Domani Bergoglio incontrerà le vittime delle violenze. Ma anche il presidente di Rete l’Abuso, che portò all’Onu la storia di don Galli
di Giorgio Gandola
“Come potrei recitare il Credo senza un brivido?”. È la domanda suprema, quella che accompagna Alessandro Battaglia quando si ritrova davanti la facciata di una chiesa, un campanile, un uomo in tonaca. E per rispondere a questo quesito, che accomuna nella perdita della fede numerose vittime di abusi del clero, domani papa Francesco ha deciso di rispondere, di allargare le braccia e accogliere questi figli martoriati nel corpo e più ancora nello spirito.
Sarà un incontro riservato, a Roma (luogo e orario segreti). Il Pontefice ha voluto ricavare un momento per le vittime dei preti pedofili a margine del grande summit sul tema della violenza sessuale dei sacerdoti nel mondo, convocato dal 21 al 24 febbraio per discutere della piaga con i presidenti delle Conferenze episcopali, per studiare strategie per prevenire, per combattere. Il titolo “La protezione dei minori nella Chiesa”dice tutto; gli incontri in sessione plenaria saranno moderati da padre Federico Lombardi, ex direttore della sala stampa vaticana, attuale presidente della Fondazione Ratzinger, al rientro sotto i riflettori. Quello del Papa è stato un colpo di scena. Vuole incontrare i rappresentanti delle vittime, ascoltare le loro storie proprio per mandare un messaggio forte a tutti coloro che parteciperanno al summit, che non è inteso come un convegno fra studiosi, ma (le parole sono di Francesco) “una riunione di pastori, un incontro di preghiera e discernimento”. Così domani, fra gli uomini e le donne che attendono da anni di poter ascoltare la parola di conforto del Santo Padre, ci sarà in spirito anche Alessandro, vittima quando aveva 15 anni di don Mauro Galli, giovane sacerdote che abusò di lui a Rozzano, in provincia di Milano, ed è stato condannato a sei anni e otto mesi in primo grado.
Il dossier verrà consegnato nelle mani di Jorge Mario Bergoglio da Francesco Zanardi, presidente di Rete l’Abuso, che da oltre un decennio è in prima linea contro la pedofilia dei preti e che l’anno scorso ha presentato il caso in un convegno mondiale organizzato dall’Onu, a Ginevra, innescando un modo di indignazione planetario. La particolarità della vicenda sta nel coinvolgimento morale dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e del vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada, che al tempo dei fatti (dicembre 2011) erano vicario episcopale e responsabile dei giovani sacerdoti. Allora, pur a conoscenza della vicenda, non aprirono il procedimento canonico, ma si limitarono a spostare il prete in un’altra città, sempre a contatto con adolescenti. Di fatto contravvenendo a uno dei punti cardine della tolleranza zero auspicata dal Vaticano: l’obbligo di denuncia da parte degli alti prelati, pena la rimozione dall’ufficio “per cause gravi”.
La famiglia di Alessandro, molto cattolica, affidò la propria disperazione e la propria sete di giustizia all’arcidiocesi. Ma dopo tre anni di rassicurazioni vuote e di quella che nel calcio si definirebbe melina, decise di denunciare il caso ai carabinieri. Senza per questo rinunciare a scrivere al Papa per illustrargli la vicenda con tutte le sue anomalie e inadempienze. “Abbiamo sempre notato una gentilezza solo formale”, ha ripetuto la famiglia anche dopo la sentenza, “con un disinteresse per la vittima e un solo interesse: difendere l’istituzione”.
Il carteggio fu regolarmente protocollato, finì negli uffici del Pontefice, ma invano. Infatti non gli impedì di promuovere Delpini e Tremolada. Domani lo riceverà di nuovo dalle mani di chi ha difeso la famiglia fin dal primo giorno. Zanardi rimane diffidente: “Quel summit mi sembra propagandistico, pubblicitario. Se Francesco vuole dare un segnale forte punisca i vescovi che in questi anni non hanno fatto altro che insabbiare”.
(trascrizione da La Verità del 19 febbraio 2019)
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