Federica Tourn – Editoriale DOMANI – Un ragazzino di tredici anni scappa dalla finestra del Seminario vescovile di Savona, dove era entrato tre anni prima pieno di entusiasmo all’idea di diventare sacerdote.
Siamo nel 1968, il grande istituto dove studiano i candidati al presbiterato accoglie ragazzi che vanno dalla prima media alla specializzazione in filosofia e teologia; il rettore è don Andrea Giusto, un prete gioviale e apprezzato dagli studenti. Eppure, qualcosa non va.
Tornato a casa, Alessandro Nicolick – questo il nome del bambino – è taciturno e nervoso ma non vuole dare spiegazioni. Una volta adolescente comincia a far uso di eroina, diventa tossicodipendente e finisce in carcere, dove si ammala di Aids. «In ospedale, poco prima di morire, mi ha raccontato di essere stato abusato quando era in Seminario da un prefetto di camera, un seminarista più anziano che assisteva i piccoli, Pietro Pinetto», denuncia il fratello Roberto.
Don Pinetto, morto l’anno scorso di Covid, nel 1972 era stato nominato vice rettore del Seminario vescovile e nel 1981 ne era diventato anche direttore spirituale. Nel 2013, quando era parroco della chiesa di San Michele a Celle Ligure (Savona), viene però denunciato da un ex altro seminarista, che dichiara di essere stato abusato da lui negli anni ’70, ma il procedimento è archiviato perché il fatto è ormai prescritto. Il sacerdote, però, querela per diffamazione e calunnia la presunta vittima, due giornalisti locali e Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso.
A quel punto, il colpo di scena: viene riaperta l’indagine e spuntano altre testimonianze, «comprese le segnalazioni fatte all’allora vescovo di Savona Franco Sibilla, che non intervenne, e che aprono il vaso di Pandora degli abusi sui minori nella chiesa savonese, più preoccupata di proteggere i responsabili che di evitare nuove vittime», commenta oggi Zanardi.
La gip Fiorenza Giorgi, infatti, nelle motivazioni del decreto di archiviazione del procedimento per calunnia a don Pinetto pubblicate dal Secolo XIX, evidenzia che le indagini hanno fatto emergere elementi di prova che «confermano gli abusi» nel Seminario e rileva che «la curia si è preoccupata di salvare le apparenze invece di pensare a quei ragazzi che, tra l’altro, rappresentavano il futuro della chiesa stessa».
Zanardi è il primo che, a partire dal 2010, porta all’attenzione della magistratura i tanti casi di pedofilia che affliggono la diocesi di Savona, a partire da quello di don Nello Giraudo, che lo riguarda in prima persona. Don Giraudo, oggi ridotto allo stato laicale, nel 2012 è stato condannato a un anno e sei mesi di carcere per violenza su minore; molte altre denunce, compresa quella di Zanardi, sono invece cadute in prescrizione.
Anche un insegnante del Seminario, don Giorgio Barbacini, si rivela un pedofilo: sempre nel 2010 viene infatti condannato in via definitiva a tre anni e sei mesi per violenza aggravata e continuata su un minorenne extracomunitario affidato alla sua custodia – latitante in Svizzera e in Marocco, sarà arrestato cinque anni dopo durante una visita a casa.
Intanto, Roberto Nicolick non si dà pace. Per arrivare alla verità, chiede alla Procura il sequestro della documentazione scolastica e psicologica redatta dagli insegnanti del Seminario su suo fratello, scrive lettere al vescovo Vittorio Lupi (a capo della diocesi dal 2007 al 2016), lo aspetta addirittura una domenica all’uscita della messa insieme a Zanardi: tutto senza successo. Per tenerlo buono, nel 2013 la diocesi pensa bene di mandargli a casa il vicario generale, don Antonio Ferri, che in sua assenza fa firmare alla madre novantenne una dichiarazione in cui attesta l’estraneità della curia nella triste vicenda del figlio Alessandro. «Un foglio senza valore legale ma che toglieva credibilità alla mia ricerca di giustizia», commenta Nicolick.
Non è finita qui. Don Pinetto, sempre difeso pubblicamente dalla curia, aveva ricevuto in realtà un’ammonizione dal vescovo, come attesta una lettera del 1° luglio 2016 indirizzata all’autorità giudiziaria e firmata proprio da monsignor Lupi, pubblicata dalla Rete l’Abuso, in cui si dà conto di un decreto emesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 29 maggio 2015, segno che un’indagine canonica sul conto dell’ex vice rettore c’era in realtà stata. Nonostante l’ammonizione, Lupi colloca don Pinetto nella parrocchia di San Francesco da Paola, con un oratorio frequentato da oltre duecento bambini. «Allarmati dalle voci sul suo conto, le madri si rivolgono al parroco, che cerca di tranquillizzarle citando proprio il documento estorto tre anni prima alla signora Nicolick», racconta Zanardi. A quel punto, Roberto decide di presentare una denuncia per presunta circonvenzione di incapace contro il vicario, che però non avrà seguito.
