Il parere controcorrente della commissione legislativa dell’Australia Occidentale. E le ragioni che hanno convinto i suoi membri a concludere che «è meglio non toccare il sigillo sacramentale»
Giovedì scorso la commissione legislativa della Camera alta dello Stato dell’Australia Occidentale (Western Australia) ha concluso a maggioranza che non è una buona idea obbligare per legge i sacerdoti a denunciare i casi di pedofilia appresi durante la confessione, imponendo loro in tal modo di violare il sigillo sacramentale. Improbabile che questa presa di posizione basti a mettere fine allo scontro in atto sul tema tra la Chiesa cattolica e le autorità dello Stato in Australia, battaglia di cui Tempi si è occupato a più riprese. Tuttavia il parere della commissione resta una notizia in forte controtendenza, in un clima in cui l’approvazione di leggi di questo tipo appare ormai quasi scontata in tutti gli Stati del paese.
Per l’esattezza, riporta un articolo della Catholic News Agency, la commissione in questione ritiene giusto che «i ministri del culto siano esentati dalla responsabilità penale [in relazione all’obbligo di denuncia] soltanto quando la loro convinzione si basi esclusivamente su informazioni rivelate loro durante la confessione religiosa». E invita il legislatore a dialogare con i rappresentanti religiosi al fine di trovare vie diverse dalle disposizioni di legge per agevolare in qualche modo l’utilizzo di tali informazioni.
Come detto, la presa di posizione appare sorprendente, se si considera il contesto. In Australia Occidentale l’obbligo per i preti di violare il segreto del confessionale in caso di presunte “notizie” di abusi su minori è una misura contenuta in un progetto di legge (il cosiddetto Children and Community Services Amendment Bill) presentato nel novembre dell’anno scorso e giunto ormai in fase avanzata nell’iter di approvazione. Non a caso la commissione legislativa del parlamento ha approvato il parere in difesa del sigillo sacramentale a maggioranza risicata: 3 voti contro 2. Favorevoli i rappresentanti del centrodestra (Liberal Party) e l’indipendente (National Party), contrari quelli del centrosinistra (Labour Party).
E non c’è solo l’Australia. L’offensiva contro il segreto confessionale è in corso, con risultati diversi, anche altrove nel mondo (vedi California, Cile, Costa Rica), tanto che l’estate scorsa la Penitenzieria apostolica si è convinta a pubblicare, con l’approvazione di papa Francesco, una importante “Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale”, un documento da tenere presente. Tuttavia è in Australia che la campagna contro il sigillo sacramentale si è scatenata con maggiore furia. Diversi stati e territori del paese hanno già approvato leggi che impongono ai sacerdoti di denunciare i casi di pedofilia uditi in confessionale: in particolare gli stati di Victoria, Tasmania, Australia Meridionale, Queensland e il Territorio della Capitale, mentre nel Nuovo Galles del Sud l’operazione è fallita.
Di una legge analoga a quella attualmente in discussione presso il parlamento dell’Australia Meridionale si è parlato anche a livello federale. L’impulso iniziale è sempre lo stesso: le famose raccomandazioni della “Royal Commission into Institutional Responses to Child Sexual Abuse”, la Commissione d’inchiesta sulle risposte delle istituzioni agli abusi sessuali su minori che a suo tempo interrogò anche il cardinale George Pell e il cui lavoro da qualche anno detta la linea nella lotta alla pedofilia in Australia. Tra queste raccomandazioni, infatti, c’è anche quella di abolire il segreto confessionale. La scorsa settimana la Conferenza dei vescovi australiani ha fatto pervenire al governo di Canberra una lettera della Santa Sede datata 26 febbraio 2020 in cui il Vaticano, ribadendo il proprio impegno contro gli abusi del clero, risponde puntualmente a tutte le critiche mosse alla Chiesa cattolica dalla Royal Commission australiana.
Fin qui il contesto battagliero in cui si inserisce il sorprendente parere della commissione parlamentare dell’Australia Occidentale contro l’obbligo per i confessori di denunciare i presunti abusi. Più che per la notizia in sé, comunque, l’articolo della Catholic News Agency segnalato sopra è interessante per gli argomenti che raccoglie in difesa del sacro sigillo. Vi si apprende, tanto per dare un’idea, che la Commissione legislativa ha ricevuto 606 interventi in merito, di cui «oltre il 90 per cento contrari alla violazione del segreto confessionale».
