identificato 1002 casi di violenza dal 1950 ad oggi, 520 abusatori e 921 vittime, in maggioranza maschi (56 per cento) e in gran parte minorenni (74 per cento). Un numero certamente parziale ma già indicativo della pervasività del fenomeno a tutti i livelli, non soltanto nelle parrocchie ma in ogni contesto ecclesiale. Gli abusi riscontrati si concentrano infatti soprattutto nell’ambito della pastorale (in particolare durante i colloqui in confessionale o l’accompagnamento spirituale), ma anche in quello liturgico (soprattutto fra i chierichetti) e pedagogico (scuole religiose, campi estivi e in generale attività per l’infanzia e la gioventù). «Nel periodo considerato, abbiamo potuto appurare che in molti casi i vescovi hanno contibuito a insabbiare o a minimizzare gli abusi, evitando talvolta anche i necessari processi ecclesiastici e le misure prese erano spesso il trasferimento dei responsabili in altre diocesi o all’estero», sintetizza Vanessa Bignasca, ricercatrice del team di Zurigo.
Il presidente della Conferenza episcopale svizzera, il vescovo di Basilea Felix Gmür, si è detto sconvolto dal report di Zurigo e ha comunicato di voler creare un tribunale ecclesiale penale e disciplinare per la chiesa in Svizzera. Il nuovo tribunale ecclesiastico non prevarrà su quello dello Stato ma si occuperà delle sanzioni da adottare contro i membri del clero in caso di violazione di una legge ecclesiastica. Monsignor Gmür ha assicurato che incontrerà a breve le autorità vaticane, non solo per discutere della proposta ma anche per chiedere che gli archivi dei Dicasteri vengano messi a disposizione del team di Zurigo nel proseguimento dell’indagine.
Intanto, sette parrocchie della diocesi di Lucerna hanno smesso di pagare le tasse ecclesiastiche e hanno deciso di versare su un conto bloccato la quota dell’1% che normalmente andava al vescovado di Basilea, per protesta sulla gestione degli abusi che, sostengono, «sono noti da decenni». «Basta chiarimenti fra colleghi, vogliamo chiarezza», si legge in un comunicato dei consigli ecclesiastici dell’area pastorale della regione di Willisau, a una trentina di chilometri da Lucerna. Esigono indagini indipendenti e un servizio di accoglienza delle vittime esterno alla chiesa, la fine della pratica di distruzione dei documenti riservati e l’apertura degli archivi del nunzio Martin Krebs. Non solo: d’accordo con il vescovo Gmür, chiedono «un impegno inequivocabile, chiaro e duraturo per avviare un cambiamento culturale e ristrutturare radicalmente il sistema». Il che significa, specificano, abolire il celibato obbligatorio dei sacerdoti e includere le donne «in tutti gli uffici e gli ordini» della chiesa.
Una cosa è certa: nulla sarebbe successo senza l’insistenza e il coraggio dei sopravvissuti. Nel 2010 Gérard Falcioni, insieme a Jacques Nuoffer e a Marie-Jo Aeby, ha fondato Sapec, Gruppo di sostegno alle persone abusate da personalità religiose, associazione che si batte affinché la chiesa riconosca le proprie responsabilità e si preoccupi di rendere giustizia alle vittime dei preti pedofili. Sapec in questi anni ha dato una spinta importante al processo di svelamento della realtà degli abusi in Svizzera: prima con la costituzione della Cecar nel 2016, una commissione di ascolto di vittime di abuso clericale costituita da vescovi e sopravvissuti con il sostegno di alcuni parlamentari, e poi con la collaborazione all’inchiesta dell’università di Zurigo insieme all’omologa IG-MikU, attiva nella Svizzera tedesca.
