di Giorgio Gandola
“Stante la vigenza del segreto pontificio, il Tribunale non ha potuto rispondere ad eventuali richieste”. Tutto in un cavillo. Così il Tribunale ecclesiastico regionale lombardo ha negato l’accesso agli atti del procedimento intrapreso e concluso per giudicare don Mauro Galli, il sacerdote condannato in primo grado a Milano a sei anni e quattro mesi per abuso sessuale su Alessandro Battaglia ma assolto (come aveva anticipato La Verità) nel primo processo penale canonico.
Sia dal punto di vista giurisprudenziale, sia da quello procedurale sarebbe interessante capire in cosa si concretizza il forte discrimine fra una pesante colpevolezza (tribunale laico) e una sostanziale innocenza (tribunale religioso). La vicenda è la stessa, le prove anche, l’invito di don Galli a “dormire nel lettone” all’allora ragazzo di 15 anni – era il 19 dicembre 2011 – è stato confermato in ogni passaggio penale. E l’abuso sessuale nell’appartamento di Rozzano è alla base della sentenza milanese. La famiglia della vittima aveva inoltrato formale richiesta all’arcidiocesi dopo l’epocale svolta di papa Francesco, che a fine 2019 aveva tolto con un’operazione mediatica di risonanza planetaria il segreto pontificio sui reati di pedofilia in tonaca. Ma la trasparenza nella Chiesa avanza a passi lenti, come un pellegrino con enormi massi sulle spalle.
La motivazione per non rendere noti i fascicoli del processo canonico è tecnicamente inattaccabile anche se moralmente singolare. “Occorre tener conto che l’abolizione è stata decisa da Sua Santità Francesco con una disposizione resa nota il giorno 6 dicembre 2019”, sottolinea il documento firmato dal vicario giudiziale monsignor Paolo Bianchi. “Come tutte le disposizioni normative canoniche, non ha effetto retroattivo, salvo che ciò venga espressamente disposto”. Poiché la sentenza del tribunale ecclesiastico era stata emessa il 24 giugno 2019 (nel silenzio più assoluto), nulla si può condividere perché allora “il segreto pontificio era pienamente in vigore”.
Lo stesso consesso si rammarica di non poter trasmettere gli atti alla vittima per il semplice motivo che non sono più in suo possesso, “avendoli trasmessi alla Congregazione per la dottrina della fede, unico tribunale di appello per tutta la Chiesa in merito ai delitti in parola”. Così del procedimento canonico a carico di don Galli si conosce solo l’esito riassunto in una formula stringata: “sentenza dimissoria”. Significa che l’imputato non è stato né condannato, né prosciolto con formula piena, ma assolto per insufficienza di prove.
Condannato da un giudice laico, assolto (per ora) dalla Chiesa. La discrepanza ha un senso perché i parametri di giudizio sono differenti. Mentre per il tribunale italiano il crimine è contro la persona (la vittima), per quello ecclesiastico il crimine è di entrambi, un atto impuro contro Dio. E paradossalmente la vittima viene equiparata al reo perché lo avrebbe indotto a peccare. Lo sconfinamento nella morale è automatico. Quella morale che perfino il legale dell’imputato e dell’arcidiocesi di Milano, avvocato Mario Zanchetti, chiamò in causa nell’arringa finale del processo di corte d’Assise per salvare don Mauro.
“In quella vicenda c’erano fatti di rilevanza canonica ma non di rilevanza penale. C’erano fatti di rilevanza etica, morale reputazionale”, elencò. Aggiungendo: “Non sto bagatellizzando la situazione, sto dicendo che ciò che ha fatto don Mauro è stato profondamente sbagliato e che le conseguenze non saranno piacevoli”. Poi in un altro passaggio: “Sono 15 anni che seguo la diocesi di Milano e sono 15 anni che a tutti i sacerdoti, anche a quelli che escono dai seminari, dico che queste cose sono di una gravità inaudita. Un sacerdote non deve neanche dormire nella stessa stanza con un ragazzo, figurarsi nello stesso letto”.
Finora non sembra che i giudici ecclesiastici siano rimasti impressionati allo stesso modo; in attesa del procedimento d’appello in Vaticano, la sentenza dimissoria è un temporaneo lasciapassare verso la normalità. Dovesse essere confermata, in teoria il sacerdote potrebbe tornare ad incarichi ufficiali.
L’accesso agli atti sarebbe stato interessante anche per cogliere un altro aspetto, quello dell’eventuale coinvolgimento nella vicenda di Mario Delpini (arcivescovo di Milano) e Pierantonio Tremolada (vescovo di Brescia), che allora erano rispettivamente vicario episcopale e responsabile dei giovani sacerdoti. Invece di aprire un’indagine previa si limitarono a trasferire il prete a Legnano, teoricamente sempre a contatto con adolescenti. L’arcivescovo di quel tempo, Angelo Scola, in una lettera di scuse alla famiglia stigmatizzò il “comportamento maldestro” dei suoi collaboratori.
Il vescovo Delpini, allora vicario episcopale, potrebbe essere coinvolto
La vicenda rischia di avere uno strascico pastorale sabato e domenica prossimi, quando Delpini visiterà la comunità cattolica di Rozzano e sarà accolto da fedeli e sacerdoti. I parenti della vittima gli consegneranno una lettera che ricorda il dolore di una vicenda ancora viva e mette in luce le opacità della gestione degli abusi da parte della Chiesa. “Monsignore, perché ha deciso di interrompere completamente i rapporti con noi? Qual è il nostro torto, essere la famiglia di un minore violentato da un prete?”. Domande che attendono da troppo tempo una risposta.
(Trascrizione da La Verità del 12 gennaio 2021)
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