Uno di questi, informa la Cna, è firmato da Mark Baumbgarten, sacerdote dell’arcidiocesi di Perth. Facendo notare l’inapplicabilità di una legge del genere, anche per via dell’anonimato di molte confessioni, il prete australiano ha scritto:
«Sospetto che uno dei risultati di questo tipo di leggi sarà che molte parrocchie probabilmente escluderanno le confessioni faccia a faccia per proteggere i propri preti. Per di più queste leggi sono inapplicabili. A meno di non piazzare microspie nei confessionali, l’unico modo per beccare un prete sarebbe quello di provare a incastrarlo con finti penitenti armati di registratori: un metodo che apparirebbe particolarmente disonesto».
Così si conclude la missiva del sacerdote:
«Noi sacerdoti ci assumiamo impegni solenni davanti a Dio, e io sono molto più preoccupato di come mi giudicherà Dio che non di come sono visto dai potentati di questo mondo. Andrei assolutamente in prigione o affronterei qualunque altra punizione civile piuttosto che rompere il sigillo sacramentale, e sospetto che tutti i preti – a prescindere dal loro orientamento ideologico – direbbero lo stesso. In effetti ci sono stati nel corso dei secoli alcuni preti santi che hanno subìto il martirio a causa del loro rifiuto di violare il segreto confessionale. Ciò detto, io non ho alcun desiderio di diventare un martire – né in senso figurato né in qualunque altro modo – e prego affinché in questa materia prevalga la ragione, permettendo ai leader civili e della Chiesa di collaborare per garantire la sicurezza dei giovani e dei più vulnerabili all’interno della nostra comunità».
Il 6 agosto scorso, invece, davanti alla commissione si sono presentati l’arcivescovo di Perth, Timothy Costelloe, e il sacerdote ortodosso Abram Abdelmalek, entrambi decisi, secondo la sintesi della commissione stessa, a «sostenere l’introduzione dell’obbligo di denuncia per i ministri del culto, con l’eccezione della confessione».
Questi alcuni passaggi dell’intervento di monsignor Costelloe, riportati dalla Cna:
«La legge proposta renderebbe i preti che rimangono fedeli agli obblighi assunti al tempo della loro ordinazione… perseguibili e condannabili in quanto criminali per essere rimasti fedeli ai propri impegni. Rendere illegale il libero esercizio di una parte essenziale della fede cattolica mi sembra una cosa che le moderne società laiche hanno sempre inteso esorbitare i limiti della loro autorità».
Qualora un sacerdote durante una confessione apprendesse di un caso di pedofilia, secondo l’arcivescovo di Perth,
«sarebbe responsabilità del prete fare del suo meglio per convincere il colpevole che deve fermarsi e che l’unico modo possibile per fermarsi è consegnarsi alle autorità, e assicurare a questa persona che egli la aiuterà a fare tutto questo. È chiarissimo, nella maniera più assoluta, che il sacerdote ha la fondamentale responsabilità di fare tutto quel che può senza violare il sigillo della confessione per assicurarsi, nel limite del possibile, che gli abusi si interrompano».
Domanda: i preti cattolici si sottometterebbero a una legge che imponga loro la violazione del sigillo sacramentale? Risposta di Costelloe:
«Ogni sacerdote conosce quali sono i propri obblighi e conosce quali sono le condanne per la mancata fedeltà a tali obblighi; sa anche quali sono i fondamenti di quegli obblighi, e i fondamenti di quegli obblighi dal punto di vista della Chiesa sono la legge divina. Di certo non ho intenzione di dire ai miei sacerdoti di violare la legge divina. Non dirò loro di farlo; non posso dire loro di farlo. Ho abbastanza fiducia nei preti dell’arcidiocesi di Perth per ritenere che essi sapranno esattamente come devono rispondere in ogni situazione particolare e quali sono i loro obblighi, e che gli obblighi sono in conflitto. Sono in conflitto l’obbligo verso la legge civile e l’obbligo verso la legge di Dio. Non ho dubbio su quale decisione prenderei se mi trovassi davanti a una simile sfida e non ho dubbi so cosa deciderebbero altri preti».
Secondo il prelato, infine, una norma del genere, oltre che fuori dalla portata del potere politico, rischierebbe di essere controproducente rispetto allo scopo che si prepone, la lotta pedofilia. Non solo perché tanti predatori di minori, sapendo di rischiare di essere automaticamente denunciati, probabilmente inizierebbero a evitare di confessare le proprie colpe. Ma c’è un altro motivo:
«Se si tratta di qualcuno che vuole rivelare di essere stato abusato, confidando sul fatto che il confessionale è un posto sicuro dove parlarne, confidando che quanto detto resterà segreto, anche questi rinuncerà a venire, e forse non riuscirà a fare i conti con quanto è successo. Per questo io temo davvero che il risultato di tale cambiamento potrebbe ben essere per i bambini e per i giovani una sicurezza minore, non maggiore».
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