«La Cecar è davvero un risultato unico al mondo, perché è una commissione neutrale, creata con il consenso dei preti e delle vittime. Da un lato, le autorità ecclesiastiche che hanno firmato l’accordo sono coinvolte nel suo funzionamento, dall’altro le vittime beneficiano del fondo di risarcimento», spiega Jacques Nuoffer, psicologo e presidente Sapec, anche lui sopravvissuto all’abuso di un abate quando era ragazzo. Sempre nel 2016, la Conferenza dei vescovi e l’Unione dei superiori maggiori religiosi della Svizzera hanno infatti istituito una commissione di indennizzo per chi ha subito violenza in un contesto ecclesiale: la somma è alquanto simbolica – fino a ventimila franchi – ma perlomeno è un segno che la chiesa comincia ad assumersi le proprie responsabilità. Secondo Nuoffer, una cinquantina di persone ha già usufruito del risarcimento. Anche se, sottolinea Gérard Falcioni, «c’è una disparità di trattamento fra chi parla e chi no: sappiamo che la diocesi di Friburgo ha versato fino a centomila franchi alle vittime che hanno promesso di tacere, mentre quelle che denunciano ne ricevono solo ventimila. La verità costa cara». Fra i promotori della Cecar c’è il vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo Charles Morerod, lo stesso che nella sua diocesi ha istituito un gruppo di riflessione sull’eventuale rimozione dei mosaici di Rupnik, l’ex gesuita accusato di abusi su diverse donne, come abbiamo scritto su Domani (https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/marko-rupnik-gesuita-gesuiti-chiesa-cattolica-papa-ginevra-losanna-friburgo-cw2e7kv8).
Il nome di Morerod compare anche fra i sei vescovi denunciati dall’ex vicario generale di Losanna Nicolas Betticher, oggi parroco a Berna, al nunzio apostolico in Svizzera Martin Krebs. Secondo quanto scrive a maggio 2023 don Betticher nella sua lettera all’ambasciatore del papa, il vescovo Morerod sarebbe venuto a conoscenza di un caso di abuso nel 2011 e non avrebbe fatto nulla; anzi, avrebbe provveduto a promuovere il sacerdote colpevole, salvo poi sospenderlo nel 2020 quando la faccenda era ormai diventata di dominio pubblico. Per molti, la lettera di accusa di Betticher, resa nota dal giornale svizzero SonntagsBlick lo scorso 10 settembre, non è che una vendetta personale per non essere stato eletto vescovo al posto di Morerod. «Io e altre tre o quattro vittime abbiamo denunciato il fatto che Betticher ci ha maltrattato», sottolinea Nuoffer, e anche Falcioni conferma che gli appelli delle vittime a Betticher quando era vicario restavano lettera morta.
Una questione non chiara, che ha portato il Dicastero dei vescovi ad affidare al vescovo di Coira Joseph Bonnemain un’indagine previa canonica sulle presunte coperture di abusi, che dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno. Le direttive della Conferenza dei vescovi svizzeri infatti sono precise e – a differenza di quanto succede in Italia – impongono ai responsabili della Chiesa di denunciare al pubblico ministero i sospetti di reati sessuali contro i minori. Inoltre, una legge ecclesiastica del 2019 «obbliga a segnalare immediatamente qualunque sospetto di occultamento al vescovo competente, il quale ha a sua volta l’obbligo di informarne subito l’autorità vaticana competente. Inoltre, questa legge stabilisce che impedire o influenzare le indagini o i procedimenti giudiziari sia ecclesiastici che statali è un crimine che deve essere denunciato e – a seconda del risultato del procedimento penale ecclesiastico – anche sanzionato». Su questo punto è netto il vescovo Alain de Raemy, amministratore apostolico della diocesi di Lugano: «il nostro dovere, come vescovi, è innanzitutto di accogliere e ascoltare le vittime che vogliono parlarci e di prevenire altri abusi. Appena veniamo a conoscenza di un reato dobbiamo sempre denunciare alla giustizia civile, anche se la vittima non è d’accordo, per prevenire altri possibili abusi. Noi possiamo poi prendere le misure interne alla Chiesa, che riguardano le conseguenze per la vita del sacerdote in quanto sacerdote, ma non siamo titolati per fare un’indagine penale, che spetta alla magistratura. La legge civile vale per tutti, non ci sostituiamo mai allo Stato».