Un clima aspro, come si vede, in cui si vedono le ombre lunghe delle coperture, delle mezze verità, dei raggiri. «Anche se sono emerse soltanto dopo il duemila, le tendenze di don Pinetto in Seminario si erano manifestate sin dagli anni Settanta, quando un ragazzo aveva già detto a due preti della diocesi di aver subito abusi», dice don Giovanni Lupino, oggi rettore della chiesa del Sacro Cuore di Gesù a Savona. «Anche io scrissi a Pinetto che ad accusarlo erano proprio i suoi “cocchi”, i ragazzi orfani di cui si occupava un po’ troppo – prosegue Lupino – da cappellano in carcere avevo incontrato un ex seminarista, oggi assistente sociale, che mi aveva raccontato che don Pietro lo portava nei bagni e lo toccava con la scusa di insegnargli una corretta igiene intima».
Storie note nella diocesi ma che, all’interno del clero, soltanto don Lupino, che ha frequentato anche lui il Seminario di Savona negli anni ’60, ha il coraggio di denunciare. «Sono del’ 52: del mio anno eravamo una quindicina di seminaristi e soltanto io sono diventato sacerdote – racconta – quasi tutti gli altri non hanno più messo un piede in chiesa».
Cose vecchie, di un’epoca passata? «Oggi non è cambiato niente, nonostante le équipe di psicologi che dovrebbero essere di sostegno agli educatori che vivono a stretto contatto con i ragazzi – dichiara deciso Lupino – è il sistema stesso dei Seminari come luogo della formazione per il clero che non funziona, perché l’obiettivo è sempre quello di produrre sacerdoti».
Futuri preti sempre più preziosi per la Chiesa se, come testimoniano le statistiche dell’Annuario pontificio 2021, nell’arco di mezzo secolo le nuove vocazioni sono diminuite di oltre il 60% passando dai 6.337 del 1970 ai 2.103 del 2019, con un crollo nei dieci anni che vanno dal 2009 al 2019, in cui la flessione dei seminaristi diocesani in Italia tocca il 28%. Secondo le rilevazioni dell’Ufficio nazionale per la pastorale della vocazioni della Cei, sono 1.804 i seminaristi diocesani che vivono nei 120 seminari maggiori e quasi la metà ha un’età compresa tra i 26 e i 35 anni, mentre diminuiscono i seminari minori, riservati ai ragazzi delle scuole secondarie: in Italia ne restano 72.
Oggi il Seminario diocesano di Savona non accoglie più studenti: è diventato una casa per ferie di lusso. I problemi, in ogni caso, non hanno riguardato soltanto questa struttura, ma anche molti altri seminari nel nostro paese, dalla Sicilia al Veneto. Nati con il Concilio di Trento, sono fabbriche di preti cresciuti in ambienti totalmente maschili, scollati dalla realtà, come racconta Marco Marzano nel suo libro La casta dei casti, in cui parlare di sesso resta il più grande tabù. «L’educazione in Seminario, con la cultura del silenzio che vige nell’istituzione, produce un terreno fertile per gli abusi», commenta lapidario don Lupino.
«In Seminario ho visto di tutto – racconta Giuseppe (nome di fantasia) – chi faceva uso di stupefacenti, chi prendeva tranquillanti per tirare avanti, chi usciva regolarmente di notte; il rettore sapeva ma non diceva nulla». Giuseppe ha frequentato sei diversi seminari – a Grosseto, Siena, Fermo, Ancona, Anagni – e dall’ultimo è uscito sei anni fa. Ricorda un clima da caserma, con umiliazioni pubbliche e storielle oscene, organizzato secondo regole ferree: «eravamo sotto pressione, con orari scanditi dagli impegni, e dovevamo chiedere permesso per ogni cosa. Giocavamo a calcio, facevamo tante attività fisiche per sfogare la tensione sessuale, però tutto girava sempre intorno alla questione dell’affettività. Qualcuno è stato scoperto con una ragazza, altri si baciavano in camera e i formatori chiudevano un occhio; poi, naturalmente, c’erano i rapporti fra seminaristi». Giuseppe testimonia che ha compilato decine di test psicologici simili a quelli proposti durante la visita militare: «gli stessi insegnanti non sono formati per capire chi hanno di fronte – continua – se facevo domande su come gestire la sessualità, mi dicevano “affidati alla preghiera”. Dovevamo sublimare. Certo, potevamo parlare con lo psicologo, che però era sotto la pressione dell’équipe, deputata a decidere se potevamo andare avanti o no. Nessuno raccontava le difficoltà, perché tutti volevano diventare preti».
Giuseppe, alla fine, non ha indossato l’abito talare; molti altri, però, continuano a diventare sacerdoti con “un’educazione cattolica” fondata, come cinquecento anni fa, sul celibato e sull’omertà di un clan di soli maschi.
Federica Tourn – Editoriale DOMANI
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