di Marco Marzano
in “il Fatto Quotidiano” del 15 aprile 2019 Quello pubblicato, su una rivista tedesca, dall’ex papa Joseph Ratzinger a proposito di pedofilia clericale e dintorni è un documento importante, che suggerisce molte considerazioni. Trascuro quelle relative alla personalità del pontefice e soprattutto alle dimensioni abnormi del suo ego ferito per concentrarmi sulla tesi di fondo (certo non nuova, ma comunque attuale) che Ratzinger presenta nel suo articolo. In sintesi, secondo il papa tedesco, la diffusione della pedofilia è una diretta conseguenza del clima licenzioso e libertino instauratosi in Occidente a partire degli anni Sessanta e della conseguente morte di Dio, cioè della crescente mancanza di fede da parte delle popolazioni dei paesi più sviluppati. La tesi è falsa e ridicola: come tutti sanno, la pedofilia clericale è fenomeno antichissimo e non un risultato perverso del Sessantotto e del Vaticano Secondo, come sembra pensare Ratzinger.
Anzi, al contrario di quanto ritiene l’ex papa, il diritto dei bambini a non essere oggetto di attenzioni sessuali degli adulti è stato definitivamente sancito nella coscienza popolare proprio nell’ultimo mezzo secolo, e cioè dopo il Sessantotto. I bambini e i ragazzini di entrambi i sessi hanno infatti purtroppo sempre subito le attenzioni indesiderate degli adulti, anche di quelli in tonaca, ma è solo nella società democratica contemporanea che quei comportamenti vengono finalmente e giustamente condannati senza remore e le vittime incoraggiate a denunciarli. Ma nel documento c’è molto di più. Per Ratzinger, la pedofilia e gli abusi a danno dei minori non rappresentano nulla di peculiare: sono manifestazioni di una sessualità perversa al pari dell’omosessualità, della pornografia e in generale del sesso fuori dal matrimonio. Per il teologo tedesco, tutti questi sono comportamenti condannati dalla morale cattolica, in quanto manifestazioni dell’allontanamento da Dio e dalla sua volontà da parte di coloro che li hanno compiuti. Sfugge del tutto a Ratzinger l’elemento di colpevole manipolazione da parte di un adulto della volontà di un bambino presente in ogni abuso sessuale. La colpa per lui è quella di aver violato la legge di Dio.
Le vittime non solo non meritano per lui nessuna attenzione speciale, ma sono probabilmente, anche se Ratzinger qui non lo dice in modo esplicito, il più delle volte corresponsabili, anche se involontariamente, dello schiaffo inflitto a Dio da coloro che li hanno abusati. Citando il caso di una donna violentata da un prete da bambina, Ratzinger scrive che il sacerdote era solito accompagnare l’abuso con le parole “Questo è il mio corpo che è dato per te”. “È evidente – commenta nel documento l’ex papa – che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subìto”. Il problema per Ratzinger non è quindi rappresentato dalle terribili sofferenze psicologiche che seguono all’abuso, ma dal fatto che quella ragazza oggi non riesce ad accostarsi alla comunione senza sentir riecheggiare le parole del prete violentatore.
Il ragionamento di Ratzinger ha un’altra conseguenza, forse la più tragica di tutte. Se la crisi è soprattutto una crisi spirituale, una questione di fede, è chiaro che il rimedio dev’essere altrettanto spirituale e il prete che ha compiuto l’abuso dev’essere quindi soprattutto aiutato a ritrovare la fede perduta, a riottenere per intero la sua integrità spirituale. Forte di questo ragionamento, la Chiesa ha sottratto per decenni i suoi funzionari autori di reati sessuali alla giustizia per affidarli alle cure dei conventi, dei monasteri, dei centri spirituali specializzati. Solo lì, per i gerarchi come Ratzinger, gli abusatori (al pari degli autori di qualsiasi altra violazione delle norme morali cattoliche) avrebbero ritrovato quell’amore per Dio, quella volontà di servire fedelmente la Chiesa che erano loro mancati nei momenti in cui avevano sospeso il controllo dei loro istinti sessuali. In questa logica, curare gli abusatori spiritualmente senza far sapere alla gente quello che era successo è stato il modo migliore per garantire il recupero del funzionario “caduto” e insieme preservare dallo scandalo la comunità dei fedeli.
Un’ultima considerazione riguarda il papa attuale, Francesco. La pubblicazione del documento di Ratzinger ha scatenato le fazioni ostili del papa tedesco e di quello argentino. In realtà di un dissenso tra i due non c’è alcuna prova: il documento di Ratzinger è stato visionato – e si presume approvato – dal segretario di Stato Parolin e da Bergoglio e si chiude con un esplicito complimento rivolto da Benedetto al suo successore. Quest’ultimo ha usato parole almeno in parte diverse da quelle di Ratzinger per analizzare il fenomeno della pedofilia. Però quella che Ratzinger ha ricostruito nel suo articolo è l’inossidabile cultura organizzativa della Chiesa Cattolica, quella con la quale essa affronta da sempre i crimini sessuali commessi dal clero. Per sfidare quella cultura serve molto di più che qualche nuovo slogan. Serve un programma di riforme che metta al centro la figura del prete e la concezione che la Chiesa ha della sessualità e delle interazioni umane. Un compito immenso che sinora Bergoglio non ha nemmeno tentato di affrontare.
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