Monsignor de Raemy giudica con favore lo studio-pilota di Zurigo: «questo report l’abbiamo voluto, commissionato e finanziato proprio per mettere le persone vittime al centro e per capire dove abbiamo sbagliato e cosa possiamo fare per correggerci, perché ogni abuso, di qualsiasi tipo, è in totale contraddizione con il Vangelo». La situazione della diocesi di cui monsignor De Raemy è amministratore è la più controversa: infatti è proprio a Lugano che i ricercatori zurighesi hanno avuto le difficoltà maggiori nel ricostruire i casi di abuso, a causa della distruzione di interi archivi segreti, contenenti i “casi riservati”. Nel 1995, secondo quanto riporta una lettera dell’allora vicario generale al nunzio apostolico, il vescovo Eugenio Corecco ha dato l’ordine a un sacerdote di bruciare il contenuto dei suoi cassetti: il sacerdote in questione, contattato dal gruppo di ricerca, ha però negato di aver distrutto la corrispondenza sui casi di abuso sessuale. «Una dichiarazione – spiega Vanessa Bignasca – che rende impossibile capire che cosa ci fosse davvero in quei cassetti». Quattro anni dopo, un altro prete, già cancelliere diocesano, ha eliminato in dieci mesi ben cento anni di carte riservate: «un impegno che ho svolto con il criterio evangelico della ‘misericordia’ – scrive in una nota alla diocesi – togliendo tutti quei documenti che gettassero anche un’ombra sugli interessati». Il diritto canonico, infatti, consente che gli atti riguardanti «le cause criminali in materia di costumi», come gli abusi sessuali sui minori, possano essere distrutte «se i rei sono morti oppure se tali cause si sono concluse da un decennio con una sentenza di condanna» (art 489.2). Una norma che certo non agevola la trasparenza. «Di questi documenti si dovrebbe comunque conservare un breve sommario con il testo della sentenza definitiva, disposizione che nella diocesi di Lugano non è stata osservata», sottolinea Bignasca.
Le gravi lacune trovate negli archivi ecclesiastici ticinesi si sommano alla mancanza di un’associazione di sostegno alle vittime di lingua italiana, come invece accade nella Svizzera francese e tedesca, e restituiscono l’immagine di una comunità in cui ancora oggi vige il silenzio sulla pedofilia dei preti. Non stupisce quindi che la Commissione diocesana di esperti sugli abusi sessuali in ambito ecclesiale sia stata contattata in sette anni soltanto da quattro persone, un dato – sottolinea il report – verosimilmente non dovuto al fatto che in Ticino si sono verificati pochi casi, ma che «evidenza piuttosto una forte riluttanza da parte delle persone offese a denunciare i casi di abuso alla Commissione ticinese».
La posizione geografia e la storia recente del Ticino (fino al 1884 le parrocchie dipendevano dalle diocesi di Milano e Como) lo rendono per molti versi più vicino alla consuetudine omertosa dell’Italia che ai tentativi di chiarezza portati avanti negli altri cantoni. La frontiera fra i due paesi poi, è blindata per i migranti ma è quanto mai porosa quando si tratta di sacerdoti con un passato poco presentabile, come testimonia la storia di don Italo Casiraghi. Ex parroco di Gordola, vicino a Locarno, viene arrestato dalla polizia nel 2004 con l’accusa di «atti sessuali con fanciulli e molestie sessuali» e condannato l’anno seguente a sei mesi con la condizionale, ma nel 2012 viene ritrovato dal presidente della Rete l’Abuso Francesco Zanardi mentre dice messa a Pietra Ligure, in provincia di Savona. Il trasferimento da una parrocchia all’altra dei preti pedofili, pratica usata abitualmente dai vescovi per far sparire temporaneamente i sacerdoti con denunce (ma anche con condanne penali) non ha evidentemente confini.
Molto resta ancora da capire per avere un quadro completo della realtà, come sottolineano gli stessi redattori del report. Restano per esempio da indagare l’associazionismo cattolico, i gruppi giovanili, a partire dagli scout, e da approfondire la gestione delle numerose scuole e collegi cattolici. «L’orrore della chiesa è che gli abusatori vengono coperti dai loro superiori. Non c’è mai stato un preside che abbia protetto un insegnante responsabile di reati di questo tipo, mentre nel caso della chiesa cattolica è stata l’istituzione stessa a insabbiare», conclude Falcioni. «I vescovi svizzeri hanno avuto coraggio a chiedere un’indagine indipendente, ma all’interno della chiesa è più che mai necessario un cambiamento radicale».
https://www.editorialedomani.it/fatti/vaticano-studio-svizzero-abusi-t5rexl7d
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